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Tommaso Giagni

Il senso di Solskjaer per il tempo

Ole Gunnar Solskjær ha saputo scegliere i momenti giusti, dentro e fuori dal campo.

Quando nel 1996 arrivò a Manchester per diventare un calciatore dello United, fu scambiato da una guida turistica per un ragazzo che voleva fare un tour dell’Old Trafford. L’equivoco si chiarì, la guida turistica gli prestò una penna e con quella penna Ole Gunnar Solskjær firmò il contratto con il club.

 

Ci vuole autorevolezza perché un allenatore venga riconosciuto fuori dal campo, ce ne vuole ancora di più dentro lo spogliatoio. L’autorevolezza si fa essenzialmente con i risultati: un passato da giocatore non basta, un passato da campione aiuta come un prestito a tempo.

 

Solskjær ci ha messo pochi mesi per diventare il tecnico rispettato di un top club e farsi confermare dalla società. Il suo percorso fin qui sulla panchina del Manchester United ha sorpreso tutti, per come ha saputo risollevare una squadra depressa, darle un’identità, raggiungendo il sesto posto in Premier e approdando ai Quarti di Champions League (con la clamorosa eliminazione del PSG).

 

Ha incarnato l’espressione con cui l’inglese descrive il suo ruolo originario: Caretaker Manager. Ha trasformato il temporaneo in stabile, rovesciando le premesse, pur avendo il perfetto profilo del traghettatore: di poca esperienza, di grande integrità professionale, capace di muovere affetto e memoria dei tifosi senza però essere una figura ingombrante.

 

Aveva poco tempo, come al solito. Come al solito, l’ha sfruttato.

 

Nel 2011, il Molde FK dell’omonima città sul Romsdal Fjord, in Norvegia, affida a Solskjær la sua panchina: il club va a festeggiare il centenario dalla fondazione e si premia con una scommessa piena di fascino. È un ritorno, perché qui Solskjær ha giocato; ma è anche una prima volta, perché finora ha allenato solo le giovanili del Manchester United. Porta con sé gli appunti che dal 2000 ha preso diligentemente al termine di ogni sessione d’allenamento con Sir Ferguson. 

 

Dopo una partenza difficile, il Molde mette insieme ottimi risultati e addirittura vince il campionato – il primo della sua storia. All’esordio alla guida di una prima squadra, Solskjær scrive la storia del club che lo lanciò nel calcio professionistico. Resterà, e il Molde vincerà anche il campionato seguente.

 

 

Foto di Mike Hewitt /Allsport

 

Nell’immaginario, Solskjær è quello della finale col Bayern. Champions League 1998-99, il gol nei minuti di recupero, dopo essere subentrato al titolare Andy Cole all’81º. È quello che aveva rovesciato il risultato, le certezze e le rassegnazioni. Con la sua rete il Manchester United aveva compiuto l’impresa di vincere il Treble – campionato, coppa e Champions League.

 

Diventò un’icona in questo modo, Solskjær: attraverso la simpatia che si nutre istintivamente verso l’eroe per caso.

 

Una partita importante l’aveva già decisa tempo prima. Era il suo esordio in Inghilterra, il 25 agosto 1996. Solskjær era entrato da pochi minuti e aveva segnato il 2-2 finale nella partita contro il Blackburn. 

 

I Rovers avevano appena perso Alan Shearer, che quell’estate il Manchester United aveva corteggiato con forza per poi vedersi preferire il Newcastle della città natale (circa 21 milioni di euro). Solskjær era un giocatore diverso per caratteristiche e per investimento, ma certo a qualcuno poteva sembrare un ripiego.

 

Era costato circa 2,5 milioni di euro, lui. Veniva dal calcio norvegese, dal club del Molde. Aveva fatto le giovanili e i primi anni da professionista in un club sconosciuto, il Clausenengen. Aveva esordito nella massima serie norvegese a ventidue anni compiuti. La Norvegia calcistica si affacciava come un esotismo, non circolavano ancora i nomi di Erik Mykland, di Öyvind Leonhardsen, dei fratelli Flo.

 

Lo United fu l’unico club a fare una vera offerta, benché sia Magath all’Amburgo sia Trapattoni al Cagliari fossero interessati.

 

In quei primi mesi a Manchester, Solskjær si guadagnò il soprannome di Baby Faced Assassin. Aveva un viso angelico e un corpo leggero che non faceva pensare a un attaccante da calcio inglese, ma aveva anche cinismo sotto porta e grande agonismo. Ricorderà: «Potevo essere un diavolo: se in un contrasto c’era modo di colpire la caviglia dell’avversario, la colpivo». Sì, era un assassino con la faccia da bimbo. Rovesciava l’immagine come si rovescia una clessidra.

 

26 maggio 1999, la notte della finale col Bayern (John Peters/Manchester United via Getty Images)

 

Il posto dov’è nato, Kristiansund, ha circa 25mila abitanti e un’economia che gira intorno al merluzzo. 

 

Negli anni immediatamente precedenti alla nascita di Ole Gunnar, il 26 febbraio 1973, il padre aveva raggiunto l’apice della sua carriera sportiva: era stato il campione nazionale, ininterrottamente dal 1966 al 1971, nella lotta greco-romana. Lui stesso provò a combattere, tra gli otto e i dieci anni, perché Øivind Solskjær sognava che il figlio seguisse le sue orme. Anche queste aspettative sarebbero state rovesciate. 

 

Ole Gunnar non aveva la fisicità adatta alla lotta, in compenso ricopiava le formazioni delle squadre di calcio inglesi, leggeva le riviste Shoot e Match Weekly che arrivavano a Kristiansund e dormiva con un pallone nel letto. 

 

Il suo primo campo era stato un fondo misto di sabbia e ghiaia, talmente smisurato che essere precisi sotto porta significava risparmiarsi metri e fatica per recuperare la palla. Tifava per il Liverpool e provava ossessivamente a imitare un trick di Peter Beardsley.

 

A otto anni entrò nella squadra locale, il Clausenhengen. La scuola calcio era stata tirata su da un inglese di nome Harry Game. La fisicità esile di Ole Gunnar non sembrava adatta neanche al calcio: «Non catturava l’attenzione di nessuno» ricorderà il compagno di allora Arild Stavrum – vicino di casa e coetaneo, che avrebbe poi fatto una buona carriera da pro (Aberdeen, Beşiktaş, Mainz).

 

La prima squadra del Claushengen giocava di fronte a cento o magari cinquanta spettatori. Anche quando lasciò il club, alle soglie dei ventidue anni, Ole Gunnar pareva niente più che una stella del calcio minore – aveva segnato 115 gol in 109 partite nelle serie inferiori norvegesi. 

 

Il Molde lo acquistò per la miseria di 20.000 corone. Solskjær segnò due gol all’esordio e una tripletta alla seconda partita.

 

Un anno e mezzo dopo, si sarebbe ritrovato nel Manchester United di Sir Ferguson.

 

Dopo la finale di FA Cup vinta il 22 maggio 2004. Da sinistra: lui, Cristiano Ronaldo, Ferguson, Carroll, Fletcher e Djemba-Djemba (foto di John Peters/Manchester United via Getty Images).

 

6 febbraio 1999. Il Manchester United sta vincendo 4-1 in casa del Nottingham Forest, è il minuto 71 e Solskjær viene chiamato a entrare in campo. L’indicazione di Jim Ryan, assistente di Ferguson, è di limitarsi a tenere il pallone. Baby Faced Assassin invece segna quattro reti, la partita finisce 1-8.

 

Se venisse il dubbio che per un gregario come lui la panchina potesse essere accettabile come qualsiasi abitudine, la risposta è no: «Stare in panchina è pura agonia. Senti le farfalle nello stomaco perché non puoi aiutare» spiegò quando ancora giocava. Si incazzava ma poi tirava fuori il massimo, e questo alimentò il mito del Super-Sub, l’uomo che entra e risolve le partite; oggi lui preferisce esser stato questo piuttosto che un titolare anonimo.

 

Fuori ha dovuto restare a lungo, non solo per scelta tecnica. I tormenti al ginocchio hanno segnato gli ultimi anni della sua carriera, costringendolo a fermarsi praticamente tre stagioni dal 2003 al 2006.

 

Anche in nazionale, il posto non è quasi mai stato garantito. E anche in nazionale aveva segnato all’esordio, contro la Giamaica (26 novembre 1995). 

 

Ai Mondiali 1998, non partì mai titolare e giocò 94 minuti complessivi nelle quattro gare che impegnarono la Norvegia (eliminata agli Ottavi dal gol di Vieri).

 

La sua vita ha ruotato fin qui intorno a tre luoghi: Kristiansund, Molde, Manchester. L’unica deviazione ha rappresentato l’unico vero insuccesso della sua carriera nel calcio: nel gennaio 2014 viene nominato allenatore del Cardiff City, in primavera la squadra retrocede, a settembre le cose in Championship vanno talmente male che Solskjær deve lasciare la panchina. A posteriori dirà: «Non ero pronto».

 

Si prende un anno sabbatico e nell’autunno 2015 torna al Molde. È una scelta che rischia di isolarlo, di renderlo un allenatore buono per il campionato norvegese o per i ragazzini. Guiderà il club per tre stagioni, con ottimi risultati: il Molde si classifica secondo per due volte, nell’Europa League 2015/16 supera il girone di ferro con Celtic Glasgow, Fenerbahce e Ajax, per essere poi eliminato con gloria dal Siviglia.

 

La chiamata del Manchester United, prendere il posto di José Mourinho, è il treno che passa quando nessuno se l’aspetta. O magari lui sì – lui che sa come bisogna saltare sulle opportunità in corsa.

 

Allenatore del Molde FK (foto di VI Images via Getty Images).

 

Nell’agosto 2007 Solskjær annuncia il ritiro dal calcio giocato. Contestualmente inizia ad allenare, per conto di Ferguson, gli attaccanti del Manchester United. Nell’estate seguente prende la guida  dell’Under 23 del club.

 

Sarà il suo lavoro per tre stagioni. In quel periodo ha la possibilità di diventare Ct della Norvegia. Rifiuta. Non gli sembra il momento per un incarico del genere, in quel momento è «nel posto migliore per imparare».

 

L’amico Arild Stavrum ha raccontato un aneddoto molto significativo. Intorno ai diciannove anni, quando il suo talento si dimostrava più grande del club che l’aveva cresciuto, Ole Gunnar ebbe la possibilità di andare al Molde FK. Rimase però altri due anni al Clausenengen: voleva sentirsi più pronto di come si sentiva. Avere il senso del tempo significa anche questo. 

 

 

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Tommaso Giagni (1985) ha pubblicato la biografia Afferrare un’ombra. Vita di Jim Thorpe (minimum fax, 2023) e i romanzi I tuoni (Ponte alle Grazie, 2021), Prima di perderti (Einaudi, 2016) e L’estraneo (Einaudi, 2012). Tra le antologie a cui ha partecipato: Rivali e La caduta dei campioni (Einaudi), Ogni maledetta domenica e Voi siete qui (minimum fax). Collabora con le pagine culturali di «Avvenire», scrive per «Ultimo Uomo» dal 2014.