Una buona squadra di calcio dev’essere per forza un collettivo ben organizzato? Avrà più probabilità di vincere se tutte le sue azioni rispondono ad automatismi studiati? Guardando il Barcellona 2014-2015, decisamente non si ha l’impressione di una grande organizzazione, e però forse nessuna squadra regala questa sensazione di pericolosità in ogni momento della partita, che la rende, piaccia o no, una delle favorite d’obbligo.
Vale la pena ricordare che l’ultima vincitrice della Champions League, il Real Madrid, basandosi sull’intelligenza dell’allenatore nel raggiungere un equilibrio difensivo non sofisticatissimo ma efficace, e per il resto lasciare libertà ai solisti dalla trequarti in su, ha ottenuto quel successo con pieno merito contro l’Atlético Madrid, la squadra che invece rappresenta l’esempio migliore di calcio organizzato.
Da appassionati ci piace pensare al calcio come a un gioco che segue un qualche tipo di logica superiore, in cui le vittorie ricompensino una qualche intelligenza collettiva, invece non di rado a prevalere è la logica più elementare e brutale, quella del più forte: chi ha più talento vince, senza troppe storie.
Il Barça resta una squadra non particolarmente equilibrata, strutturalmente fragile in transizione difensiva, ma anche da questo punto di vista non è più improponibile come nei primi mesi. Comincia ad assumere una sua, seppure elementare, identità, e chissà che Luis Enrique non possa seguire il cammino di Ancelotti: diminuire via via i rischi, consolidare una struttura e nel mentre fare la differenza col suo tridente.
La partita di martedì è proprio una di quelle in cui a pesare è solo il talento. Di fronte al Barça c’era infatti una squadra disorganizzata, più disorganizzata del Barça, e ugualmente dipendente dai solisti. Con la differenza che il talento individuale nel City è minore e concentrato in molti meno giocatori (sostanzialmente, restando alle formazioni di martedì sera, un Kun Agüero quest’anno in formato soprannaturale, e David Silva). Sommati tutti questi fattori, si capisce come a momenti il Manchester City abbia rischiato l’umiliazione.
Il piano difensivo iniziale del City, col blocco medio-alto. Un paio di secondi dopo son già sparpagliati per il campo.
Pellegrini ha basato la partita su un blocco difensivo-medio alto che cercasse di infastidire il Barça sui primi passaggi, e al tempo stesso su una difesa molto aggressiva, in cui i marcatori seguono l’uomo che capita nella zona per non farlo girare: in particolare ogni volta che il Barça cercava di appoggiare a Messi e Neymar larghi, braccarli con Clichy e Zabaleta.
Il risultato è stato semplicemente disastroso, frutto di un errore sia di concetto che di esecuzione. Il concetto è sbagliato perché questa non sembra la miglior maniera di difendere contro Messi. L’argentino gioca più felice quanto più gli avversari entrano su di lui per rubargli la palla: anzitutto, non gliela tolgono, e poi andandolo a cercare liberano anche uno spazio che Alves o chi per lui può attaccare liberamente. Paradossalmente, il modo migliore di difendere contro Messi sembra essere ignorarlo quando prende palla sufficientemente lontano dalla porta e preoccuparsi di non aumentare gli spazi fra difensore e difensore vigilando al tempo stesso sui possibili passaggi filtranti di Messi. Quello che è riuscito a fare il Málaga sabato scorso (non si sta dicendo che sia la ricetta infallibile, servono comunque concentrazione massima, fortuna e un Messi non troppo in serata) e che è l’esatto opposto di quanto visto all’Etihad, con un Clichy ripetutamente ridicolizzato dal quattro volte Pallone d’oro (e pure espulso per doppio giallo nella ripresa).
Questa è una delle 300 volte nel primo tempo in cui Messi sotto pressione si è liberato di Clichy. Non solo è difficile rubargli palla, ma seguirlo così tanto è controproducente perché si creano gli spazi per gli inserimenti degli altri giocatori del Barça (qui Alves verrà liberato in sovrapposizione, col vento in poppa rispetto a Silva che deve correre all’indietro).
Non fosse per il rigore+ribattuta sbagliato allo scadere, andrebbe risaltata la prestazione ancora una volta straordinaria di Messi, un dominio sul gioco quasi demenziale per un ottavo di Champions contro i campioni inglesi in carica. Alternando la gambeta da potrero (il dribbling istintivo da campetto improvvisato, tipico della tradizione calcistica argentina) a pause da attore consumato, Leo nel primo tempo è sembrato un burattinaio che muoveva i fili di tutti gli altri 21 giocatori in campo.
All’ispirazione individuale di Messi si è aggiunta un’esecuzione dilettantesca della strategia difensiva del City, quasi un insulto per questi livelli. Vedere per credere l’azione del secondo gol: l’esecuzione del pressing su base esclusivamente individuale, porta allo sproposito di un Fernando trascinato quasi al guinzaglio da Iniesta verso il lato sinistro, mentre tutta la zona centrale, al limite dell’area, rimane sguarnita.
Ridotta la partita al semplice uno contro uno, la qualità del Barça deborda: Messi torna a un classico del suo repertorio, attirare l’intera difesa su di sé con la semplice minaccia del dribbling (qui in realtà gliene scappa anche uno vero di dribbling... pazienza) per poi smarcare il compagno in zona-gol: il resto lo fanno Jordi Alba e il doppiettista Suárez. La sgangherata fase difensiva del Manchester City torna a rendere devastante il Messi che indugia in zona centrale, soluzione che contro difese organizzate generalmente non funziona più e anzi scopre ulteriormente il Barça obbligando Alves all’ala.
Azione del secondo gol blaugrana. Concentratevi sui nomi dei giocatori del City in nero: in teoria dovrebbero far parte di uno stesso reparto.
Questo nuovo Barça però è una squadra per natura altalenante, e l’altalena stavolta porta da un primo tempo da 3-4 a zero a un secondo tempo (ma già nel finale del primo si intravede qualcosa) più titubante, in cui oltre al fatto che il City bene o male debba reagire, subentra la mancanza di controllo a centrocampo ormai tipica della squadra di Luis Enrique.
Cioè, il Barça continua ad avere nettamente più possesso, e tutte le manovre prolungate che propone gettano nell’impotenza il City (spunta sempre l’uomo libero), ma manca qualcosa che leghi tutte queste fasi. Il Barça ora è Messi e altri due (ma anche un Piqué in notevole crescita ultimamente, attenzione) e la soluzione offensiva prediletta, ripetuta allo sfinimento, prevedibile ma non per questo difendibile, perché non è difendibile la qualità tecnica con cui viene eseguita, è il lancio di Messi fra terzino e centrale destro avversario alla ricerca del taglio sul lato opposto di Neymar o, persino più spesso, Jordi Alba.
Il Barça resta una squadra di possesso, ma articolato ora con passaggi più verticali, senza che nessuno a centrocampo riesca a offrire anche quell’alternativa più compassata che in alcuni momenti la gara può richiedere. Con le mezzali ridotte a vallette di Messi e altri due, il Barça non riesce più a congelare le partite, e quindi può capitare di notare come per gli avversari una volta entrati in possesso del pallone sia molto facile smarcare l’uomo alle spalle di Rakitic e Iniesta, e a momenti mettere in inferiorità Busquets con le diagonali tra le linee dei falsi esterni Silva e Nasri.
Silva è l’unico all’altezza della squadra di Pellegrini, neanche il Kun brilla nonostante segni il gol dell’1-2, smarcato proprio da un colpo di tacco geniale di Silva, in un’azione nata da una palla persa dal Barça (Clichy per una volta anticipa Messi) in uno di quei momenti in cui tende ad allungarsi. La partita potrebbe riaprirsi, ma il secondo giallo a Clichy la mette sui binari di un possesso rilassato del Barça, fino al rigore sbagliato da Messi, che potrebbe rappresentare una svolta psicologica del tutto insperata in vista del ritorno, come suggerisce l’esultanza al fischio finale dei giocatori del City e la disperazione di Messi & C. per il rigore sbagliato, scena a prima vista bizzarra per un 2-1 fuori casa.