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Elena Marinelli

La pazienza di Sofia Cantore

Abbiamo parlato con l'attaccante fresca di convocazione in Nazionale.

Classe 1999, nella stagione 2020/2021 Sofia Cantore ha giocato come attaccante della Florentia San Gimignano, realizzando 9 gol e 5 assist in 22 presenze, la sua stagione complessivamente migliore. In prestito dalla Juventus Women, arrivava dal campionato non concluso del 2019/2020 con l’Hellas Verona Women, in cui fino alla sosta aveva realizzato 3 gol in 14 presenze.

 

La raggiungo al telefono, ha una voce squillante, è in una stanza silenziosissima e mi regala molta attenzione. La prima cosa che le chiedo è di non darmi del lei. Un po’ la spiazzo, un po’ abbozza, ma mi fa un favore e me la dà vinta.

 

Ho eletto due dei suoi gol della stagione appena terminata a miei preferiti in assoluto: uno lo ha segnato contro l’Inter, definendo la vittoria della squadra per 2–1 e l’altro contro l’Empoli Ladies, arricchendo una partita dal risultato pessimo (la Florentia ha perso 6–2).

 


Il gol contro l’Inter è il più bello della 21° giornata di campionato: Cantore riceve da Re e infila il destro nell’angolo lontano. 

 

Racconto a Sofia cosa mi è piaciuto: la coordinazione, l’intenzione di provarci, la velocità nel girarsi e prendersi la palla e imbastisco parole accorate, ma lei semplicemente si schermisce e mi dice di essere molto contenta per l’annata della squadra, al di là dei gol.

 

Come è andato l’allenamento? Sei stanca?

 

Bene, abbiamo quasi finito. A questo punto della stagione sono sempre stanca, è normale. Adesso aspetto se ci sono novità sul raduno della Nazionale previsto per il 5 giugno. Vediamo. [Sofia Cantore è stata poi convocata in Nazionale ndr]
.

 

Giugno è un mese particolare per te: nel 2018 ti sei infortunata.

 

Sì, era giugno e c’era la maturità. Ero appunto stanca a fine stagione e in un allenamento mi sono fatta male da sola, mi sono rotta il crociato. Non ho realizzato subito, ho metabolizzato lentamente. Ho fatto gli esami e poi mi sono operata.

 

Cosa ti ha fatto più soffrire in quel momento?

 

Mi è dispiaciuto non aver fatto l’Europeo Under 19. Emotivamente, poi, è stato difficile perché c’è voluta pazienza ed è stato frustrante. Ho capito cosa mi era successo quando ho iniziato la riabilitazione sul campo: dovevo correre tantissimo per recuperare la forza e la resistenza e mentre io ero indietro vedevo i quattro mesi passati e le ragazze della mia età che andavano avanti. Mi è dispiaciuto aver perso un anno e osservare le altre continuare
.

 

Ti sei ripresa appieno, però.

 

Ho ricominciato daccapo dopo quei sette mesi. È stata una batosta, perché non mi riconoscevo, non avevo più i colpi tra i piedi, avevo perso delle qualità tecniche. Tutti mi dicevano di darmi tempo, ma finivo le partite incavolata, mi sentivo frustrata, perché non mi riusciva di fare niente. Avevo paura di non tornare quella che ero prima. 

Ho dovuto ricostruire il mio fisico da zero nella forza, nel tono muscolare, ma questo mi ha portato a essere una calciatrice diversa: adesso so cosa vuol dire sacrificarsi, allenarsi duramente. Quindi ora lo posso dire: l’infortunio è stato brutto da un lato e positivo da un altro

 

Prima avevi meno consapevolezza del sacrificio?

 

No, però dai quindici ai diciassette anni circa in cui giocavo in serie C, avevo una vita completamente diversa: ho vissuto gli anni dell’adolescenza per come sono e avrei voluto vivere diversamente i primi anni alla Juventus: questo è un rimpianto che ho, se potessi tornare indietro rifarei le cose in un altro modo

 

Per esempio?

 

Ho capito che dovevo diventare un’atleta. Avevo amici, la compagnia del paese, uscivo più spesso. Poi a diciassette anni ero già alla Juve e non mi rendevo ancora conto delle effettive possibilità che c’erano: avrei potuto comprendere di più l’ambiente che avevo intorno e viverlo meglio. Non so se ho sprecato degli anni o in fondo va bene così. Capire subito che bisogna lavorare sodo per un obiettivo può essere utile, non ti fa perdere tempo
.

 

Aver sperimentato l’attesa di rientrare dall’infortunio, ti ha dato degli strumenti in più per affrontare lo stop dell’anno scorso e la pandemia? 

 

Secondo me ho usato una qualità legata all’infortunio: la pazienza. Quando ero infortunata, bisognava lasciare che il tempo facesse il suo corso e in effetti ho affrontato la quarantena in questo modo: mi sono allenata da sola perché era l’unica cosa da fare, perché volevo essere pronta nel caso in cui si fosse ricominciato. Nella riabilitazione sei sola, la forza la devi trovare da sola. Il fisioterapista ti dice cosa fare, ma poi sei tu a doverti motivare, a metterti d’impegno e fare gli esercizi. In quarantena è stato lo stesso: mi allenavo da sola, non era scontato niente, sperando di ricominciare e forse questo mi ha fatto riprendere in modo migliore anche la stagione quest’anno.

 

Sei cresciuta a Missaglia, in provincia di Lecco, dove hai iniziato a giocare a calcio. 

 

È stato tutto naturale, senza nessuna spinta a giocare a calcio. Ho iniziato quando andavo alle elementari: all’intervallo a ricreazione c’era un campo da calcio a scuola, giocavo con i miei compagni contro le altre classi, a partire dalla prima elementare. Da lì ho deciso di chiedere ai miei genitori di iscrivermi alla squadra dell’oratorio a Missaglia.
 

 

Com’era il confronto con i maschi e con le altre bambine (se ce n’erano)?

 

Ero l’unica ragazza, io consideravo tutti come fratelli, non mi interessava che fossero maschi e io no, giocavo sempre con gli stessi, fino a tredici anni, prima di andare al Fiammamonza. Quando andavo a giocare, quasi tutti pensavano che ero scarsa – arriva la ragazzina, capirai quanto sarà capace – invece poi alla fine ero brava e mi facevano i complimenti. In molti si sono ricreduti. Ho anche qualche ricordo rispetto al fatto che c’era sempre un problema per farmi fare la doccia negli spogliatoi, da un certo punto in poi, quando non eravamo più bambini.

 

E comunque non sei andata da nessuna parte e anzi: riuscivi a competere.

 

E molto bene anche: da piccola ero più veloce dei maschi e per questo rimanevo impressa. Io prendevo palla e andavo fino alla porta con loro che mi rincorrevano e per la doccia trovavamo un modo.

 

Poi, è cambiato tutto.

 

Sì, grazie all’esperienza in serie A alla Juventus ho avuto la fortuna di vedere con i miei occhi il «professionismo», di respirarlo anche se non siamo professioniste sulla carta, perché ci sono strutture e campi che una ragazza che gioca a calcio non si immagina neanche. Quando giocavo con il Fiammamonza in serie C andavo a vedere il Brescia, che in quel periodo era una delle squadre più forti e già lì la situazione era un po’ diversa rispetto che da me. 

Cambiando, andando in altre squadre sono entrata in contatto con altre realtà e mi sono accorta che il calcio femminile sta andando avanti, ma come strutture è ancora indietro. E non c’è proprio paragone fra serie A e gli altri campionati, ad esempio.

 

Percepisci mai di valere meno per questo motivo?

 

No, questo no. La cosa che dispiace è questa: secondo me pian piano si sta andando avanti sempre di più. Ci sono dei valori tecnici, di gioco, umani nel calcio femminile che vanno tramandati. Noi calciatrici siamo più avanti delle strutture, ma ci stiamo avvicinando.

Ne parlo spesso con le mie compagne: noi della classe 1999 siamo nel mezzo. Abbiamo visto lo sforzo che hanno fatto le ragazze più grandi e da un lato abbiamo anche partecipato un minimo al percorso degli ultimi anni del movimento, ma noi siamo il ponte tra le due generazioni e abbiamo il dovere di portare avanti i principi delle compagne più grandi e trasferirli alle più piccole.

 

 

Ti ispiravi a qualcuno o qualcuna quando hai iniziato a giocare a calcio? 

 

Quando ero in serie C non sapevo bene chi fossero le calciatrici di serie A, che poi ho conosciuto. Ero talmente distante che non avevo una di loro a cui ispirarmi; come calciatore invece, ecco: sono interista e da piccolina tifavo con papà. Mi ricordo l’anno del triplete e mi piaceva molto Diego Milito. Il fatto che volessi fare l’attaccante era chiaro per me: è stata sempre la mia strada.

 

Mi racconteresti di quando hai saputo che avresti avuto l’opportunità di andare alla Juventus?

 

Ero con Benedetta Glionna al campo del Fiammamonza allo Stadio Sada: Rita Guarino ci aveva allenato in Under 17 e quindi ci conosceva e ci ha telefonato: ci accennava al fatto che sarebbe diventata la nuova allenatrice della Juventus Women, con un progetto partito da zero e ci voleva portare con lei. Noi eravamo molto contente perché avevamo appena vinto il campionato di serie C ed eravamo passate in B e per noi era stata una grande soddisfazione. Ovviamente abbiamo accettato senza batter ciglio.

 

Anche Benedetta Glionna è nata nel 1999; voi del gruppo 1999 sembrate molto affiatate: vi ha unito qualche esperienza in particolare?

 

In Nazionale mi sono trovata molto bene con Arianna Caruso, Benedetta Glionna e Erika Santoro, poi con Caruso e Glionna siamo andate alla Juventus, vivevamo in un convitto all’inizio, ma al secondo anno siamo andate a vivere insieme.

 

Cerchiamo di vederci quando possiamo, ma il nostro è un bellissimo gruppo perché abbiamo fatto raduni insieme in Nazionale, è nato tutto in quei momenti: abbiamo raggiunto obiettivi inaspettati insieme. Ora giochiamo in squadre diverse, ma poi ci ritroviamo.

 

Il percorso di evoluzione della Serie A femminile ha avuto una accelerazione nel 2019, dal Mondiale niente è stato più come prima. Adesso è più facile seguirvi e creare un interesse attorno a voi. Tu hai smesso di chiamare il calcio «passione», per pensarlo come un lavoro?

 

Fino a poco tempo fa ho usato sempre la parola passione, ma in questi ultimi anni mi sono accorta che può diventare anche una opportunità per noi ragazze. Il professionismo è una realtà: il livello si sta alzando, devi essere un’atleta a trecentosessanta gradi e purtroppo (e anche per fortuna) non puoi più permetterti di lavorare o fare altro. Diventa sempre più difficile per le ragazze che giocano in Serie A fare due lavori. Io adesso mi sento calciatrice, manca lo step di ufficialità ma dall’anno scorso per la vita che faccio mi sento una calciatrice e vedo il mio futuro delineato: il calcio come obiettivo principale, e poi mi dedico anche all’Università, studio Scienze della comunicazione, perché è bene avere anche altro a cui pensare, un piano B, una strada oltre il calcio.

 

Com’è la tua giornata-tipo?

 

Se ho allenamento al pomeriggio, al mattino studio. Arrivo sempre un’oretta prima al campo, perché se ho bisogno vado in fisioterapia, e poi inizio attivazione e infine si parte con l’allenamento in gruppo. A casa la sera magari guardo una serie TV. La mia settimana è dettata dalle partite, difficilmente esco, tranne quando si organizza qualche cena di squadra.
 

 

«Uniche» è la docuserie-reality di Tim Vision sul calcio femminile che racconta la vita quotidiana, dentro e fuori dal campo, delle calciatrici di Serie A e delle squadre che hanno animato il campionato quest’anno. Nell’episodio 4, dal titolo «Eroiche», compari al tavolo di un caffè di San Gimignano insieme ad alcune tue compagne: discuti con Melania Martinovic, riguardo a una diatriba caratteriale. 

 

[Ride] Sì, dice che sono permalosa. È che quando sono nervosa ho bisogno di starmene da sola. [Ride di nuovo] 

Sono discussioni passeggere, eh. La Florentia è una squadra compatta, unita. In generale, San Gimignano è una famiglia e la società è piccola ma di valore: partendo da poco hanno costruito tanto e questo è quello che si percepisce da fuori e quello per cui lottano. È un ambiente tranquillo, all’inizio era strano perché uscendo, incontravo la gente di San Gimignano che mi salutava, erano sconosciuti, non ero abituata, ma qui tutti tifano la squadra femminile. All’edicola di Porta San Matteo mettono il risultato dopo ogni partita e scrivono «Brave ragazze!».

 

Il tuo rapporto con lo staff tecnico com’è?

 

Ho sempre avuto bei rapporti con staff e allenatori, sia a Verona sia qua a San Gimignano. Nel calcio femminile si crea empatia tra staff e squadra ed è bello perché ogni anno conosco persone nuove che mi trasmettono qualcosa di diverso. E imparo.

 

Quest’anno alla Florentia hai giocato sia come ala sia come attaccante puro: qual è il ruolo che ti piace di più e per cui pensi di essere più portata?

 

Mi sento un’attaccante, credo di essere più incisiva quando gioco in un attacco a due o comunque più vicina all’area, ma non so: devo capire anche come migliorare e ci sarà qualcun altro che dovrà giudicare.

 

Com’è il rapporto con le tue compagne di reparto?

 

Non sono troppo competitiva e ci aiutiamo: da attaccante, mi piace molto fare l’assist. Mi piace segnare, eh, non rinuncerei al gol, ma quest’anno quando ho giocato insieme a Melania (Martinovic, ndr) abbiamo trovato molta sintonia alla fine del campionato: dal 4 – 3 – 3 in cui io ero esterna d’attacco, siamo passati a giocare con il 3 – 5 – 2 e Melania e io abbiamo trovato il nostro spazio molto meglio. Avremmo potuto farci del bene a vicenda fin dall’inizio del campionato.

 

C’è stata una partita in particolare in cui hai sentito questa evoluzione di gioco?

 

Ci hanno messo avanti entrambe contro la Juventus, era una partita non facile contro la prima in classifica e durante quel match ci siamo trovate bene perché giocando più vicine, abbiamo fatto scambi e azioni molto belle, ci siamo cercate spesso. Ho fatto io l’assist a Melania per il gol e nonostante avessimo perso 6 – 1 noi due avevamo trovato il modo di giocare insieme. È stata una partita fondamentale.

 

Quando giocavi all’Hellas Women avevi un rito scaramantico: percorrere i passi dal dischetto alla porta prima della partita. Ce l’hai ancora? 

 

Sì, ce l’ho. Lo faccio sempre. [Ride]

Se i passi sono pari, tutto andrà bene; se sono dispari non lo so. La scaramanzia è una cosa forse stupida, lo so, dentro di me lo penso.

 

Quando ho scoperto questa cosa del dischetto mi ha molto divertito. Io sono scaramantica, e hai ragione: forse uno se la dovrebbe tenere per sé questa cosa, ma quando ci entri non ne esci. 

 

Ecco, sì: il fatto è proprio questo. Una volta ho contato i passi, è andata bene e ho continuato a farlo.

 

A proposito di dischetti, pensi mai a come sarebbe se ti trovassi a tirare il calcio di rigore più importante di un Mondiale con la Nazionale? Una situazione di quelle che non dimentichi mai più.

 

No, non esageriamo: non ci posso pensare perché ci sono ragazze più pronte di me che giocano in Nazionale. Sono rigorista da quest’anno per la prima volta e sinceramente non ho mai pensato a una cosa così importante. 

Per esempio con i rigori: prima tiravo forte e basta, poi quest’anno ho iniziato a provare e allenarmi, ho cercato l’equilibrio, tirare in modo preciso, a modulare la forza.

Per la Nazionale ho il desiderio di far bene e essere convocata. Non sono pronta a essere protagonista.

 

Come vivi l’«essere in prestito» in una squadra?

 

Due anni fa l’ho vissuta un po’ con dispiacere, non mi piaceva l’idea di cambiare squadra ogni anno. Sentivo incertezza, non sapevo immaginare il futuro, però io credo che la stagione col Verona mi abbia aiutato per ritrovare la forma fisica dopo la stagione ferma per infortunio e mi è dispiaciuto non finirla, perché sentivo che partita dopo partita stavo sempre meglio. Ho lasciato Verona a malincuore, ma poi qui a San Gimignano ho sentito a pelle un contesto piacevole, avevo parlato con il presidente e ho deciso di seguire quello che sentivo giusto per me.

Quest’anno avevo voglia di giocare, volevo fare una stagione come si deve, sono arrivate piccole soddisfazioni e quindi ecco che il percorso del prestito, se è dettato da una squadra grande come la Juve, è un percorso che può fare solo crescere.

 

Pensi di tornare, a un certo punto?

 

Se un domani sarò pronta a tornare a Torino sarò contentissima.

 

Se potessi esprimere un desiderio per la tua carriera, cosa vorresti?

 

Dal punto di vista personale non ho un obiettivo preciso, vorrei cercare di crescere e continuare come quest’anno per migliorare ancora in tutto. Cercherò di fare ancora più gol, magari. E come obiettivo per la Nazionale ho quello di rientrare in rosa.

 

C’è una calciatrice che non gioca in Italia che vorresti avere come compagna o avversaria?

 

Il campionato spagnolo mi piace molto, assieme a quello inglese, ma ho apprezzato tante calciatrici al Mondiale e se dovessi scegliere una su tutte direi Vivianne Miedema: è un’attaccante e mi piacerebbe in un futuro avere la possibilità di confrontarmi con giocatrici di calibro internazionale molto forti come lei. Se venisse in Italia sarebbe bello giocarci contro o insieme!

 

Per finire: mi dici una cosa positiva di questa stagione e una negativa?

 

La positiva di sicuro la prima convocazione in Nazionale. La più negativa forse la definizione del mio ruolo in attacco, ma non è proprio negativa, è più un dubbio: sono passata da esterno d’attacco a punta. Mi sono chiesta se la duttilità è una cosa positiva: ho ancora dei dubbi al riguardo.

 

 

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Elena Marinelli è nata in Molise vicino a un passaggio a livello, ha studiato a Bologna, ma da diversi anni vive a Milano. Scrive di sport per l'Ultimo Uomo e dei libri degli altri per ilLibraio.it. È autrice di "Steffi Graf. Passione e perfezione (66thand2nd)", di "Il terzo incomodo (Baldini+Castoldi)" e di racconti pubblicati su alcune riviste online. Voleva essere una sintesi fra Steffi Graf e Roger Federer.