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James Montague
La società civile egiziana e il ruolo degli ultras
29 feb 2024
29 feb 2024
Un estratto dal nuovo libro di James Montague sul ruolo degli ultras egiziani nella Primavera Araba.
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James Montague
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IMAGO / Xinhua
(foto) IMAGO / Xinhua
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Pubblichiamo un estratto di “Fra gli ultras. Viaggio nel tifo estremo”, libro di James Montague tradotto da Leonardo Taiuti ed edito da 66than2nd. Se volete acquistare il libro potete farlo cliccando qui. Il primo gruppo autodefinitosi ultras della Turchia, gli UltrAslan del Galatasaray, era stato fondato nel 2001. Ovviamente una tradizione di tifo locale ricca di storia esisteva da molto più tempo, ma il nuovo millennio portò con sé nuove influenze. La tecnologia e la globalizzazione avevano permesso scambi culturali a una velocità e su una scala mai viste prima. Nel 1950 ci erano voluti quasi cinque mesi perché il suono della torcida brasiliana, della Charanga di Jayme de Carvalho, raggiungesse la Croazia in nave insieme alla Nazionale jugoslava, circolasse col passaparola, e infine emergesse in una forma grezza, ben lontana dall’ideale platonico brasiliano, sulle tribune dello Stadion Stari Plac dell’Hajduk Spalato. Nel 1980 a Mikael occorrevano mesi per sviluppare le foto che scattava alle sue prime coreografie, e per scambiarle via posta con altri tifosi ossessionati in Svezia e all’estero. Negli anni Novanta, i frammenti di coreografie e cori su programmi come Eurogoals venivano visti e sentiti se si prestava molta attenzione durante i primi e gli ultimi trenta secondi di trasmissione, una volta alla settimana. Quando internet diventò ubiquo come il calcio, lo scambio di idee divenne istantaneo. Non si trattava solo di velocità: il mondo stesso diventò più piccolo. Nel corso del decennio successivo, la combinazione delle curve italiane, degli hooligan inglesi, dei barras bravas argentini e della torcida brasiliana, compattata in un concetto di «ultras» esportabile, dilagò in ogni angolo d’Europa, Asia, Nord America e Nord Africa. Il Nord Africa e il Maghreb erano stati particolarmente entusiasti nell’adottare l’estetica di questa cultura ultras 2.0. Quando c’era da festeggiare il centenario di una squadra o la vittoria di un trofeo, gli ultras di Marocco, Algeria e Tunisia allestivano uno spettacolo pirotecnico, noto come craquage, che non avrebbe sfigurato in nessun altro luogo del mondo. Quando la squadra tunisina Espérance festeggiò il suo centenario nel 2019, lo fece con un craquage che non si limitava allo stadio. Tre giorni prima dell’evento, gli ultras ne prepararono uno grande come un campo da calcio che formava la parola espérance, in arabo. Il giorno della partita, però, il governo limitò a cinquemila il numero di tifosi che potevano entrare allo stadio. Gli ultras, perciò, boicottarono l’incontro e un numero di persone venti volte superiore a quello permesso si diresse verso il centro di allenamento. Vennero accesi bengala in ogni città e villaggio tunisini. Fu probabilmente il primo craquage a livello nazionale. Ma gli ultras non stavano adottando solo l’estetica del movimento. La sua struttura organizzativa, formata da gruppi molto uniti e difficili da penetrare per gli estranei, collocata in uno spazio pubblico impossibile da controllare per le autorità, si dimostrò capace di avere un effetto a livello politico. L’esempio migliore era quello egiziano. Nel 2007 andai al derby del Cairo tra Al-Ahly e Zamalek. Era la partita più importante del calcio africano, ma anche il debutto nel derby per il primo gruppo ultras dell’Al-Ahly, gli Ahlawy. Lì incontrai Assad, fondatore e leader del gruppo fortemente influenzato dalle curve italiane, dal calcio inglese e dagli ultras serbi. Alla partita esposero il loro primo striscione, indirizzato allo Zamalek, che ricordava la loro più grande vittoria di sempre: una mattanza terminata 6-1 nel 2002. «I due più grandi partiti politici in Egitto sono Ahly e Zamalek» mi spiegò Assad. Al tempo il paese si trovava ancora sotto il governo autocratico di Hosni Mubarak, che durava da decenni. C’erano pochi spazi politici e gli ultras erano marcatamente apolitici. Lo stadio rappresentava una liberazione da quello che succedeva nella società egiziana, piuttosto che una sua propaggine. Fare diversamente sarebbe stato troppo pericoloso. Il rivale dell’Ahly era lo Zamalek, e viceversa. Ma gli Ahlawy, e il corrispettivo dello Zamalek, gli Ultras White Knights, stavano per ricavarsi uno spazio politico negli stadi egiziani.

Nel giro di pochi anni il numero dei loro membri crebbe da poche centinaia a decine di migliaia. Quello che non poteva essere espresso per strada o nella cabina elettorale, potevano dirlo nella libertà della curva, dove si cominciarono a sentire cori di carattere sempre più politico, specialmente contro la brutalità della polizia. Gli Ahlawy erano in prima linea contro la crescente ostilità dello stato di polizia di Mubarak per il semplice fatto che la sperimentavano spesso. I viaggi durante le trasferte, le perquisizioni fuori dallo stadio, l’aggressività nella gestione dell’ordine al loro interno, tutto questo lasciava un segno. A ogni partita c’erano innumerevoli testimonianze dell’assenza di libertà, di conseguenza nel corso del tempo i cori verso l’autorità e la polizia diventarono sempre più ostili. Su alcuni striscioni fece la sua comparsa la scritta acab. I leader dei gruppi, ma non Assad, venivano arrestati e gli ultras malmenati prima, durante e dopo le partite. Tuttavia, anziché domare il dissenso, le autorità lo stavano alimentando. Quando nel 2011 l’Egitto infine si sollevò, centinaia di migliaia di persone riempirono Tahrir Square pretendendo le dimissioni di Mubarak. E quando la polizia partì all’attacco, c’era un solo gruppo che poteva vantare esperienza sul campo. Come in Ucraina tre anni dopo, gli ultras egiziani sapevano come fronteggiare la polizia. Ciascun gruppo annunciò che sarebbe ufficialmente rimasto neutrale, ma che i singoli membri potevano partecipare alle proteste. Una volta lì, fu chiaro chi sapeva cosa fare e chi no, mentre gli ultras di tutti i club egiziani si trovarono al centro della lotta. «Il concetto stesso di un’organizzazione indipendente non esisteva... né sindacati, né partiti politici» mi disse Assad, quando ci incontrammo di nuovo al Cairo poco dopo la deposizione di Mubarak. «All’epoca si trattava solo di sport, ma per loro rappresentavamo la gioventù, con grandi numeri. Ci temevano. Ovviamente non voglio dire che siamo stati i soli responsabili della caduta di Mubarak, ma il nostro compito era quello di far sognare la gente, di farle capire che se un poliziotto ti colpisce, puoi rendergliele. Durante la rivoluzione c’erano la Fratellanza Musulmana, gli attivisti e gli ultras, basta». Gli Ahlawy erano un gruppo assurdamente eterogeneo. C’erano uomini e donne, laici e musulmani devoti, gli oscenamente ricchi e gli incredibilmente poveri. Nei mesi che seguirono la rivoluzione, fu impressionante vedere il livello di influenza che gli ultras esercitavano nei confronti degli altri attivisti e manifestanti. I prodotti pirotecnici e le bandiere ne erano l’esempio più immediato. Ma avevano adottato anche il sound degli stadi, specialmente i cori, che si trasformarono in inni cantati a ogni manifestazione. Dicono che abbiamo la violenza nel sangue Come osiamo batterci per i nostri diritti Stupido regimeAscolta le nostre paroleLibertà! Libertà! Libertà! Nel corso degli anni successivi tornai regolarmente al Cairo, e vidi come la rivoluzione andò in frantumi. All’inizio gli ultras venivano etichettati come semplici hooligan, ma mentre il loro ruolo nella rivoluzione diveniva più chiaro, vennero acclamati come eroi. Tuttavia, per gli apparati dello Stato erano feccia e diventarono bersagli della vendetta istituzionale. Il primo febbraio 2012, nello stadio di Port Said, settantadue tifosi dell’Al Ahly, molti dei quali membri degli Ahlawy, morirono nella calca durante i disordini scoppiati dopo una partita contro l’Al Masry. Qualcuno aveva spento l’illuminazione dell’impianto poco prima che i tifosi dell’Al Masry attraversassero di corsa il campo per attaccare gli avversari sugli spalti, e un misto di violenza, mendacia, sfortuna e inettitudine provocò un bagno di sangue inimmaginabile. L’unica uscita della tribuna era sbarrata. «Siamo diventati vittime per i nostri valori, per la nostra ideologia e per quello per cui lottiamo» mi disse Assad, dopo che ci eravamo recati ad Alessandria per visitare la tomba di uno degli ultras morti quel giorno. «Siamo una delle entità più pure del paese e stanno cercando di distruggerci. Settantaquattro persone [i settantadue morti a Port Said, più due ultras del gruppo uccisi durante la rivoluzione] non sono abbastanza. Se vogliono fermare le nostre idee devono ammazzarci tutti. Moriremo per questa causa se sarà necessario». Gli Ahlawy lottarono incessantemente per ottenere delle risposte. Riuscirono a impedire la ripartenza del campionato finché i tribunali non avessero fatto giustizia. Cosa che fecero. In seguito emerse che le autorità di sicurezza cittadine si erano accordate con gli ultras dell’Al Masry per organizzare l’assalto. Sui social media e nei graffiti per le strade del Cairo si vedeva lo stesso codice jft74, «Justice for the 74». La frase era stata ripresa dai tifosi del Liverpool che da anni si battevano per ottenere giustizia per le novantasei vittime dell’Hillsborough al cospetto di uno Stato indifferente. Port Said era l’Hillsborough degli Ahlawy, ma al contrario. C’era stata solo una piccola finestra di tempo per ottenere giustizia. Poco dopo, il primo presidente egiziano democraticamente eletto, Mohamed Morsi, venne deposto da un colpo di stato e rimpiazzato dall’ex direttore dell’intelligence militare Abdel Fattah al-Sisi. Un mese dopo le sue forze attaccarono due accampamenti di manifestanti in sostegno di Morsi. Si calcola che al massacro di Rabaa furono uccisi fino a 1.200 civili (Morsi in seguito morì in carcere). La repressione era iniziata. Quasi esattamente tre anni dopo i fatti di Port Said, ventidue membri degli Ultras White Knights dello Zamalek furono uccisi dalla calca all’esterno di uno stadio, causata dai lacrimogeni sparati dalla polizia in uno spazio chiuso. Da allora ai tifosi è stato quasi completamente vietato prendere parte alle partite. Gli ultras egiziani alla fine vennero messi fuorilegge. Nel maggio del 2015 il Tribunale per le procedure urgenti del Cairo approvò una legge che li metteva al bando, in seguito a un’azione privata di Mortada Mansour, presidente dello Zamalek e strenuo alleato di Hosni Mubarak. Mansour odiava da un pezzo gli ultras, che aveva definito terroristi e teppisti, e loro avevano replicato lanciandogli addosso un sacchetto di urina. Negli anni a seguire, in centinaia finirono nelle carceri egiziane. La repressione divenne insostenibile, e nel 2018 gli Ahlawy pubblicarono un video in cui bruciavano la loro bandiera, gesto riconosciuto internazionalmente con cui un gruppo ultras si scioglie. La loro pagina Facebook venne cancellata. Qualche giorno dopo gli Ultras White Knights li seguirono. Assad e gli altri leader del gruppo, almeno quelli che non erano in galera, tornarono alle loro vite di sempre, senza poter parlare del tempo in cui erano stati considerati eroi nazionali. Ci sono ben poche organizzazioni civili capaci di sopravvivere a uno scontro diretto con lo Stato. Gli ultras egiziani non facevano differenza, ma rappresentavano un fenomeno unico: attori inizialmente apolitici ma dichiaratamente antiautoritari, che si erano trovati nel posto giusto al momento giusto per fare la differenza. Non avevano alcun manifesto, erano semplicemente una libera confederazione di amici che condividevano due passioni: il calcio e il desiderio di uno spazio libero. Eppure, anche mentre venivano banditi e sciolti, gli striscioni bruciati e i graffiti coperti, c’era qualcosa che perdurava e non poteva essere cancellato. Le canzoni e i cori. Il lessico delle tribune filtrava nell’uso quotidiano. I tifosi egiziani venivano ancora arrestati per aver cantato canzoni dell’epoca della rivoluzione, o cori per la libertà dei compagni arrestati.

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