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Slam Dunk: una lettera d’amore per il basket
11 dic 2018
11 dic 2018
La storia, l’impatto e il lascito di uno dei manga sportivi più famosi di sempre.
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Se avete seguito il poco fortunato ballo dei Gonzaga Bulldogs nell’ultima March Madness vi sarete sicuramente accorti del loro giocatore di riferimento, un’ala atletica e dalle spalle larghe, in grado di tirare da fuori e attaccare spalle a canestro, e capace di segnare 25 punti contro Ohio State. Ha gli occhi a mandorla, ma la pelle scura: Rui Hachimura è la più grande speranza che il basket giapponese abbia mai avuto. Il padre viene dal Benin, Africa Occidentale. Oltre ai geni, gli ha trasmesso un nome che in origine era Louis: peccato fosse troppo complesso per la pronuncia dei giapponesi, che come da tradizione l'hanno dovuto traslitterare. Ironia della sorte, l'ideogramma che sta per Rui indica anche le basi del baseball, lo sport di squadra più popolare in Giappone, e ovviamente alle scuole elementari Hachimura inizia la sua avventura sportiva proprio sul diamante di gioco. Dieci anni dopo, è in odore di una chiamata in NBA: sta disputando una grande stagione a Gonzaga, da leader ora che ha imparato l'inglese e si è adattato all'ambiente, poi si dichiarerà al Draft. Gli esperti prevedono per lui una scelta in Lottery: sarebbe il primo giapponese a venire selezionato.

Ma non c'è solo Hachimura. Yuta Watanabe, dopo aver concluso la sua esperienza coi George Washington Colonials, si è guadagnato un two-way contract con i Memphis Grizzlies. A seguirne le orme c'è Chikara Tanaka, fortissimo 15enne con un futuro americano già in testa. Siamo ancora lontani da quella nidiata di talenti che ha invaso i nostri campi da calcio, da Keisuke Honda a Shinji Kagawa, ma nella scena cestistica giapponese qualcosa si sta muovendo.

Benché povero di talenti, tuttavia, un contributo massiccio alla pallacanestro globale il paese del Sol Levante l'aveva già fornito, seppur in maniera del tutto diversa. I dati ufficiali dicono che Slam Dunk, il manga di Takehiko Inoue pubblicato tra il 1990 e il 1996, ha venduto finora 121 milioni di copie – saldo nella top 10 davanti persino al calcistico Captain Tsubasa (tradotto da noi come Holly e Benji). Un sondaggio del 2012 lo premiava come secondo manga più popolare in patria e titolare della battuta più amata, quella proferita dal capitano Akagi: “Se ti arrendi, la partita è già finita”. Il numero di ragazzi sparsi per il mondo che hanno cominciato a giocare a basket ispirati dalle avventure del rosso Hanamichi Sakuragi, invece, è semplicemente incalcolabile.

Le ragioni del successo

Tra cosplay, rivisitazioni animate e cinematografiche, gadget e memorabilia di ogni sorta, la cultura che ruota intorno ai manga è capace di mantenere viva l'attenzione su un fumetto anche a decenni di distanza dalla sua pubblicazione. È però necessario che l'opera emerga tra migliaia di proposte, che tradotto in termini probabilistici equivale più o meno a sbancare la lotteria. Solo poche storie riescono a superare il test del tempo: al di là del tratto dell'autore e della simpatia dei personaggi, devono possedere la potenza narrativa che è propria dei capolavori. E Slam Dunk sicuramente l’aveva, come sostenuto in questo splendido pezzo di Prismo Mag.

Al tempo dell'uscita del primo numero del manga, il basket in Giappone era una macchia minuscola su una mappa gigantesca. Gli spokon però erano un genere molto popolare; si tratta di un sottoinsieme degli shonen, manga indirizzati a un pubblico di giovani adulti di tema prettamente sportivo. Ne abbiamo visti transitare molti anche sulle nostre reti televisive, da Mila e Shiro (Attacker YOU!) a Jenny la tennista passando per l'immancabile Holly e Benji – di fatto responsabile della recentissima e dilagante passione dei giapponesi per il calcio. Per convincere l'editore Shonen Jump, scettico nei riguardi di un'opera dedicata a uno sport minore come la pallacanestro, Takehiko Inoue dovette indossare una sorta di maschera. Per questo nei primi numeri di Slam Dunk il basket è mero sfondo di vicissitudini scolastiche facilmente riconoscibili, da slice of life: le risse tra adolescenti, le invidie, i problemi di cuore – memorabile è l'incipit, col povero Hanamichi Sakuragi che finisce rifiutato dalla ragazza numero 50.

Il trucco riesce. I suoi personaggi sono così sfaccettati, così umani, che gli appassionati continuano a seguirli anche quando l'azione si sposta sui campi da basket. Slam Dunk poggia su una struttura corale che è uno dei suoi punti di forza: c’è uno stuolo di personaggi secondari, dagli amici casinisti di Hanamichi all'avversario di turno sul parquet. Hanno la funzione di allargare il piano narrativo, spesso i momenti chiave delle partite sono accompagnati dalle reazioni del pubblico, proprio alla maniera di un coro delle commedie greche, in tavole dal grande impatto espressivo. Nondimeno, nessun dettaglio è lasciato al caso e Inoue offre un approfondimento su ogni personaggio minore anche solo con poche ma precise pennellate. Capita ad esempio che intorno a Eiji Sawakita, asso del Sannoh Kogyo e nemesi di Kaede Rukawa nell'ultima partita dello Shohoku, si animi un flashback più accurato di quelli incentrati sullo stesso protagonista Sakuragi.

In Slam Dunk è facile immedesimarsi nei personaggi perché si tratta di uno dei più grandi romanzi di formazione mai stampati in formato manga. Nelle parabole di Hanamichi e compagni, insieme a quella dell'intera squadra, si riconoscono tutte le tappe di un percorso umano: crescita, caduta, redenzione. Inoue è abilissimo e sensibile nel cambiare registro per affrontare i momenti drammatici (come il background del tiratore Hisashi Mitsui) senza mai perdere di vista la vena ironica che percorre il manga.

Come ogni grande storia, poi, Slam Dunk è una storia di dialettiche e di contrasti. In primo luogo con se stessi e col proprio alter ego, che nelle partite di basket è spesso incarnato dall'avversario schierato nello stesso ruolo. Così Hanamichi si scontra con Fukuda del Ryonan, con Nobunaga Kiyota del Kainan e col gigantesco “Mikio-ciccio” del Sannoh Kogyo, tutti e tre a rappresentare differenti aspetti della propria personalità. Fukuda, come lui, è un reietto dal passato difficile e gli insegnerà che non c’è da vergognarsi a cercare l’approvazione altrui. Kiyota esaspera il lato più esuberante di Hanamichi, al punto che la sua stessa spacconeria gli si ritorce contro. Mikio è un esordiente assoluto e vanta doti fisiche eccezionali: la stazza, anziché la potenza. All’opposto di Hanamichi, però, il suo carattere è docile, persino arrendevole. La sua forza sta nel fidarsi ciecamente dei compagni, in particolare del fratello, il centro Kawata. Sconfiggendo i tre rivali, Sakuragi assimila la loro lezione e diventa un individuo più maturo, più completo.

Kaede Rukawa, ossessionato dal successo, sbatte la testa contro il prodigio Akira Sendo: talento cristallino come il suo, ma dal piglio decisamente più rilassato. Akagi e Uozumi, infine, sono due gocce d’acqua: giocano nel ruolo di centro e si scambiano colpi duri nel pitturato, eppure non potrebbero essere più diversi. Akagi è un predestinato: bravissimo nello studio e nello sport, leader naturale e atleta eccellente, già indirizzato verso un’università di prestigio. Uozumi invece deve tutto all’altezza, quella che “non si può insegnare”, come dice il suo allenatore citando Red Auerbach, ma per il resto la vita cestistica di Uozumi è una continua sofferenza. Deve allenarsi per addomesticare un corpo troppo ingombrante, deve smussare il carattere per conquistare il rispetto dei compagni. Di origini umili e di ancora più umili ambizioni, finita la scuola abbandonerà il basket per un modesto lavoro in cucina; una volta riappacificati, Akagi imparerà da lui il valore del sacrificio e quanto sia pericoloso volare troppo in alto.

C'è anche una dialettica di classe, poco evidente agli occhi di noi occidentali, eppure ben marcata fin dalle prime pagine. I giocatori dello Shohoku vengono da famiglie modeste e abitano in aree periferiche. Eccetto gli impeccabili Akagi e Kogure, sfoggiano tutti un certo gusto per la ribellione: tagli di capelli eccentrici, orecchini, divise sbottonate e camicia fuori dai pantaloni. Il confronto con l'impomatato Maki del Kainan, o coi soldatini del Sannoh Kogyo è ingeneroso. Il Giappone si porta dietro un'antica paura per il diverso, a cui risponde con strategie di emarginazione: un attaccabrighe come Sakuragi, nella poetica di Inoue, è solo un ragazzo sfortunato ma di buon cuore, e i suoi sforzi sono prima di tutto una lotta di rivalsa, per ritagliarsi un posto in una società ostile. Se la scuola, metafora del “mondo degli adulti”, non offre speranze, lui coltiverà le proprie su un terreno neutro, dove ogni differenza sociale è azzerata: il campo da pallacanestro.

Sopra ogni cosa, però, Slam Dunk piace perché trasuda passione per il basket. Inoue ha avuto il pregio di intercettare il periodo di esplosione globale della NBA, con la figura iconica di Michael Jordan a fungere da ambasciatore. Slam Dunk faceva da cartina tornasole per il pubblico nipponico, ma si capisce chiaramente come Inoue fosse un cultore del basket americano fin dalla più tenera età. Per i disegni si appoggiava spesso ad autentiche fotografie catturate da bordo campo e i suoi personaggi sono modellati sulle stelle della NBA dell'epoca, a partire dal look e dalle movenze. Il riferimento più palese è quello tra Hanamichi Sakuragi e Dennis Rodman: genio e sregolatezza, stile arrogante, carattere focoso, capelli anche di più, fondamentali incerti ma incontenibili a rimbalzo. Anche il numero di maglia, 10, è lo stesso che Rodman vestiva a inizio carriera con i Detroit Pistons. Akagi somiglia a Patrick Ewing, già dal taglio di capelli e dalla condotta militaresca. Come Ewing, poi, Akagi vive una carriera di tanti sforzi e pochi successi. Il cecchino Hisashi Mitsui ha la stessa meccanica di tiro di Jeff Hornacek – ma con la precisione di Reggie Miller, mentre il playmaker Ryota Miyagi ricorda da vicino, anche nell'atteggiamento sfrontato, due guardie brevilinee che terrorizzavano le difese a cavallo tra anni '80 e '90: Kevin Johnson e Isiah Thomas. Kaede Rukawa poi è un clone del primo Michael Jordan: fascetta sull'avambraccio, passo felpato e accelerazioni esplosive, ma soprattutto la medesima ossessione per la vittoria, personale prima che di squadra.

Anche tra gli avversari i riferimenti non mancano. Nelle file del Kainan, il cui logo è un richiamo a quello dei Los Angeles Lakers, gioca Shinichi Maki, autentica leggenda nella prefettura di Kanagawa, equiparabile a Magic Johnson per stile di gioco e autorità in campo. Jun Uozumi, rivale di Akagi, potrebbe incarnare Alonzo Mourning mentre Akira Sendo sfoggia la stessa versatilità di Scottie Pippen (se solo fosse arrivato qualche anno più tardi sarebbe stato la copia sputata di Tracy McGrady). Kenji Fujima, leader e playmaker dello Shoyo, ha la faccia pulita e il gioco ordinato di John Stockton. I parallelismi potrebbero continuare ad libitum, più o meno smascherati dai disegni di Inoue, ma ancora più interessante è ipotizzare i rimandi tra le scene messe su carta da Inoue e autentiche giocate sui campi americani.

Quando Sakuragi, da esordiente quasi assoluto, compromette la sfida col Kainan consegnando inavvertitamente il pallone all'avversario Takasago, a un appassionato dell'epoca non poteva non saltare alla mente l'immagine di Isiah Thomas, stella dei Detroit Pistons, che con un passaggio mal consigliato regalava il pallone a Larry Bird. E il duello, in pieno stile shoot-out, tra Rukawa e Sendo fa pensare allo stesso Bird e Dominique Wilkins che si inseguivano, un canestro dietro l'altro, nell'epica gara-7 dei playoff 1988 tra Boston Celtics e Atlanta Hawks. O ancora, quando il playmaker Maki inizia a gestire il gioco da una posizione più avanzata, spalle a canestro, per disorientare la difesa dello Shohoku, sembra di vedere coach Don Nelson che architettava una simile strategia per il suo regista Paul Pressey, da allora riconosciuto come prima point forward di sempre.

Sono tutti indizi che contribuiscono a svelare il quadro completo: un quadro di amore per la pallacanestro e di assoluta fedeltà ai principi del gioco – e dello sport in generale. I ragazzi di Slam Dunk schiacciano a canestro come i campioni NBA, è vero, ed è poco credibile per dei liceali giapponesi, ma l'iperbole è vizio comune negli spokon. Inoue non disegna giocate che infrangono le leggi della fisica, come nei già citati Holly e Benji o Mila e Shiro, né trasforma le abilità dei giocatori in superpoteri come farà il suo successore Kuroko no Basket. Soprattutto, in Slam Dunk si celebra il basket sia nella gioia della vittoria che nella crudeltà della sconfitta. L'avventura dello Shohoku ai campionati nazionali segue i binari dei tornei NCAA, quella March Madness in cui tutto può succedere. Come la più incredibile delle cinderellas lo Shohoku batte i campioni in carica del Sannoh Kogyo, eppure la mezzanotte arriva prima del tempo. Per riassumere il resto del torneo bastano una vignetta e un paragrafo: prosciugati di ogni energia dallo scontro del giorno precedente, i ragazzi di coach Anzai finiscono eliminati al turno successivo da una squadra più modesta. Sakuragi, infortunatosi alla schiena dopo un volo sul tavolo segnapunti, non ha nemmeno preso parte alla partita – eppure, ha ancora più voglia di giocare a basket. Un finale brusco, che chiudeva l'opera nel 1996 all'apice del successo, senza trascinarsi in un dedalo di sequel poco ispirati. Un finale che ha trasmesso il messaggio di Inoue a migliaia di ragazzi: nello sport non tutto è sotto il nostro controllo, e la sconfitta è un esito molto più comune della vittoria. Anche in questo sta la sua bellezza.

Giocare a basket in Giappone

In tutto il Giappone, per una popolazione di 126 milioni di persone, si contano circa 30 campetti da basket. Questo dovrebbe dare una proporzione di quanto poco abbia attecchito la cultura del pick-up basketball sul suolo nipponico, tant'è vero che nella fauna che popola i playground non è raro riscontrare una maggioranza di stranieri, i gaijin, per lo più americani in trasferta di lavoro. Persino in una megalopoli come Tokyo non è facile scovare un posto dove giocare. Al di là del bellissimo parco di Yoyogi, che ospita due campi e numerosi tornei, ci si può dirigere al Jordan Court, sponsorizzato e inaugurato da His Airness in persona nel 2004: nascosto tra alberi e palazzi in costruzione, poco frequentato, per tirare una tripla dall'angolo bisognerebbe arrampicarsi sulle recinzioni. A Komazawa invece il canestro è fissato alla base di un cavalcavia, ai bordi di una piazzetta pedonale: se il pallone schizza via dopo un rimbalzo, finisce dritto in mezzo alla strada. Spostandosi verso altre regioni la situazione addirittura peggiora: a Sapporo, capitale del nord sull'isola di Hokkaido, esiste un solo playground ma è sotto i binari della ferrovia, e per andare al tiro bisogna fare lo slalom tra i piloni.

Qua e là, nelle numerosissime aree verdi che punteggiano le città, ci si imbatte in un canestro con qualche linea disegnata intorno, ma nove volte su dieci sarà deserto: come il campetto dove Haruko accompagna Hanamichi per insegnargli i fondamentali del gioco.

Nella cultura giapponese lo sport, e il gioco in generale, riveste un ruolo molto diverso rispetto all'occidente. Dati i ritmi frenetici delle loro vite, un qualunque impiegato d'azienda non dispone di molto tempo libero: se proprio decide di dedicarlo all'attività fisica, preferirà uno sport socialmente abilitante come il golf, anch'esso in grande ascesa, magari da praticare insieme ai colleghi. Vista l'assenza di società dilettantistiche, uno dei modi più comuni per giocare a basket in Giappone è proprio quello di affittare una palestra coi colleghi per cimentarsi dopo il lavoro. Anche in qualità di spettatori i nipponici non sono tra i più appassionati: la lega professionistica giapponese, da poco ribattezzata B-League, ospita glorie locali e qualche americano d'importazione tra i quali Milton Henderson, che per ottenere la cittadinanza ha cambiato nome in J.R. Sakuragi in onore di Hanamichi. Nonostante gli sforzi profusi, in termini di popolarità la lega non ha ancora raggiunto i risultati sperati, e l'impatto sulla cultura mainstream non è paragonabile alle sue controparti europee e americane.

Nonostante questo, ci troviamo già ad anni luce di distanza dall'epoca pre-Slam Dunk. Senza il manga di Takehiko Inoue, il basket in Giappone non sarebbe nemmeno incluso nella mappa. Oggi invece è tra gli sport più praticati nei club scolastici, in particolar modo dalle ragazze: non a caso uno dei film d'animazione di più grande successo globale, Your Name di Makoto Shinkai, mostra una scena di basket femminile. Poco inclini a intendere lo sport come attività professionale, i giapponesi gli attribuiscono invece un forte ruolo educativo e ogni scuola possiede club dedicati a svariate discipline, seguendo il modello americano. La competizione tra gli istituti è accesa, proprio come in Slam Dunk, e il pubblico si affeziona volentieri ai giovani atleti. Spesso li segue con più trasporto dei campioni della B-League: quando trascinava la Meisei High School a tre campionati nazionali consecutivi, Rui Hachimura richiamava quasi 10.000 spettatori sugli spalti del Tokyo Metropolitan Gymnasium. A vedere le immagini, sembra di avere davanti agli occhi gli amici casinisti di Hanamichi a fare il tifo per lo Shohoku, i gettoni del pachinko infilati nelle bottiglie vuote per fare più rumore, lo striscione “Mitsui anima ardente” in bella vista.

Il basket in Giappone sembra trovarsi all'alba di una nuova era. Rui Hachimura, Yuta Watanabe e Chikara Tanaka si apprestano a guidare la nazionale maggiore a partire dai Mondiali FIBA in Cina, nel 2019 (a cui si devono ancora qualificare) e dalle Olimpiadi di Tokyo 2020, dopo aver condotto le rappresentative giovanili tra le prime potenze asiatiche. Hachimura, in particolare, ha lasciato il segno agli ultimi mondiali FIBA Under 19: con 21.6 punti a partita è stato il secondo miglior realizzatore del torneo, dietro al canadese R.J. Barrett ora a Duke, e ha arricchito la sua galleria di highlights. Per le ragazze le prospettive sono ancora più rosee: sono campionesse asiatiche in carica da tre edizioni e alle Olimpiadi di Rio hanno battagliato con onore contro le imbattibili americane. Akatsuki Five, così dal 2015 hanno ribattezzato le nazionali di pallacanestro in patria: “i cinque dell'alba”, potremmo tradurre, a rafforzare il concetto di cambio della guardia.

Stiamo parlando di ragazzi nati a cavallo tra anni '90 e 2000, che hanno vissuto l'epopea di Slam Dunk soltanto di riflesso, ma non c'è da stupirsi che un manga possa penetrare così a fondo nel tessuto sociale di un paese. Mentre l'occidente si accorge solo adesso delle comunità nerd e geek, il Giappone fa i conti da decenni con la cultura otaku – e gli annessi problemi di emarginazione e integrazione. Si tratta pur sempre di un paese dove, in parlamento, un deputato può ritrovarsi a citare Neon Genesis Evangelion e un ministro indossare una cravatta a tema.

Eppure, come accennavamo, il contributo di Slam Dunk al basket va misurato su una scala più grande, globale. Ancora oggi, quasi trent'anni dopo la prima pubblicazione, in un qualsiasi angolo del mondo un ragazzino prende in mano un volumetto firmato Takehiko Inoue e scatta la scintilla. Si immedesima nella voglia di rivalsa di Hanamichi e nel suo sfortunato amore per Haruko, odia l'arrogante Rukawa con tutto se stesso, si affeziona alle maniere rudi del capitano Akagi e invidia il fascino “maledetto” di Mitsui. Poi, proprio come Sakuragi, si mette in testa di imparare da zero tiro e palleggio: tutto quel che serve, in fondo, è un pallone, un canestro e un motivo per cominciare.

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