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La prima volta dello skate alle Olimpiadi
26 lug 2021
26 lug 2021
Una sottocultura può diventare uno sport olimpico?
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Denis “Panik” Paraceck è quello che definiresti un pioniere. È stato lui, insieme agli amici Dirk e Nico, a introdurre, negli anni ‘80, lo skateboarding nella Repubblica Democratica Tedesca. La sua storia, raccontata dal regista Marten Persiel nel documentario This Ain’t California, è uno splendido inno alla giovinezza e alle sue maledizioni. Essere uno skateboarder oltrecortina significava infatti sfidare il senso comune e stuzzicare l’attenzione degli apparati di sorveglianza e controllo, delle cui attenzioni Paracek e la sua crew furono ben presto oggetto. Lo skate, così dice un prelievo di telegiornale inserito nel film, è un’attività legata a doppio filo con i decadenti costumi occidentali, un’arma del capitalismo per traviare i giovani della Repubblica Democratica. Eppure, ci racconta Persiel nella sequenza immediatamente successiva, l’apparato burocratico s’accorse rapidamente che lo skateboarding era un virus che non si poteva battere demonizzandolo. Così, ben presto, provò la strada della cooptazione e nacque la squadra di skate ufficiale della DDR, per la quale venne prodotta perfino una tavola: il Germina Speeder.

L’immagine di questi pattinatori di stato, che con le loro sgargianti tute acetate color rosso fuoco sembrano usciti da un video dei Kraftwerk coreografato da Mejerchol'd, continua a tornarmi in mente quando penso al fatto che lo skateboarding farà il suo esordio ufficiale come sport olimpico. Mi domando se anche gli atleti che tra pochi giorni calcheranno l’imponente skatepark costruito per l'occasione vestiranno simili tute o se il CIO permetterà loro di vestirsi come desiderano, conservando quello che uno degli aspetti più distintivi e personali dello skate: il concetto di stile.

Compreso tra un polo in cui si esprime come pura imitazione e un altro in cui rappresenta la massima espressione della personalità, lo stile è una componente imprescindibile di questa disciplina. Che sia morbido ed elegante come quello di Gino Iannucci, oppure grezzo e potente come quello di Mike Vallely, lo stile è parte integrante della personalità di uno skateboarder e ne costituisce uno degli elementi di massima riconoscibilità. Allo stesso tempo è una componente nella cui valutazione pesa moltissimo la soggettività di chi la osserva. Come io potrei amare alla follia lo stile di uno skater, un’altra persona potrebbe detestarlo. Ciò rende lo stile qualcosa che sfugge a una valutazione e, di conseguenza, difficilmente potrà essere oggetto di giudizio in una competizione olimpica. A essere valutate saranno invece il numero e la varietà di manovre eseguite con successo, la loro difficoltà assoluta e in relazione all’elemento di arredo urbano su cui verranno eseguite, la rapidità di esecuzione, l’originalità e la pulizia della loro chiusura.

Accadrà in due distinte tipologie di gara - park e street - con eventi sia femminili che maschili. La prima delle due tipologie si svolgerà in una struttura a curve, detta bowl, che favorisce manovre eseguite a mezz’aria, con particolare attenzione per le rotazioni e le transizioni aeree tra una sezione e l’altra della struttura. In questa tipologia, la competizione consisterà di tre round: qualificazioni, semifinali, finali. Durante le qualificazioni, le atlete e gli atleti gareggeranno in batterie composte da massimo sei skater alla volta. I primi venti classificati accederanno alle semifinali, dove competeranno in quattro batterie da cinque partecipanti alla volta. I primi otto classificati accederanno alla finale. Le batterie di ogni round saranno composte da tre o quattro run di massimo sessanta secondi ciascuna.

Gino Iannucci, foto di Beatrice Sugliani.

La seconda tipologia si svolgerà invece in una struttura disseminata di ostacoli progettati per mimare gli ambienti urbani e i loro elementi d’arredo: scale, corrimano, muretti, panchine e muri di diverse inclinazioni. Le atlete e gli atleti gareggeranno, durante le qualificazioni, in una batteria da due run collettive da sessanta secondi e con un massimo massimo sette partecipanti alla volta. Ad accedere alle semifinali saranno venti atlete e atleti per ogni tipologia di gara, che competeranno in quattro batterie da cinque skater ciascuna, composte da due run di 45 secondi e cinque manovre eseguite individualmente. La finale si svolgerà con la stessa formula. Le gare per lo street si sono svolte nei giorni scorsi. A vincere le due medaglie d'oro, nel maschile e nel femminile, sono stati due atleti giapponesi. Yuto Horigome è diventato il primo medagliato olimpico nella storia di questo sport, mentre Momiji Nishiya è diventata la terza medaglia d'oro più giovane di sempre, a 13 anni e 330 giorni.

A rappresentare l’Italia ci sono Asia Lanzi (19 anni), Alessandro Mazzara (17 anni) e Ivan Federico (21 anni), skateboarder giovanissimi che rappresentano il frutto degli oltre dieci anni di lavoro della Italian Skateboarding Commission. Nata nel 2010 dall’incontro tra la Federazione Italiana Sport Rotellistici, associazioni e singoli esponenti della scena skate nazionale, a questa commissione tecnica di settore è stato assegnato l’obiettivo di promuovere lo skate in Italia lavorando sia alla creazione e gestione di skatepark sul territorio nazionale, sia all’organizzazione delle tappe del Campionato Italiano di Skateboarding, sia alla costruzione del Settore Skateboard italiano. Rientra in quest’ultimo ramo di attività l’intenso programma di formazione messo in piedi dalla commissione, che ha definito gli standard per la formazione dei tecnici e degli allenatori che, in questi anni, hanno contribuito a diffondere lo skateboarding e i suoi valori attraverso la vivacissima rete dellescuole di skate.

L’aspetto valoriale è di fondamentale importanza nell’insegnamento di questa disciplina. Lo skateboarding è forse il primo e unico sport olimpico a essere nato e ad essersi sviluppato come una vera e propria sottocultura. Creato come variante di terra del surf negli anni ‘60, fin dagli anni ‘70, con la nascita dello street style, lo skateboarding assume decisi tratti sottoculturali, assimilando elementi estetici e attitudine ribelle dal punk e mescolandoli ai tratti più peculiari della cultura giovanile americana. Il lato sportivo, competitivo e professionistico (nonché l’economia connessa) dello skateboarding sono perciò sempre stati contaminati dai suoi elementi culturali e, in un certo modo, hanno giocato, per molti anni, un ruolo secondario o ancillare.

Il circuito delle gare è stato concepito dagli skater più come momento di condivisione, incontro e occasione di sostentamento che non come un passaggio necessario nella costruzione di una carriera. Per molti anni, e ancora oggi, l’importanza e la fama di uno skateboarder si costruiva più con le video part dei marchi che lo sponsorizzano che con i risultati delle competizioni ufficiali. Le ragioni affondano, come dovrebbe essere chiaro, nella natura sottoculturale dello skateboarding, nel suo rapporto con la strada, nel suo rappresentare, da sempre, il lato ribelle e non addomesticato della cultura giovanile. Non è un caso che, nel suo percorso di avvicinamento alla realtà delle competizioni olimpiche, siano state molte e autorevoli le voci che hanno espresso dubbi e riserve su questa scelta.

Tra queste merita attenzione quella di Titus Dietman - skater e imprenditore, vero e proprio nume tutelare dello skateboarding tedesco - il quale ha dichiarato in un’intervista che «i Giochi Olimpici cambieranno questa cultura in uno sport competitivo» e teme che questo evento trasformerà lo skateboarding in un’attività sempre più competitiva dove «improvvisamente il senso sarà essere migliori del tuo avversario», perdendo quella parte di automiglioramento e sfida con sé stessi che, per anni, è stata l’essenza dello skateboarding. Un cambiamento che Dietman, in qualità di organizzatore di uno dei più importanti eventi mondiali, il Monster Mastership, ha vissuto in prima persona. «Se prima il Mastership era una grande festa, oggi abbiamo dovuto adeguarlo per riflettere il modo in cui lo skateboarding si sta sviluppando».

Un po’ più ottimista è la posizione di Tony Hawk, un altro nome di rilievo nella storia di questa disciplina, il quale, pur non aspettandosi di sentire suonare i Dead Kennedys dalle casse dell’impianto olimpico (anche se il CIO ci tiene a sottolineare che gli eventi olimpici rispetteranno la tipica atmosfera legata a un evento di skateboarding, musica inclusa), si dice sicuro che lo skateboarding abbia la forza di mantenersi autentico e fedele alla propria cultura anche alle Olimpiadi.

Un giovane Tony Hawk.

Saper affrontare il cambiamento, senza snaturare ciò che ha contribuito a renderlo una delle attività sportive più affascinanti, accessibili e praticate al mondo. È esattamente questa la sfida che la scelta olimpica pone allo skateboarding come cultura. Perché sono esattamente la libertà, la sfida alle convenzioni e la possibilità assoluta di espressione individuale che hanno reso quel fenomeno globale così amato ed enorme da renderlo impossibile da ignorare. Sacrificarle sull’altare della rispettabilità olimpica e della competizione a tutti i costi sarebbe una perdita di innocenza che non sarebbe compensate dall’enorme occasione di visibilità che le Olimpiadi comportano. Lo skate, però, questa dialettica tra identità sottoculturale e sportiva, tra popolarità e autismo, tra commercializzazione e ribellione, la vive fin dalle sue origini; non a caso è nato negli Stati Uniti, un luogo dove ogni cosa può diventare, con impressionante rapidità, un business. Che questo adolescente riottoso abbia, nonostante tutto, la maturità per non perdere la sua innocenza è qualcosa su cui sono pronti a scommettere tutte le persone che lo amano. Dopotutto è solo dandogli autonomia e fiducia, che un adolescente può imparare a diventare adulto.

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