Piove sempre a Philadelphia, mentre la stagione dei Sixers si conclude con il copione ormai classico. I fischi, i seggiolini vuoti, l’estate che inizia anzitempo. E l’ironia ribelle di chi urla «I want Simmons back!», riuscendo comunque a strappare un sorriso. La partita senza domani dei 76ers si trasforma in un naufragio, mentre Miami avanza con merito, e Jimmy Butler lascia il Wells Fargo Center da trionfatore. Dopo il 32° punto torna in difesa e fa ciao ciao con la manina. Salutando quell’arena che poteva ancora essere sua, e che invece ha messo a ferro e fuoco con l’ennesima prestazione da campione.
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Quattro parole per togliersi tutti i sassolini dalle scarpe accumulati in tre anni.
Troppa roba gli Heat; e soprattutto, troppo poco i Sixers, apparsi totalmente inadeguati a questo palcoscenico. Joel Embiid che annaspa; Harris e Tyrese Maxey in confusione; James Harden che, se non controlli nome e numero di maglia, manco ti accorgi che è in campo. E così, mentre davanti al pubblico di Philadelphia va in onda l’ennesimo fiasco, l’Operazione Titolo cullata negli ultimi anni si è ormai trasformata nella parodia di se stessa. L’atroce sconfitta contro gli Atlanta Hawks, sempre in semifinale di conference e sempre in casa, è lontana nemmeno undici mesi. E forse, nella disperazione generale, l’unica speranza è che una batosta del genere possa servire a rimescolare le acque in maniera radicale. Come possa accadere, visti i margini di manovra limitati, resta però tutto da vedere.
Impotenza assoluta
I Sixers escono dalla serie esanimi, svuotati di ogni energia. Con una passività che dice più di ogni statistica. Dopo la reazione di gara-3 e 4, che aveva ridato improvvisamente vita a una serie che sembrava seppellita, il ritornello è tornato quello delle prime due partite. Miami che detta i ritmi, in attacco e in difesa. E Philadelphia che reagisce alla rinfusa, in balia degli eventi, senza mai dare l’impressione di poter controllare la situazione. Dopo un primo tempo combattivo, i Sixers si sciolgono non appena gli Heat stringono un minimo le viti, infrangendosi contro una zona che, approfittando del brutto infortunio occorso a Danny Green a inizio partita, ha messo a nudo tutta la fragilità della squadra di Doc Rivers. Embiid, a fatica in piedi dopo quattro partite in otto giorni in condizioni più che precarie, scheggia a malapena il ferro (7/24 nella partita, 2/10 nella ripresa); Maxey si infrange puntualmente contro la seconda linea; e Harden decide di autoescludersi dalla contesa, sostanzialmente rinunciando ad attaccare per tutto il secondo tempo (zero punti segnati con 0/2 al tiro).
E così, quanto le uniche minacce arrivano dalle penetrazioni alla garibaldina di Shake Milton, non ci vuole molto a capire che la partita è ormai finita. A Miami bastano le zampate chirurgiche di Jimmy Butler, oltre che un paio di minuti difensivi fatti con intensità: il secondo tempo si apre con un 19-4 di parziale, e la serie finisce lì. «Semplicemente, il nostro sforzo è stato insufficiente» commenterà candidamente Tobias Harris a fine partita. Cogliendo alla perfezione la totale impotenza dei Sixers di fronte a un avversario che si è limitato a fare il proprio dovere, portando a casa la serie con una supremazia disarmante.
«Non siamo stati all’altezza degli Heat. È una cosa difficile da dire, ma è la realtà» saranno le parole di Doc Rivers in conferenza stampa, impegnato soprattutto a difendere il suo lavoro («Ho lavorato splendidamente, se non lo pensate allora scrivetelo ma io sono a posto con me stesso»). E per quanto le condizioni menomante di Embiid abbiano indubbiamente pesato sulla serie, la sensazione è stata proprio quella: che tra le due squadre ci fosse troppa differenza, fisicamente e tatticamente, per avere davvero una serie equilibrata. Lasciando i tifosi dei Sixers a fare i conti con la realtà di una squadra fallace, viziata da problemi strutturali difficili da correggere senza rivoluzioni radicali. Una panchina corta, fatta di troppi specialisti; un’evidente debolezza fisica vicino a canestro; poco tiro da fuori. E soprattutto, un senso di bollitura fisica e mentale che affonda le radici in una stagione pesante, nevrotica, e vissuta con la perenne preoccupazione di stare a galla nell’immediato, più che di lavorare verso un obiettivo.
«Ci sono cose buone che possiamo portare a casa dopo questo anno. Tyrese Maxey su tutte» dice Rivers. Ma si potrebbe anche rigirare la cosa, e dire che l’ex Kentucky sia probabilmente l’unico motivo valido per guardare al futuro con un minimo di ottimismo. Oltre al fatto che Embiid, nonostante abbia già vissuto sette vite cestistiche, ha solo 28 anni. Per il resto, si profila una fitta cortina di nebbia. A partire dalla situazione del giocatore che avrebbe dovuto cambiare le sorti della stagione, ma non è arrivato nemmeno vicino a farlo.
Impalpabile Barba
La giocata simbolo della serata, per i Sixers, arriva a inizio quarto periodo. Ancora a secco nella ripresa, James Harden prova a forzare le cose. Qualche palleggio, un cambio di direzione, poi via verso l’area, con tre difensori addosso. Dopo un secondo tempo di evanescenza assoluta, è la prima volta che ci si accorge della sua presenza. Un paio di anni fa, l’iniziativa sarebbe finita almeno con un viaggio in lunetta. A questo giro, però, si conclude con un buco nell’acqua. Palla persa, contropiede Heat, canestro facile di Bam Adebayo. E un sonoro -17 sul tabellone. Massimo svantaggio che di lì a poco si sarebbe ulteriormente dilatato. Piovono i booh, mentre il pubblico inizia a sfollare. E chi rimane coraggiosamente al proprio posto deve porsi una domanda che pare ormai inevitabile: può il giocatore arrivato in cambio di Ben Simmons, che l’anno prossimo ha una player option da oltre 47 milioni di dollari da poter esercitare, essere la guardia titolare di una squadra con ambizioni da titolo, giusto per usare le parole di Doc Rivers lo scorso anno su Simmons? Può essere questo Harden un leader eventualmente pronto a prendere il comando in caso di assenza di Embiid? Stando a quanto visto in questa serie e nella sua avventura a Philadelphia, difficile vedere una risposta affermativa. Anche provando a distaccarsi dal pessimismo cosmico che distingue la tifoseria dei Sixers. «Abbiamo eseguito il nostro attacco. La palla non mi è mai tornata indietro» è il suo laconico commento a fine partita. Seguito da un secco rifiuto di rispondere a chi gli chiede perché quella palla non gli sia mai tornata indietro.
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Quando il gioco si fa duro, Harden non comincia a giocare.
Per molti tifosi di Philadelphia, la gara-4 giocata da Harden — di gran lunga la migliore in maglia Sixers — è stato un elettrizzante assaggio di come le cose sarebbero dovute andare. Quello che avevano sognato; e quello che, con la dovuta pazienza, finalmente sarebbe arrivato. Vista da fuori, invece, è stata semplicemente l’eccezione che conferma la regola. Un acuto meraviglioso, figlio di un talento che rimane cristallino, e delle particolari circostanze della serata. Ma destinato a rimanere episodico, a fronte di una media di rendimento considerevolmente inferiore. E forse è proprio su questo aspetto che si gioca la battaglia più difficile per i Sixers: quello di calibrare le aspettative circa quanto può realmente dare in futuro, più che sull’effettiva valutazione di quanto fatto in queste settimane. Soprattutto se si considera che, a livello di atteggiamento, gli si può rimproverare poco. Arrivato in uno spogliatoio compattato dalle vicende surreali dell’ultimo anno, e probabilmente stanco di stare ai margini della contesa, si è calato nella parte con la cautela che ci si sarebbe aspettati in circostanze del genere. Coinvolgendo i compagni, arrangiandosi come può in difesa, e mostrando un linguaggio del corpo più espressivo del solito — soprattutto se paragonato all’apatia delle sue stagioni precedenti.
E infatti, il problema è stato esattamente l’opposto. Che il tanto temuto vintage Harden, l’anima assetata di punti che tiene in scacco la difesa da solo, non si è quasi mai visto. Nemmeno nei momenti in cui un po’ di iniziativa sarebbe servita. Lo ha ribadito, non senza una certa frustrazione, anche Embiid con dichiarazioni che faranno discutere: «Quando lo abbiamo preso, tutti si aspettavano il James Harden di Houston. Ma non è più quel giocatore. Ora è più un playmaker. Penso che a volte avrebbe potuto essere più aggressivo, come tutti noi». Harden ha chiuso la stagione con soli 14 tiri a partita — il numero più basso in carriera dal 2012, quando passò da Oklahoma a Houston, e diede di fatto inizio alla sua carriera da rockstar offensiva. Un dato che mostra spirito di collaborazione, ma pure una passività preoccupante. Figlia di un declino che difficilmente si arresterà in futuro. La serata da 30 punti e 10 viaggi in lunetta, quella che sembrava la base minima su cui cominciare a ragionare verso l’alto, semplicemente non c’è più (solo due volte sopra 30 in maglia Sixers tra regular season e playoff).
Quella che è mancata, poi, è stata la capacità di saper creare un vantaggio dal palleggio sempre e comunque, a dispetto di chi si trova davanti. I dati di Second Spectrum raccolti da ESPN dicono che, mentre due anni fa superava il suo difensore nel 44% delle sue penetrazioni, ora quella percentuale è del 29%. E l’efficienza è crollata, mentre le palle perse galoppano. Perso quel passo che gli permetteva di sbilanciare le difese a piacimento, costringendole a concedergli spazi al tiro per evitare la penetrazione, Harden si è trovato ad annaspare in più di un’occasione, mostrando difficoltà sia nel superare l’uomo che nel concludere al ferro. Il giro di vite nell’interpretazione arbitrale di certi contatti non ha sicuramente aiutato; ma la sensazione generale è stata quella di un giocatore in preda al doloroso distacco tra fisico e cervello che attanaglia molti atleti a fine carriera. Quel tragico momento, sportivamente parlando, in cui la mente vuole fare una cosa, ma al corpo ne viene fuori tutt’altra. Di fattura notevolmente inferiore. «Sono pronto a fare qualsiasi cosa per aiutare questa squadra a migliorare» risponde diplomaticamente a chi gli chiede se fosse eventualmente pronto ad accettare un prolungamento a cifre inferiori al massimo salariale. Ma il grande interrogativo, guardando al futuro, rimane tecnico, ancora prima che finanziario. E non è un buon segno.
«Mi piacerebbe poter essere ancora in squadra con lui»
Il sale sulle ferite, a questo giro, arriva dalle parole del vincitore. Quelle di Jimmy Butler che, intervistato a fine partita, si spertica in elogi per l’ex compagno Joel Embiid. «È mio fratello, il mio MVP, mi piacerebbe poter giocare ancora con lui». Amore ricambiato, visto che Embiid ha ribadito ancora una volta che «Ancora non ho capito perché lo abbiamo fatto andare via» e che «Da quando sono qui non abbiamo avuto tanti giocatori duri, mentre loro hanno uno come PJ Tucker che fa sentire la sua fisicità con l’avanzare dei playoff». Due messaggi neanche troppo velati alla proprietà dei Sixers, prima ancora che a questa dirigenza che non c’era quando Butler è stato fatto partire. E che aprono l’estate caldissima di Philadelphia sul mercato.
In ogni caso quella di Jimmy “Buckets” è stata una serie totale, come il suo gioco. Punti, rimbalzi, assist, difesa. E soprattutto tanta, tanta leadership, al comando di un gruppo che, pur senza strabordare di talento, ha giocato una stagione all’insegna di una costanza impressionante. È la seconda finale di conference in tre anni. Non male per un giocatore ritenuto, secondo canoni di ragionamenti discutibili, poco adatto a essere il condottiero di una squadra da titolo. Il suo trionfo rappresenta un’ulteriore pugnalata per i tifosi dei Sixers, che solo tre anni stavano ancora tifando per lui, e ora si ritrovano a fare i conti con l’ennesima rimpianto. Butler era in campo, assieme a Embiid, la sera in cui il rocambolesco canestro di Kawhi Leonard eliminò Philadelphia in gara-7 della semifinale di conference contro i Toronto Raptors — un fotogramma divenuto un’icona dei fallimenti sportivi del Processo. I Sixers non cercarono di tenerlo, o almeno non con la convinzione che sarebbe stata opportuna. Qualche fanatico del karma sperava di vederlo uscire dal Wells Fargo Center allo stesso modo, punendo i Sixers con un tiro a fil di sirena. È stato così bravo che non c’è stato nemmeno bisogno.