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Perché le rinunce di Sinner alla Coppa Davis continuano a fare così rumore
21 ott 2025
Cosa ci dice questa nuova ondata di polemiche.
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17 min
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IMAGO / CordonPress
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A settembre 2023 Jannik Sinner non era ancora né campione Slam né numero uno del mondo. Non aveva ancora nemmeno vinto una Coppa Davis con l’Italia. Da qualsiasi punto di vista la si volesse guardare, aveva raggiunto meno risultati di quanto ci si aspettasse dal suo talento. Allora, quando aveva rifiutato la convocazione in Davis per il turno preliminare di Malaga, era un bersaglio più facile da colpire. In quel momento Sinner dall’Italia sembrava aver preso più di quanto avesse restituito - in un’ottica perversa secondo cui un tennista debba effettivamente qualcosa al Paese in cui è nato.

In più Sinner aveva qualcosa di ambiguo. Era nato in una regione a statuto speciale, non era madrelingua italiano, aveva i capelli rossi e un accento duro. Agli occhi di un Paese sempre più ossessionato da un nazionalismo di facciata, tutti aspetti da contestare.

Da queste premesse nasceva la campagna mediatica di due anni fa. La grande discussione sullo scarso amor di patria di Jannik Sinner, ruotata attorno alla prima pagina di Sportweek: “Caso Nazionale”. Non so se ricordate il momento storico, ma a posteriori possiamo dire che abbia rappresentato una cesura tra un prima e un dopo nella carriera di Jannik Sinner. Se volete vederla in termini scaramantici, possiamo dire che quella campagna abbia messo fine alla fase umana di Sinner, avviando quella post-umana. Abbiamo abbandonato il Sinner vulnerabile e abbiamo scoperto quello invulnerabile.

Da quel settembre fino a febbraio, quando si è giocato il torneo di Rotterdam, Sinner ha disputato 34 partite in singolare e ne ha vinte 33. Ha conquistato sei titoli, fra cui il suo primo Slam e la sua prima Coppa Davis. Proprio dopo quella prima pagina di Sportweek, Sinner è diventato il fattore decisivo che ha permesso all’Italia di vincere la sua prima Coppa Davis da mezzo secolo. Ha battuto Novak Djokovic in una partita incredibile, una di quelle sfide che cementano lo status di un giocatore e che chi tifa Italia non può dimenticare. Si può dire, senza esagerare, che Sinner abbia vinto quasi da solo quella Coppa Davis. Dai quarti di finale in avanti l’Italia ha vinto tutte le partite in cui c’era Sinner in campo - doppi compresi - e perso tutte quelle in cui non c’era Sinner, escluso l’indimenticabile derby della paura tra Arnaldi e Popyrin.

Battere Djokovic in Coppa Davis annullandogli tre match point è qualcosa che non dimenticheremo facilmente.

Sulla scia di quella storica vittoria, l’Italia ha portato a casa anche un’altra Coppa Davis. Nel 2024 è stata la vittoria simbolica di Matteo Berrettini, ma Sinner ha continuato ad assicurare all’Italia tutti i punti di cui aveva bisogno.

Due anni dopo non pensavamo di trovarci, come in un perverso “gioco dell’oca” di nuovo al punto di partenza. La notizia è di ieri: Sinner ha annunciato l’indisponibilità in Coppa Davis per tutto il 2025. Credevamo che questi due anni di successi e di indubbio “servizio alla patria” - perché di questo stiamo parlando - lo avrebbero messo al riparo da eccessive critiche. Ci ha provato anche lui a far notare il suo contributo: «Poi, nel 2023 e 2024 l’abbiamo vinta e anche questo è un fattore. Era importante vincere la Coppa Davis e quest’anno abbiamo deciso così».

Non è bastato a tenerlo al riparo. La Gazzetta dello Sport stamattina ha titolato: "Sinner ripensaci", di certo più morbido e comprensivo del titolo severo di due anni fa. All’interno si segue alla lettera la ricetta degli ultimi anni, con l'intervista a Pietrangeli di routine. Ogni volta che Sinner fa qualcosa di non perfettamente nazionalista, qualcuno alza il telefono e chiama Nicola Pietrangeli, ne abbiamo scritto qui. Le lamentele sono accorate un po' ovunque e non serve che ve le citi tutte. I toni sono diversi da quelli di due anni fa: alla rabbia, al tentativo di character assasination, si è sostituito un più comprensibile dispiacere - a parte qualcuno più violento degli altri.

Va detto che il peso del rifiuto di Sinner è diverso rispetto a due anni fa. Non sta saltando solo le fasi iniziali della Davis, come fatto nel 2023, ma anche le finali; e non una finale qualsiasi ma una giocata in casa, a Bologna - a cui l’Italia ha molte possibilità di prendere parte.

Le critiche della stampa sono tante e comunque sproporzionate. Alcune delle quali molto probabilmente alimentate da pure logiche algoritmiche, e quindi di rage-baiting (in sostanza: sono alimentate dai giornali che cercano di convertire la rabbia in click, e quindi in pubblicità). Il loro scopo non è tanto creare contenuti, o convogliare critiche verso Sinner, quanto attirare interazioni di disapprovazione dei fan sempre più intransigenti del tennista italiano. Tutte le interazioni, alla fine, fanno comodo.

Va riconosciuto però che il rifiuto di Sinner stavolta ha una sua rilevanza. Non possiamo far finta che non significhi nulla, che Jannik Sinner decida di non partecipare alle finali di Coppa Davis giocate in casa. Al contempo non si può nemmeno ignorare che Sinner abbia già dato un contributo decisivo alla vittoria storica dei due trofei negli ultimi due anni. Insomma, il caso è diverso da quello di due anni fa e per questo forse bisogna provare a fare qualche ragionamento.

Credo sia sempre utile ricordarci il senso della Coppa Davis nel 2025, e come funziona la preparazione dei tennisti oggi. Credo che dal senso, e dal peso, che si vuole attribuire al contesto dipenda l’interpretazione di questa vicenda.

UNA SETTIMANA FA LA DIFFERENZA?
Sinner ha motivato la sua rinuncia dicendo che ha bisogno di una settimana in più per preparare al meglio gli Australian Open. Ha anche aggiunto che negli ultimi anni non ci è arrivato bene: strano da dire, per uno che ha vinto in Australia proprio negli ultimi due anni. Da fuori può sembrarci assurdo: cosa c’entra avere una settimana di riposo in più a novembre per preparare un torneo a gennaio?

La Coppa Davis finirebbe il 23 novembre, e rinunciandoci Sinner può terminare la sua stagione il 16 novembre. Il primo torneo imprescindibile sono gli Australian Open il 18 gennaio, ma forse Sinner quest’anno preferirebbe giocare un torneo preparatorio prima dell’Australia? Non possiamo ancora sapere se la scelta nasca anche da questo, arrivare cioè a Melbourne con già qualche partita in Australia giocata.

Comunque dobbiamo tenere conto di una off-season risicatissima. Si tratterebbe di 43 giorni giocando la Davis, 50 senza. Un calciatore di Serie A - in un contesto in cui ci si lamenta comunque sempre dello scarso tempo di preparazione - ha una off-season media di 90 giorni, quindi lunga il doppio. Guardando agli altri sport, in NBA ci sono 122 giorni, in MLB 177, in NFL 206.

Dentro questa economia, 7 giorni in più corrispondono al 14% della quota totale, come fa notare Vanni Gibertini. Mica poco. Capisco a chi non piace la partecipazione di Sinner al Six Kings Slam, ma i due eventi non sono paragonabili perché appartengono a due slot di calendario diversi. La Davis ritarderebbe l’inizio della off-season di una settimana mentre il torneo di Riyadh diventa propedeutico alla preparazione della stagione indoor, con i tornei più importanti ancora in arrivo - Vienna, Parigi, Finals. Magari si potrebbero invertire, questi slot in calendario, ma non lo decide Sinner.

Cosa fanno i tennisti nella loro off-season? Possiamo indicare tre attività principali: lavorare sulla tecnica, infilare appuntamenti per gli sponsor e poi la più importante, ovvero riposarsi.

Tutti e tre questi aspetti fanno parte del mestiere del tennista, e la parte del lavoro tecnico è certamente quella più delicata. Per i tennisti come Sinner, che vincono quasi tutte le partite che giocano, è difficile trovare degli spazi di calendario in cui lavorare sui colpi in modo significativo. E in questo sì: anche una settimana può marcare una differenza.

Carlos Alcaraz a luglio ha saltato il Master 1000 di Toronto, ufficialmente per problemi muscolari. In realtà, come si capisce dalle interviste, ha usato quei giorni proprio per studiare Sinner ed effettuare alcuni accorgimenti tecnici, sul servizio, sul rovescio e sulla strategia di gioco in generale. Il suo allenatore, Juan Carlos Ferrero, ha parlato di un ritiro di due settimane fatto per preparare al meglio la finale degli US Open.

Ora tocca a Sinner lavorare tecnicamente sui dettagli per sistemare alcuni aspetti del suo gioco, come ha fatto in queste settimane già sul servizio. La chiave della rivalità tra Sinner e Alcaraz passa dal costante miglioramento reciproco a cui si spingono, alla rapidità con cui riescono a evolvere rispetto al resto del circuito. Non sarebbe possibile senza alcuni periodi di pausa. Anche molto brevi.

LA COPPA DAVIS
Nella ricezione di questa campagna stampa c’è un conflitto tra chi segue il tennis da anni e chi più saltuariamente. Chi conosce il tennis sa che la Coppa Davis è ormai una competizione con poco fascino, un relitto ottocentesco che sopravvive con grande fatica nel congestionato calendario di oggi. Un torneo infilato a forza a fine novembre, quando i tennisti iniziano ad andare in letargo. La Coppa Davis non assegna premi in punti o in denaro: ci si partecipa per ragioni più laterali. I tennisti del passato oggi si lamentano di questa scarsa importanza, chiedono che le cose cambino, ma in fondo perché dovrebbero?

Diciamo anche che il formato annuale della competizione contribuisce a sottrargli importanza simbolica. Se si giocasse almeno ogni due anni i tennisti certo rifiuterebbero le convocazioni meno a cuor leggero.

Per questo i tennisti non vi partecipano sempre volentieri. In queste ore si tende a fare revisionismo sul passato, suggerendo il fatto che le generazioni di oggi saltino più facilmente gli impegni di Coppa Davis; o che siano più “soft”, come si dice nel gergo americano di quegli sportivi un po’ molli, cagionevoli. Se questo è un discorso interessante da fare su Sinner, c’entra poco la Coppa Davis. I Big-3 hanno saltato, quando necessario, l’impegno.

Djokovic ha saltato la Coppa Davis nel 2014, per esempio, quando la Serbia doveva affrontare la Svizzera. Federer difese la scelta di Nole, unendosi alla squadra svizzera all’ultimo minuto (proprio perché non c’era Djokovic? Non ci sarebbe stato niente di male). Djokovic saltò anche dei ties della coppa nel 2018 per questioni fisiche. Un’edizione saltata anche da Rafael Nadal, la sua seconda Davis saltata consecutivamente. Djokovic, per ragioni di età, ha saltato anche quella del 2024 e salterà quella di quest’anno.

Questo non significa che Nadal e Djokovic siano poco attaccati ai loro Paesi. Djokovic detiene il record di vittorie in Davis con la Serbia e ha alzato la Coppa nel 2010 - oltre ad aver vinto l’oro olimpico nel singolare maschile. Nadal ha il record di vittorie assolute in Davis e ha vinto 4 titoli - oltre all’oro olimpico sia in singolare che nel doppio.

Il caso di Federer è leggermente diverso. Lo svizzero rappresenta forse il modello di gestione a cui guarda più Sinner: un giocatore azienda dalla grande abilità diplomatica, che si pensa sempre in termini globali e che sta attento al fatturato. Federer ha vinto una Coppa Davis ma non ha fatto mancare più di qualche rinuncia, nell’ottica di una programmazione studiata nel dettaglio e di un occhio particolare alle entrate. Nel 2018 non partecipò per privilegiare la partecipazione alla sua nuova creatura, la Laver Cup, attirandosi le critiche di Julian Benneteau, che lo accusò di privilegiare gli interessi finanziari a quelli sportivi.

All’epoca la scelta dei tornei a cui partecipare da parte di Federer, soprattutto superati i 30 anni, era considerata innovativa; un miracolo di efficienza gestionale che gli ha permesso di avere solo rari problemi fisici e una competitività quasi intatta fino ai 38 anni. Certo: Sinner ha solo 24 anni e questa gestione può fare più impressione, ma la progettazione maniacale degli impegni sembra un suo tratto essenziale - collegato alla sua vaga ipocondria, ma anche alla ricerca del perfezionamento costante, che poi è ciò che lo rende quel che è.

Quest’anno ha creduto di poter rinunciare anche sulla base delle due recenti vittorie. Sinner ha già vinto il doppio delle Davis di Federer. Il paragone con Alcaraz, che parteciperà a queste fase finali, è ingiusto. Sinner ha già giocato 19 ties di Davis, lo spagnolo solo 8 e non ha ancora alzato la coppa. In più non sarebbe assurdo che abbia inciso proprio la loro rivalità nella sua rinuncia, almeno in minima parte.

I trofei, in questo momento, sono divisi tra loro due, e la programmazione reciproca comincia a risentirne. Qualche settimana fa si sono divisi, forse non casualmente, Tokyo e Pechino. Affrontarsi a ripetizione non serve a nessuno ed esporsi a un’ipotetica finale di Davis con singolare decisivo Alcaraz-Sinner rischia di essere veramente troppo - troppo investimento di energie nervose, soprattutto, troppe scorie possibili e una resa dei conti difficile da gestire fuori dagli Slam, anche in ottica futura. Se fate caso, a dispetto della quantità enorme di incontri disputati tra loro, ci sono poche sfide fra i Big-3 in Coppa Davis. Borg non partecipava mai alle esibizioni perché non voleva offrire vantaggi competitivi ai suoi rivali.

E allora perché i tennisti partecipano alla Coppa Davis?

Ci sono ragioni laterali, dicevamo. Perché fa piacere, ogni tanto, ai tennisti sentirsi parte di una squadra. Li aiuta a scaricare la tensione, a condividere le responsabilità e anche le gioie. Li fa sentire meno soli. I tennisti restano creature solitarie, ma sentirsi in gruppo ogni tanto può sollevarli. La seconda ragione per cui si partecipa alla Coppa Davis è più sfuggente, ed è “l’amor di patria”, o patriottismo, o chiamatelo come volete. Più concretamente il piacere di giocare per il pubblico del Paese in cui si è nati, e in cui verosimilmente si concentra la maggior parte dei tifosi. Rappresentare una comunità più grande.

È un concetto particolarmente ambiguo in uno sport individuale. Un concetto che ha a che fare con la sensibilità del singolo - esiste ancora un diritto a essere meno nazionalisti, in Italia, nel 2025?

Nel tennis i giocatori scendono in campo per se stessi, non rappresentano un club o una Nazionale. Ogni tennista ha attorno la propria comunità di fan, verso cui possiamo immaginare provi un qualche senso di responsabilità. Questa comunità però ha una composizione sovranazionale. Non è immediato da capire per chi non segue il tennis. Molti di noi tifano tennisti del proprio Paese perché possono sentire una maggiore vicinanza umana, possono riconoscere dei tratti in cui identificarsi. Nonostante si dica che Sinner sia poco italiano, nel modo in cui scherza, in certe battute, in certe cazzate che fa lontano dalle telecamere, si riconosce qualcosa di comune ai nostri amici.

E dunque ritengo sia in una certa misura naturale tifare per i tennisti del proprio Paese, ma lo è comunque meno che tifare degli atleti che gareggiano proprio in rappresentanza del tuo Paese in altri sport. C’è comunque un’opacità, qualcosa di non scontato, nel fatto che tifiamo Sinner perché italiano. Soprattutto, dovremmo pensare che molti tifano Sinner per quello che rappresenta - sportivamente e umanamente - anche al di fuori dell’Italia, come del resto molti di noi tifavano - e qui intendo tifavano, con tutto il trasporto necessario - tennisti non italiani fino a qualche anno fa. Il motivo per cui conosco persone che hanno tatuato il logo di Federer sulle braccia, altre che collezionano i completini di Nadal, altre ancora che vedono in Novak Djokovic un role model. Esistono tifose che giravano il mondo seguendo i tornei di Simona Halep. Tifose asiatiche.

Questa dimensione transnazionale è uno dei tratti più belli del tennis, ma è pur sempre ambigua, perché un residuo di nazionalità continua a esistere. Sinner continua ad avere la bandierina italiana accanto al nome nei tornei e gioca per l’Italia ai Giochi Olimpici e in Davis. Continua ad avere rapporti privilegiati con la federazione italiana. Il suo lavoro, allora, in termini di immagine, ha a che fare con la ricerca di un equilibrio tra il comportarsi come un’icona globale e avere comunque un occhio di riguardo per il proprio Paese.

Un equilibrio difficile che crea cortocircuiti, per esempio con la stampa. Sinner non si concede particolarmente nelle interviste, e non sembra avere un occhio di riguardo per i media italiani, al di fuori dei due interlocutori che si è scelto, RAI e Sky - la rete nazionale e il broadcaster che investe nel tennis.

La stampa però si comporta come Sinner fosse nostro. Mi rendo conto di dire una cosa ambigua ma forse avete capito cosa intendo. Negli editoriali dolenti di queste ore, nelle lacrime e nel dispiacere, c’è l’idea sotterranea che Sinner ci appartenga, e che quindi ci debba qualcosa. Sinner deve sicuramente qualcosa ai suoi tifosi, che lo rendono una personalità più grande dei suoi risultati sportivi, e che gli migliorano il fatturato, ma questi tifosi non sono solo italiani.

Ora arriviamo a parlare di chi davvero ha tutte le ragioni di lamentarsi del forfait di Sinner, ovvero i tifosi italiani che hanno già comprato un biglietto per le finali di Bologna, credendo che l’Italia si qualificherà e che potrà vedere Sinner. Tifosi che non hanno ancora comprato i biglietti ma progettavano di farlo, di vedere Sinner un po’ più da vicino. Facciamo però finta, in questi discorsi, che i tifosi di Sinner di Parigi o Vienna abbiano meno diritti di quelli di Bologna.

Resta però questa, sicuramente, la parte più triste, e comprendo che fa un certo effetto immaginare bambini italiani sinneristi che non potranno vedere il loro idolo mentre a Riyadh abbiamo visto la platea di sceicchi godersi il loro Alcaraz-Sinner.

Farne un tema di soldi è certamente riduttivo, per tutto il discorso che ho provato a fare, però un piano economico resta, ineludibile. Il fatto che la Davis non metta soldi in palio è chiaramente un disincentivo per i tennisti a partecipare ed è impossibile che non abbia inciso anche in questa mancata partecipazione di Sinner - come di converso i soldi hanno influito nella sua partecipazione al Six Kings Slam, come ammesso da lui stesso.

Allora resta interessante una critica di Giulia Zonca su La Stampa, che ha proprio a che fare col denaro: "Chi se ne frega di dove è nato Sinner o dove risiede, è uno spettacolare italiano capace di raccogliere con disinvolta eleganza tappi di champagne dai campi da tennis. Per questo lo applaudiamo divertiti e per questo siamo amareggiati. Perché senza romanticismo non c’è sport. I soldi reggono il sistema, il tifo lo nutre il sentimento, a meno di mettersi una racchetta d’oro al posto del cuore, non il suo: il nostro".

Può non piacervi questo passaggio, potrete trovarlo riduttivo, ma il punto è centrato: gli sportivi continuano a mettere il profitto più o meno in cima alla lista delle loro priorità. Nonostante non siano i soldi ma la passione a tenere in piedi la macchina. Attenzione: è un tema che non riguarda Sinner ma lo sport in generale, e il tennis in particolare, finito in un cul de sac tra un calendario troppo fitto e delle esibizioni economicamente irrinunciabili. I tennisti continuano a lamentarsi, a ragione, di non aver tempo di respirare, ma poi partecipano a esibizioni estremamente remunerative a costo di riposarsi ancora meno. Quando invece c’è in gioco un piano più simbolico, persino romantico, le loro rinunce arrivano più a cuor leggero. Se questo è il caso della Coppa Davis lascio a voi giudicare.

In questi giorni sta facendo discutere la scelta di Jia Tolentino, scrittrice e collaboratrice del New Yorker, di partecipare a un progetto brandizzato da Airbnb, azienda che in passato aveva criticato per aver contribuito a desertificare il tessuto economico e sociale delle città. Ci si chiede, negli Stati Uniti, se il problema non sia di sistema; come abbiamo fatto a permettere che persino una delle autrici più di successo del Paese debba accettare compromessi etici così vistosi per poter lavorare?

Questo discorso però non riguarda i tennisti, che non giocano le loro esibizioni per poter lavorare ma per aumentare i profitti. Il tema però è ancora diverso e più complesso. I tennisti ragionano come aziende perché di fatto lo sono. Hanno uno staff di dipendenti pagati e ogni scelta va presa preservando questo delicato equilibrio tra la dimensione sportiva e quella economica - che non riguarda solo loro ma anche chi guadagna attraverso di loro.

Il tema tocca una questione più abissale: cosa chiediamo agli sportivi? Successo sportivo e mediatico, ma anche integrità morale e generosità umana. Chiediamo che mettano tra parentesi il loro desiderio di profitto all’interno di un’economia e di una cultura fondate proprio sul profitto. Gli chiediamo che abbiano, almeno loro, la forza di rinunciare a ciò che tutto intorno gli dicono: guadagnare di più, sempre di più, perché il valore di una persona si misura attraverso quello economico. Quando invece si confermano esattamente come gli altri, nonostante li idolatriamo come fossero qualcosa di più, rimaniamo delusi.

C’è forse qualcosa di ipocrita in queste richieste, ma anche di giusto. Non ho una risposta. Quel che so è che esattamente tra un anno si giocheranno di nuovo le finali di Coppa Davis, e di nuovo a Bologna. Un fatto di cui, mi pare, tutti si siano dimenticati.

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