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Guerra e pace
10 giu 2015
10 giu 2015
Il percorso e la trasformazione di Sinisa Mihajlovic e dei suoi valori, tra universo militare e calcistico.
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Winston Churchill disse che il problema dei Balcani è che «producono molta più storia di quanta ne possano consumare». Un aforisma che potrebbe essere applicato anche a Mihajlovic: intorno alla sua figura gravitano una quantità di aneddoti, storie e racconti che farebbero la fortuna di qualunque biografo.

La ragione di questa massa biografica è il fatto che a Mihajlovic è sempre piaciuto parlare di sé stesso, delle sue idee, delle sue radici. L’allenatore serbo si è prodigato fin dall’inizio della sua carriera da calciatore nella costruzione della propria immagine, talmente netta e definita da non lasciare alternative né ai media né all’opinione pubblica.

Eppure la percezione di Mihajlovic è sostanzialmente cambiata dalle sue prime apparizioni in Italia. Qualche mese fa l’ex allenatore della Sampdoria è stato ospite del programma in seconda serata di Alessandro Cattelan su Sky Uno. Con mio grande stupore, Mihajlovic si è trovato perfettamente a suo agio in un programma che prima di lui prevedeva un’intervista a J-Ax. Il ritratto che ne è uscito fuori era quello di uomo severo ma simpatico, schietto ma carismatico.

La puntata finisce con i due che si sfidano a tirare palloni dal quinto piano di un palazzo con l’obiettivo di centrare delle bacinelle poste nel cortile al piano terra. Un bel salto in avanti rispetto a quando calcava i campi da calcio, periodo in cui era considerato un giocatore duro e spigoloso.

La faglia che divide i due periodi ricalca abbastanza precisamente le due carriere di Mihajlovic, quella di calciatore e quella di allenatore. Sinisa è stato abile nell’applicare alle due carriere immagini diverse ma non contrastanti, entrambe riconducibili al mondo militare: il soldato e il generale.

Il soldato

Una delle innovazioni più potenti della Rivoluzione francese fu quella di trasformare l’esercito transalpino da un piccolo gruppo di nobili professionisti a una formazione di massa costituita da cittadini pronti a morire per la difesa della nazione. Quell’innovazione fece la fortuna prima della Francia rivoluzionaria e poi di quella napoleonica e sopravvive ancora oggi in alcuni stati come gli Stati Uniti o Israele. Mihajlovic ha portato questa stessa idea su un campo da calcio, trasformandolo in una trincea.

La trasformazione da calciatore a soldato avviene l’8 maggio del 1991, giorno in cui a Belgrado si svolge la finale della Coppa di Jugoslavia tra Hajduk Spalato e Stella Rossa. Mihajlovic ha 22 anni e la Jugoslavia è ormai sull’orlo dell’implosione. Undici giorni dopo la partita è previsto il referendum sull’indipendenza della Croazia mentre la Slovenia non fa più parte della Jugoslavia già da cinque mesi.

Sei giorni prima della partita, a Vukovar, si consuma il primo atto delle atrocità tra serbi e croati. Nel piccolo villaggio di Borovo Selo (poco a nord di Vukovar) un gruppo di poliziotti croati tenta di sostituire una bandiera jugoslava con una croata. La mossa scatena la reazione delle truppe paramilitari serbe, guidate da Zeljko Raznatovic (che di lì a qualche anno si farà conoscere al mondo con il nome di Arkan), che aprono il fuoco sulla polizia croata. Lo scontro si trasforma in una battaglia che provocherà diverse decine di morti prima di essere sedata dall’esercito jugoslavo.

La battaglia interrompe le comunicazioni tra Borovo Selo e il resto del mondo e Mihajlovic, che è nato e cresciuto proprio a Borovo Selo da madre croata e padre serbo, non ha più notizie della sua famiglia da giorni. Il fatto che stia scendendo in campo contro quella che secondo i suoi amici d’infanzia è stata la sua squadra del cuore, in questo contesto, diventa un dettaglio irrilevante.

La partita è tesa e nervosa, durante uno degli innumerevoli scontri Mihajlovic arriva faccia a faccia con Igor Stimac, difensore croato dell’Hajduk Spalato, che in una forma molto estrema di provocazione gli dice: «Prego Dio che i nostri uccidano tutta la tua famiglia a Borovo». La reazione di Mihajlovic è furiosa, anni dopo dichiarò che avrebbe potuto ucciderlo a morsi. Alla fine, dopo alcune entrate al limite del penale, entrambi vengono espulsi dall’arbitro.

Il riassunto di quella partita. Il goal decisivo è di Boksic.

È in questa situazione che l’amicizia tra Mihajlovic e Arkan, che prima di diventare criminale di guerra era il capo degli ultras della Stella Rossa, diventa più profonda. Grazie all’intercessione di Arkan la famiglia di Mihajlovic viene portata in salvo, venendo trasferita da Borovo a Belgrado: un gesto non affatto scontato se si pensa che la famiglia di Mihajlovic era per metà croata mentre dall’altra parte della barricata «c’era la caccia al serbo», come ricordò lo stesso Mihajlovic molti anni dopo.

Secondo il racconto dell’allenatore serbo, Arkan catturò un suo zio croato, il fratello di sua madre, che aveva minacciato di uccidere suo padre perché serbo, lo chiamò per telefono e gli lasciò scegliere se lasciarlo uccidere dai suoi uomini oppure di metterlo in salvo a Belgrado. «Non dissi niente a mia madre, ma gli salvai la vita e lo ospitai per venti giorni».

È quella circostanza che cementifica in Mihajlovic i valori del soldato: onore («Arkan è stato un eroe per il popolo serbo»), lealtà («Un serbo difenderà sempre un altro serbo»), fedeltà («Io gli amici non li tradisco né li rinnego»). Da alcune dichiarazioni di Mihajlovic si deduce un apprezzamento per il mondo militare («Mladic? Un grande guerriero che combatte per il suo popolo») e una relativa freddezza nei confronti del mondo politico («Milosevic? Ci ho parlato tre-quattro volte», «Milosevic andava deposto, i serbi stavano aprendo gli occhi»).

Arkan è stato accusato dal Tribunale penale per l’ex Jugoslavia di crimini di guerra e crimini contro l’umanità; Mladic è attualmente sotto processo all’Aja per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra per il suo ruolo nel massacro di Srebrenica, il più grande sterminio di massa dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Mihajlovic ha interpretato questo contesto complicato con la lealtà cieca che il soldato semplice deve ai suoi superiori: «La guerra nella ex Jugoslavia ha tanti colpevoli. Ma la storia la scrivono sempre i vincitori». Inquadrarlo nei nostri schemi ideologici, come fece l’ala di estrema destra della Curva Nord esponendo il famoso striscione su Arkan, tuttavia, è un’operazione scivolosa e per certi versi paradossale. Mihajlovic ha più volte espresso di essere un nostalgico di Tito (un altro generale, guarda caso), cioè uno dei più grandi esponenti del comunismo e del terzomondismo del ventesimo secolo.

Boksic, croato in quel momento alla Lazio, dichiarò: «Sono amareggiato e deluso, anche perché quella scritta viene dai miei tifosi. Hanno reso onore a quello che tutto il mondo considera un criminale di guerra contro il mio popolo. Davvero non si rendono conto di quello che fanno. Se fossi stato in campo avrei smesso di giocare, ne sono sicuro».

La leggenda vuole che sia stato proprio Mihajlovic a chiedere ai tifosi della Lazio di esporre quello striscione. Anni più tardi, però, lui stesso dimostrò una certa freddezza nei confronti di quell’accaduto: «Sapevo che lo avrebbero esposto ma non glielo chiesi io. Avvisai la società e i tifosi e mi dissero che non lo avrebbero esposto, invece lo misero lo stesso. Io dissi che non c'entravo, invece loro aspettavano che dicessi che glielo avevo chiesto».

L’allenatore serbo in realtà è rimasto sempre all’interno del recinto della litigiosità nazionalista balcanica di cui ha abbracciato, come abbiamo visto, l’epicità cavalleresca. L’insieme di questi aspetti ne ha caratterizzato l’immagine pubblica da calciatore, al punto che anche il tratto distintivo del suo stile di gioco, le punizioni (Mihajlovic ha il record di punizioni segnate in Serie A, 28, ed è l’unico insieme a Beppe Signori ad aver segnato una tripletta su punizione) sono state fatte rientrare nell’immaginario bellico. In questo articolo della Gazzetta del febbraio del 1997, le sue punizioni vegono definite come «missili negli incroci» che fanno «tremare le barriere» e «mettere in angoscia i portieri». Nello stesso articolo Mihajlovic dichiara di essere riuscito a calciare un pallone a 165 chilometri orari.

«Quando i compagni guadagnano un fallo da distanza ragionevole Sinisa Mihajlovic si avvicina con movenze da boia».

Mihajlovic è stato il giocatore che più efficacemente è riuscito a coniugare potenza e precisione sui calci da fermo, dando sostanza all’immagine calcisticamente stereotipata del cecchino. Il suo modo di difendere, duro o anche scorretto, sembra ricalcare la massima secondo cui in guerra non ci sono regole da rispettare. Ed è una retorica che fa venire i brividi quando traslata ai crimini di Arkan, che Mihajlovic ha commentato dicendo che «in una guerra civile non esistono i buoni e i cattivi».

L'onore e la lealtà sono i valori più importanti per Sinisa il soldato, costi quel costi. Quando ammise di aver insultato Vieira dandogli del «negro di merda» durante un Lazio-Arsenal di Champions League dichiarò di non volersi scusare con il centrocampista francese. Non perché fosse razzista, però, ma perché Vieira non aveva avuto la lealtà di ammettere le sue provocazioni (secondo Mihajlovic l’aveva chiamato «zingaro di merda»): «Se è un uomo, racconti quello che ha fatto lui». La cosa grave per Mihajlovic non era l’offesa (da allenatore della Fiorentina, anni più tardi, si definì uno zingaro), ma il fatto che Vieira avesse macchiato la sua onorabilità: «A Donetsk un mese fa mi hanno spaccato uno zigomo: non ho fiatato».

Il generale

Il passaggio da soldato a generale, da combattente a guida, per Mihajlovic non è stato facile. Nei primi anni da allenatore ha continuato a combattere contro i suoi avversari in campo come se fosse ancora un calciatore. Nell’intervista a Cattelan ha ammesso: «Io mi sono ritirato a 37 anni ma in realtà ho smesso di giocare solo 4-5 anni fa».

Nel dicembre del 2008, da tecnico del Bologna, poco prima di una partita contro la Roma dichiarò di aver tolto il saluto a Totti, colpevole di aver declinato l’invito alla sua partita di addio al calcio. In questa fase Mihajlovic è ancora soldato, il valore sacro da rispettare rimane l’onore: «Non ha rispettato la parola e per me non esiste più».

Una curiosa costante di questo primo periodo da allenatore fu quella di rincontrare i giocatori che avevano segnato le pagine più buie della sua carriera da calciatore, come se il caso si fosse divertito a metterlo alla prova per insegnargli che un buon generale deve essere temuto ma non disprezzato, come diceva Machiavelli al suo principe.

Succederà all’Inter, quando era il secondo di Mancini, dove ritroverà Vieira e Ibrahimovic (che gli aveva rifilato una testata durante un Juventus-Inter del 2005) e alla Fiorentina, dove invece ritroverà Mutu (a cui aveva sputato durante un Lazio-Chelsea di Champions League).

Raiola cercò di difendere Ibrahimovic dichiarando che Mihajlovic lo aveva provocato con «frasi irripetibili sulla sua religione e sulla moralità di sua madre».

Con Ibrahimovic non si prese mai, da allenatore del Catania dichiarò che «dopo 2-3 anni i compagni non lo sopportano più». Anche con Mutu, nonostante le belle parole iniziali, il rapporto non decollò. Alla fine venne messo fuori squadra e venduto al Cesena per aver lasciato in anticipo un allenamento. Forse furono i fallimenti in queste esperienze (a parte Vieira, che addirittura andò alla sua partita di addio al calcio) a forgiare le caratteristiche più spiccate del Mihajlovic allenatore, come l’esigenza nel rispetto delle regole emanate dalla sua incontestabile autorità.

Quello del rispetto delle regole rimase una costante anche nelle sue esperienze successive. Nel dicembre del 2013, quando era già allenatore della Sampdoria, a questo proposito dichiarò: «Io sono cresciuto nella scuola dell'Est: a quei tempi, quelli del comunismo, il giocatore di calcio era un po' come un soldato, doveva obbedire e basta. Quando sono arrivato da voi, mi sono accorto che qui i giocatori invece parlavano con l'allenatore. Io oggi capisco se un giocatore chiede spiegazioni, ma poi deve fare quello che gli chiedo». L’ultimo episodio è avvenuto solo qualche mese fa proprio alla Sampdoria, con Eto’o messo temporaneamente fuori squadra per aver lasciato un allenamento senza preavviso.

Il litigio più emblematico in questo senso è quello con Adem Ljajic. L’attaccante della Roma si è rifiutato di cantare l’inno serbo durante un’amichevole con la Spagna, e non è mai stato chiarito se il suo essere musulmano e di Novi Pazar (cittadina a maggioranza musulmana al confine col Kosovo) abbia influito sulla sua scelta, che nelle dichiarazioni ufficiali ha sempre classificato nella macrocategoria delle «motivazioni personali». Fatto sta che Mihajlovic, allenatore della Nazionale serba in quel momento, la prese male al punto di non convocarlo più fino alla fine della sua permanenza in panchina.

L’esperienza da allenatore della Serbia è stata fondamentale per completare la trasformazione di Mihajlovic da soldato a generale/allenatore. È stato scelto nel maggio del 2012 per portare la Serbia ai Mondiali del 2014 e l’ennesimo scherzo del caso ha voluto che a essere sorteggiate nello stesso gruppo europeo siano state Serbia e Croazia. La prima delle partite tra le due Nazionali si è giocata il 22 marzo del 2013, al Maksimir di Zagabria. L’ultima volta che le due Nazionali si erano affrontate in Croazia era l’ottobre del 1999 e la Serbia ancora si faceva chiamare Jugoslavia. In quella partita Mihajlovic c’era e, quando scese in campo, in curva apparse uno striscione con scritto «Vukovar 1991».

Nonostante un ritorno del passato così potente, Mihajlovic dimostra per la prima volta di guardare le cose con relativo distacco, come fanno i veri generali: «Darei tre anni di vita per poter scendere in campo in questa partita.[…] Ma questa partita non è la continuazione di una guerra». Può sembrare una dichiarazione di circostanza se non fosse che sulla panchina della Croazia fosse seduto Igor Stimac, l’ex difensore dell’Hajduk che augurò la morte alla sua famiglia e che ha continuato a provocarlo anche negli anni successivi. Nel 2003 Stimac disse di lui a una rivista croata: «Sua madre è croata, sua moglie è italiana, si è sposato e ha battezzato i suoi figli in una chiesa cattolica: i serbi non lo accetteranno mai». Nel 2008 Mihajlovic propose di risolvere la questione una volta per tutte di fronte a una bottiglia di vino ma Stimac rispose: «Non potrei mai bere con lui. Sicuramente non avremo più contatti».

L’abbraccio che si scambiano prima della partita, che la Serbia perderà 2-0 compromettendo così anche la qualificazione a quei Mondiali, è quindi probabilmente forzato da considerazioni politiche e di ordine pubblico ma, almeno simbolicamente, segna la fine definitiva del Mihajlovic soldato.

L’abbraccio, freddissimo, tra Mihajlovic e Stimac.

Forse non è un caso quindi che Mihajlovic abbia iniziato ad avere successo da allenatore proprio da quel momento. È con la Sampdoria, infatti, che lo stile dell’allenatore serbo è iniziato ad apparire con maggiore evidenza. Anche in questo caso sembra ispirarsi a valori militari, che nel mondo dello sport fortunatamente trovano un'espressione positiva: la Sampdoria di quest'anno ha brillato per intensità fisica, compattezza e ordine tattico, e Mihajlovic sembra aver trovato il modo per esprimere le proprie idee con strumenti puramente calcistici.

Il politico?

Con la stagione e mezza passata alla guida della Sampdoria, Mihajlovic ha completato anche la sua riabilitazione all’interno del panorama mediatico italiano. Lontanissimi i tempi in cui il suo passaggio alla Fiorentina scatenava un vero e proprio «caso Mihajlovic», tempi in cui Adriano Sofri sosteneva sulle pagine de La Repubblica che le frasi di Mihajlovic su Arkan somigliavano a quelle che «avrebbe potuto dire un tedesco al tempo di Hitler».

Il merito non è solo degli eccellenti risultati, ma soprattutto di un’abile strategia comunicativa, condotta con il fine di presentarsi come «un uomo che sa stare al mondo, un amante delle citazioni e un tipo tosto che non accetta interferenze» (come si legge in questo articolo della Gazzetta, in cui Mihajlovic viene chiamato «sergente Sinisa»).

Durante le sue conferenze stampa Mihajlovic ha scomodato i personaggi più diversi: da Giulio Cesare a Churchill, da Che Guevara a Einstein, da Dante a Walt Disney. Tra le tante citazioni, è curioso notare che l’inizio e la fine della sua esperienza alla Sampdoria siano stati suggellati da due citazioni di un presidente americano, John Fitzgerald Kennedy. In passato Mihajlovic aveva detto di «non sopportare» gli americani.

«Io sono fatto così».

Il cambiamento non deve stupire perché il Mihajlovic soldato, quello che a Catania dichiarava con orgogliosa fierezza che sarebbe stato disposto a «morire di fame» pur di non passare dalla parte del nemico, è sepolto da un pezzo. Anche il Mihajlovic generale, quello che ha imparato a plasmare la comunicazione a suo favore, sta dimostrando di essere in fase di mutamento.

Qualche giorno fa, commentando le voci che lo vorrebbero a un passo dal Milan, Mihajlovic ha dichiarato: «Le persone cambiano. Quando ero giovane andavo a sottrazione, andavo a dividere il noi dagli altri, avevo bisogno dei nemici perché era quello che mi stimolava. Ho imparato tanto, ho capito tante cose e ora punto ad accumulare esperienze. È facile essere amati da una squadra dove hai giocato, è una sfida invece convincere gli scettici».

«Convincere gli scettici» è una frase che non sentirete mai uscire dalla bocca di un soldato o di un generale. Chissà quante volte invece l’avrà pronunciata Silvio Berlusconi, l’animale da palco che ha venduto metà della società al doppio del valore. Il suo Milan potrebbe essere l’ambiente ideale per la prossima metamorfosi di Mihajlovic. Da soldato, a generale, a politico.

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