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Marco Gaetani
Simone Inzaghi e l'Inter: una storia in tre atti
22 apr 2024
22 apr 2024
L'esperienza in nerazzurro di Inzaghi, dall'inizio allo scudetto.
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Marco Gaetani
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IMAGO / Giuseppe Maffia
(foto) IMAGO / Giuseppe Maffia
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Pur essendo un uomo tutt’altro che incline al colpo di scena, l’avventura di Simone Inzaghi all’Inter comincia con un’inversione a U, inattesa, imprevedibile. Il 26 maggio 2021 gli esperti di casa Lazio concordano: il rinnovo fino al 2024 con i biancocelesti è cosa fatta. Vertice fiume a Villa San Sebastiano con Claudio Lotito, accordo raggiunto per 2,2 milioni di euro a stagione più bonus (ma c’è chi sostiene 2,3, chi 2,5), linea comune sul mercato. Non è soltanto un’indiscrezione perché si sbilanciano tutti, con tanto di dettagli: staff integrato con l’aggiunta di altre tre figure, un maggiore peso sulle scelte degli acquisti e delle cessioni dopo la scottatura di una campagna acquisti che aveva visto arrivi decisamente poco graditi per il primo giro in Champions League. Inzaghi esce dal vertice col sorriso, ammicca ai giornalisti appostati lì fuori, suona il clacson come a voler festeggiare. Passano una manciata di ore e questo scenario cambia di colpo.

Dopo 22 anni in biancoceleste da giocatore e allenatore, Inzaghi accetta la corte dell’Inter, che durava da settimane, forse da mesi, ma mai con l’intensità dell’ultimo periodo. A metà giugno si congeda con una lunghissima lettera: "Non ho problemi ad ammettere che lasciare la Lazio sia stata una delle scelte più complicate della mia vita, non ho avuto ancora nemmeno la forza di andare a svuotare l’armadietto a Formello. I motivi che mi hanno portato a fare questa scelta non voglio affrontarli, ma è probabile che tutti avremmo potuto fare meglio. Nessuna polemica, s’intende. Non le ho mai fatte prima e tantomeno le farei adesso o più avanti: il biancoceleste, per me, resta solo amore. Non mi permetterei mai di polemizzare con una società che ringrazierò per sempre. Senza il presidente Lotito e il DS Tare non avrei mai potuto realizzare il mio sogno di allenare la squadra del cuore, con cui avevo vinto uno scudetto da giocatore. Allo stesso tempo, però, sono anche un professionista che ama il suo lavoro: per questo la mia determinazione e la voglia di mettermi in gioco mi portano lontano da Roma e non nego di essere completamente concentrato in questa nuova ed entusiasmante avventura con l’Inter".

Tre anni dopo, con il primo scudetto vinto da allenatore, quell’inversione di fine maggio rimane davvero l’unico colpo di scena concesso da Inzaghi agli osservatori. Ha sempre lavorato nel solco delle sue idee, rimanendovi fedele anche a costo di finirne scottato. Si è evoluto, questo sì, affinando alcuni aspetti del suo modo di allenare che rischiavano di sfociare nel tic, nel riflesso incondizionato. Ha attraversato momenti belli e altri orrendi, è stato sul punto dell’esonero e di vincere una Champions League, è diventato suo malgrado, in più occasioni, materiale per i meme. Alla fine ha vinto lo scudetto anche se, agli occhi dei detrattori, è una vittoria che arriva in ritardo rispetto alla tabella di marcia che lo avrebbe voluto campione d’Italia già al primo colpo, nell’anno del titolo poi andato al Milan.

Chissà cosa è successo in questo universo parallelo.

L’eredità di Conte

Inzaghi viene chiamato in fretta e furia a raccogliere l’eredità di Antonio Conte, fuggito, come spesso gli accade, sbattendo la porta. Marotta prima azzarda un tentativo con Allegri, già in dialogo avanzato con la Juventus, quindi fa retromarcia e torna su Inzaghi, già corteggiato nei mesi precedenti. Agli occhi degli osservatori, è una soluzione di comodo. "I nerazzurri hanno puntato su una figura che conosce il campionato italiano, schiera la squadra con il 3-5-2 ed entra alla Pinetina con spirito aziendalista". È l’analisi apparsa sul Corriere della Sera il giorno successivo allo scossone.

Già, il 3-5-2: Inzaghi in quelle ore viene indicato come la soluzione ideale per proseguire il lavoro di Conte, nonostante i principi diametralmente opposti tra i due tecnici che, in comune, hanno praticamente soltanto il sistema di gioco prediletto. Conte lascia temendo la smobilitazione, immaginando di non poter essere in grado di mantenere i livelli dell’anno precedente: in uscita, infatti, c’è sicuramente Hakimi, uomo decisivo per il tricolore, e chissà chi altri. Uno dei colossali equivoci è quello dell’Inzaghi troppo italiano, contropiedista, lontano dalla voglia di imporre calcio. "Esce da 22 anni di Lazio, una casa più che una squadra, un’abitudine, un linguaggio. Inzaghi è bravissimo, ama giocare contropiedi di qualità, è un giochista all’italiana, abituato ai grandi giocatori (Milinkovic, Luis Alberto, Leiva, Acerbi, Immobile, Correa) e soprattutto abituato a se stesso. Gioca con tredici elementi: trovata la squadra, la sfinisce. È uno dei pochi che ha costruito calcio in questi anni, la sua Lazio non è stata inferiore all’Inter nei risultati e nella gestione di grandi giocatori. Gli servirà tempo, non so se lo avrà". Il ritratto è di Mario Sconcerti, mescolando verità e mito.

Una carezza gliela lancia Romelu Lukaku dal ritiro del Belgio, quando ancora l’Inter tecnicamente non lo ha ancora annunciato come tecnico: «Resterò all’Inter. Ne ho già parlato con il nuovo allenatore, Simone Inzaghi: forse non dovrei dirlo. La conversazione è stata molto positiva, la sfida è vincere ancora. Mi sento bene all’Inter, ho conquistato qualcosa, mi è piaciuto e voglio farlo di nuovo. Magari la prossima volta con San Siro tutto esaurito». Il 12 giugno 2021 sull’Inter si abbatte la pessima notizia dell’arresto cardiaco di Christian Eriksen durante Danimarca-Finlandia. Inzaghi telefona ad Ausilio e Marotta: «Si leggeva che Calhanoglu non sarebbe rimasto al Milan. Loro mi hanno detto che l’avevano già contattato. La qualità del giocatore era un’idea comune a tutti, l’abbiamo preso per fare la mezz’ala», ha raccontato Inzaghi a distanza di anni, ammettendo che in quel momento non aveva ancora in mente l’idea di trasformarlo in regista.

Il giorno della presentazione, Inzaghi viene introdotto da Marotta che parla apertamente di «difficile momento post pandemia, caratterizzato da sofferenze economiche: uno scenario inquietante, che riserverà spiacevoli situazioni, e siamo lontani dal mecenatismo caro a Milano che vedeva i proprietari anteporre il risultato al bilancio. Oggi è impossibile». Inzaghi, dunque, è chiamato a fare di necessità virtù, e ammette che la cessione di Hakimi gli era stata prospettata già in sede di trattativa. «Ma gli altri giocatori importanti rimarranno. Con Lukaku ho parlato tante volte, è una garanzia. Calhanoglu mi è sempre piaciuto, può essere il nuovo Luis Alberto. Voglio una squadra intensa, sempre dentro alla partita, capace di reagire agli episodi fino all’ultimo respiro», dice in un chiaro richiamo al passato laziale, a una “zona Caicedo” che aveva assunto contorni ai limite del paranormale.

A inizio agosto, la partenza di Lukaku fa sprofondare gli interisti in una depressione che confina con lo psicodramma, anche perché i giornali inglesi riferiscono di un Tottenham pronto a versare 90 milioni per Lautaro Martinez e quelli italiani si mettono a fare di conto: i 180 milioni già incassati più i possibili 90 per "il Toro" consentirebbero a Steven Zhang di rientrare praticamente nel giro di un’estate dell’ormai celebre prestito del fondo americano Oaktree. Arriva subito Dzeko per tamponare la falla, si cercano Marcus Thuram – che però si fa male proprio quando l’interessamento sembra pronto a concretizzarsi – e Duvan Zapata. Beppe Bergomi, gran visir dell’interismo, con il mercato ancora aperto si dichiara ottimista e preoccupato allo stesso tempo: «L’Inter è più debole senza Lukaku e Hakimi, ma la società ha operato bene. Il cambiamento può essere positivo, non deve spaventare, poi è chiaro che Conte è un fuoriclasse assoluto. L’Inter può arrivare agli ottavi di Champions, ma dipende dal sorteggio. La favorita per lo scudetto è la Juve: ha la rosa migliore, magari un po’ imperfetta, ma è tornato Allegri e fa la differenza». A chiudere l’attacco interista sarà un fedelissimo di Simone Inzaghi, Joaquin Correa: per anni, specialmente nel periodo degli stadi a porte chiuse per l’emergenza Covid, la voce del tecnico che urlava «Tucuuuuuu» nel corso delle partite era stata l’accompagnamento immancabile delle partite della Lazio. Inzaghi lo definisce «la ciliegina sulla torta» e l’argentino risponde immediatamente con una doppietta al debutto da subentrante a Verona. Rimarrà uno dei rari acuti della sua esperienza interista.

A Paolo Condò il merito, nell’analisi prestagionale sulle pagine de La Repubblica, di intuire il possibile boom realizzativo di Lautaro Martinez agli ordini di Inzaghi: «Non si è sempre detto che ricorda da vicino Agüero? Nelle quattro stagioni in cui giocò con Dzeko al Manchester City, il Kun ha segnato 78 gol nella sola Premier League mentre lo svolazzante Dzeko ne ha aggiunti 48. Questa è l’ipotesi di lavoro che offriamo a Inzaghi […] che dopo cinque anni di Lazio a velocità sempre buona, a tratti ottima, ha fatto bene ad accettare la nuova sfida a prescindere dall’organico impoverito».

In campionato la squadra parte a marce altissime, cinque vittorie nelle prime sette giornate. A Firenze ribalta una situazione scomoda con i gol a inizio ripresa di Darmian e Dzeko, due uomini che erano sul punto di essere sostituiti prima della raffica arrivata in tre minuti. «Mi voleva sostituire? Ora gli chiedo cosa ha bevuto», dice Dzeko ridendo a fine partita, segno di un clima disteso che i media pongono immediatamente in contrasto con i metodi più rigidi di Conte. E se i post partita del predecessore erano sempre all’insegna del possibile spettacolo, quelli di Inzaghi suonano come una tortura per i giornalisti, costretti ad affrontare risposte sempre orientate sul campo, senza nessun guizzo. A Reggio Emilia, sotto 1-0, Inzaghi fa quattro cambi insieme e ribalta ancora la partita con Dzeko che segna al primo pallone toccato. «Ero arrabbiato, dovevo mandare un messaggio: non possiamo sempre prendere il primo schiaffo», spiega a fine partita.

Quello dei cambi è un filo conduttore che segna l’intera avventura di Inzaghi, l’allenatore che forse più di ogni altro in Serie A è stato giudicato per le sue mosse a partita in corso. Un giudizio che non è mai stato neutrale, che ha diviso gli analisti in colpevolisti e innocentisti. Inzaghi che cambia sempre gli ammoniti per evitare i guai fino ad arrivare al limite della paranoia – questione che diventerà tema di portata nazionale nel settembre del 2022, con il doppio cambio degli ammoniti Bastoni e Mkhitaryan sull’1-1 a Udine al 31’ del primo tempo, portando, tra gli altri, uno come Bobo Vieri a dire «Per una cosa così c’è da litigare con l’allenatore e spaccare tutto alla Pinetina» - ma anche Inzaghi che in alcuni momenti procede con i cambi fatti con il pilota automatico. E sarà questa la colpa principale che verrà imputata a Inzaghi nel corso della prima stagione, perché il derby che cambia all’improvviso il corso della lotta scudetto, dominato dall’Inter per un’ora abbondante, vede il Milan diventare padrone dopo le sostituzioni di Perisic, Lautaro e Calhanoglu per Dimarco, Sanchez e Vidal. Tre cambi anticlimatici, decisivi per l’epilogo della partita e della stagione.

Il primo KO in campionato, per Inzaghi, arriva proprio contro la Lazio, con il tecnico portato sotto la Nord per il saluto prepartita nonostante il turbolento addio estivo. Ed è un’altra partita che rappresenta un assist ai detrattori: contro i biancocelesti e lo spauracchio Milinkovic-Savic, Inzaghi reagisce inserendo Gagliardini per tamponare il centrocampista serbo. In due anni agli ordini di Inzaghi, l’ex Atalanta parte titolare dodici volte in campionato: tre di queste contro la Lazio.

Al quarto tentativo Inzaghi non schiererà Gagliardini contro Milinkovic-Savic.

I giudizi cambiano alla velocità della luce: il fatto che abbia due punti in più rispetto all’Inter di Conte allo stesso punto della stagione sembra non avere peso. Quando stecca una partita, parte immediatamente il refrain sulla pazza Inter. A Inzaghi viene accollata anche la reazione dei suoi giocatori dopo il gol di Felipe Anderson, arrivato con Dimarco a terra. Una reazione ai limiti dell'isteria.

Dybala pareggia al 90’, su rigore, il derby d’Italia della settimana successiva per un contatto Dumfries-Alex Sandro. Ecco, se c’è qualcosa in grado di dare titoli ai giornalisti da parte di Inzaghi, questo qualcosa è un episodio arbitrale. Viene espulso per proteste e a fine partita si sfoga: «Il rigore era l’unico modo in cui potevamo prendere gol, sono due punti buttati. L’arbitro è a due metri, vede, dice che non c’è niente, poi viene richiamato al VAR. Il mio segno di stizza non è stato bello da vedere, l’espulsione ci sta, ho sbagliato, ma ha sbagliato anche l’arbitro». Lì davanti veleggiano Napoli e Milan: Inzaghi pareggia il derby prima della sosta di metà novembre e poi, al rientro in campo, batte proprio gli azzurri. "Inter-Napoli ha mostrato quanto di meglio esista oggi in Italia: sfida vorticosa, emotiva, gonfia di quella confusione che sa essere bellezza. […] La sera del Meazza dice al campionato che l’Inter ha di nuovo tutto per difendere il titolo", scrive Maurizio Crosetti su La Repubblica. Tre settimane più tardi l’Inter prende a schiaffi la Roma a domicilio dopo mesi di frecciate di Mourinho, che per lamentarsi della sua rosa fa costanti confronti con la panchina dell’Inter: «Mi piacerebbe guardare la panchina come fa Inzaghi, che vede Lautaro, Correa, Vidal, Darmian…». Il gol del momentaneo 0-2 è calcio inzaghiano in purezza.

L’Inter vive un momento di semi-onnipotenza, infila una striscia positiva e si presenta al derby di ritorno, quello di Giroud, con quattro punti di vantaggio su Napoli e Milan e un asterisco rappresentato dalla partita non giocata col Bologna. Diventerà un tormentone e sfocerà in tragedia, con la papera di Radu che a metà aprile metterà definitivamente i chiodi sulla bara interista. La gestione delle settimane post derby, che numeri alla mano è solo la seconda sconfitta in campionato, sono quelle che costano il titolo all’Inter, forse anche più della stracittadina stessa: il pari a Napoli è un buono modo per reagire, ma seguono una sconfitta interna col Sassuolo e un triste 0-0 in casa del Genoa.

Quando l’Inter riaccende il motore, ha perso spinta. È uscita in Champions League maledicendo una follia di Sanchez, espulso sul più bello ad Anfield quando si era rimessa in corsa con una magia di Lautaro Martinez. A Inzaghi viene rimproverato il mancato ingresso di Dzeko, preservato per il campionato per ammissione stessa del tecnico: «Domenica con il Torino abbiamo una partita complicata», dice, e infatti finirà 1-1 con pareggio acciuffato da Sanchez all’ultimo istante utile. Sandro Sabatini definisce Inzaghi un allenatore «scolastico. Lautaro sa che la sua partita dura 60-65 minuti, Inzaghi fa sempre lo stesso compito, sempre la stessa cosa. Si deve europeizzare», qualunque cosa voglia dire. Sta di fatto che l’Inter vede lo scudetto tingersi di rossonero, l’unica parziale consolazione è il doppio successo in Supercoppa Italiana e in Coppa Italia, i due giardini prediletti di Inzaghino, battendo in entrambi i casi la Juventus in finale. «Siamo andati oltre gli obiettivi dello scorso luglio, ma è merito del calcio che abbiamo espresso durante l’anno. Abbiamo vinto due coppe che mancavano da anni, sono molto soddisfatto», dice dopo la gara dell’Olimpico, più o meno in contemporanea con lo sfogo di Ivan Perisic che si dice frustrato per il mancato accordo per il rinnovo di contratto, lasciando intendere un’altra estate di sacrifici.

Dal baratro a Istanbul

Inzaghi firma il rinnovo fino al 2024 nel corso di un’estate in cui l’arrivo a parametro zero di Dybala sembra a un passo per settimane, mentre Lukaku tesse la trama che lo porterà a rivestirsi di nerazzurro a un anno dall’addio in direzione Chelsea. Ma il belga esclude l’argentino e alla fine Ausilio e Marotta lasciano che Dybala si accasi alla Roma: anche in questo caso, c’è chi attribuisce a Inzaghi una grande responsabilità sulla mancata chiusura dell’affare. Avrebbe, dicono alcuni, chiesto di rinunciare a Dybala per tenere in nerazzurro il pupillo Correa. "Inzaghi si sente abbondantemente garantito dalla coppia Lukaku-Lautaro e ha paura che Dybala possa rappresentare un elemento di disturbo", si legge sul Corriere della Sera. La teoria viene ribadita e rilanciata da Gianluca Di Marzio: «A Inzaghi va benissimo l’attacco così com’è. Gli equilibri sono sacri, non basterebbe nemmeno l’uscita di Sanchez per riaprire la pratica». Nelle griglie prestagionali, in cui nessuno percepisce l’esplosione del Napoli futuro campione, non manca lo scetticismo nei confronti di Inzaghi: "Si può girare intorno all’argomento, ma la sensazione è che Conte non sarebbe arrivato secondo. Cosa avrà imparato Inzaghi dal suo primo anno? Ha soluzioni diverse, una tenuta migliore sui cambi, pensa di aver sbagliato qualcosa nella gestione? E che cosa si è preparato di diverso?", si chiede Mario Sconcerti, affondando poi il bisturi: "Sono problemi che la Roma non ha. La Roma ha uno dei tecnici più vincenti ed esperti al mondo. Mourinho fa confusione e polemiche, ma sbaglia poco".

Inizia una stagione che a tratti si rivelerà un calvario. Le prime voci di esonero si accumulano già all’inizio di settembre: sconfitta con la Lazio, sconfitta nel derby, sconfitta col Bayern Monaco in Champions. Poi l’Inter viene travolta con l’Udinese nel già citato match del doppio cambio Mkhitaryan-Bastoni, apriti cielo. Beppe Severgnini implora l’arrivo di un "allenatore sergente" in contrapposizione a Inzaghi, definito "allenatore fratello, una sorta di primus inter pares, che offre e chiede franchezza. Quando le cose girano, l’allenatore fratello è formidabile. Quando non girano, sono guai: fatica a esercitare l’autorità, che non è la sua cifra. Conta sull’amicizia coi giocatori ma per costoro, talvolta, è solo un rituale in attesa del prossimo contratto. L’Inter, oggi, ha bisogno di un allenatore sergente, appassionato ma deciso". Come se non bastasse, dopo la sosta i nerazzurri perdono pure contro la Roma con Dybala che trova il gol del momentaneo 1-1. Fanno quattro sconfitte in otto giornate di Serie A, le stesse maturate nel corso del campionato precedente.

Prima dell’incrocio con la Roma, Inzaghi, evidentemente a disagio, aveva provato ad alzare i toni: «Dove alleno io, aumentano i ricavi, si dimezzano le perdite e si conquistano i trofei». Sul sito della Gazzetta dello Sport, alla vigilia della partita con il Barcellona, per qualche minuto appare un articolo, rimosso in fretta e furia, il cui titolo non lascia spazio a dubbi: «Zhang-Inzaghi, è finita: domani il divorzio». Cristian Chivu, allenatore della Primavera, sarebbe il prescelto per guidare la squadra nella sfida con i blaugrana. Non accade: in panchina ci va Inzaghi e vince. I problemi fisici frenano Lukaku e Brozovic, nel corso della stagione anche Skriniar diventa un corpo estraneo. Nella stagione più difficile, costellata da un mare di sconfitte in campionato, Inzaghi inizia a plasmare qualcosa di diverso. Converte Darmian nel centrale di destra della sua difesa a tre, si convince definitivamente che Dimarco deve agire da esterno di centrocampo e non da terzo centrale, scommette pesantemente su Calhanoglu in cabina di regia, accantona Handanovic affidandosi a Onana. È un lavoro che Inzaghi ha sempre fatto, anche negli anni laziali, incasellando Milinkovic, rigenerando Luis Alberto da mezza punta prima e da mezz’ala poi, affrontando partite cruciali con Patric e Marusic nei tre dietro.

L’Inter supera un girone infernale in Champions, si libera anche del Porto agli ottavi affrontando i minuti di recupero della partita di ritorno in apnea, con i Dragoni che colpiscono due legni nel giro di venti secondi. Torna di moda il soprannome caro ai tifosi romanisti, che lo avevano ribattezzato "Culoncino" per la capacità di portare a casa le partite nei minuti finali. Ma nel giro di un mese, da metà marzo a metà aprile, tutto sembra colare a picco. L’Inter perde a La Spezia, con la Juventus e la Fiorentina a San Siro, pareggia a Salerno e cade di nuovo in casa contro il Monza. Il gol di Caldirola ha il sapore della condanna in Cassazione. A tenere in vita Inzaghi, almeno per la stagione in corso, è la vittoria nell’andata dei quarti di Champions contro il Benfica.

Prima di quella partita, i nomi sul traghettatore erano caldi, caldissimi: da Chivu a Zenga, con Cambiasso che invece aveva, secondo la Gazzetta dello Sport, declinato la proposta. Non sembra esserci dubbio, invece, sull’addio a fine anno: il favorito di Marotta è Roberto De Zerbi, già contattato dopo l’addio di Conte, seguito da Thiago Motta. Più difficile lavorare per il ritorno di Conte. La sconfitta con il Monza genera un summit notturno a San Siro, presenti anche Inzaghi e Zhang. Alessandro Alciato riferisce dell’esistenza di un traghettatore «allertato da giorni», Walter Sabatini, che del gruppo Suning è stato anche responsabile dell’area tecnica, analizza il momento interista lanciando l’idea di una sorta di autogestione in corso: «Un certo tipo di partita recluta energie dei calciatori spontaneamente, in altre partite invece non è così e succedono gli inciampi. Al Da Luz l'energia è spontanea e forte nella testa dei giocatori. I summit tra dirigenza e calciatori? Cloroformizzano, non servono più a niente. I dirigenti devono piombare nello spogliatoio una volta in sei mesi se vogliono che questo abbia effetto. Se diventa una consuetudine, non serve più a niente. Lukaku? Mi sembra veramente spento. Credo non abbia neanche le motivazioni sufficienti, nonostante le cose straordinarie che ha fatto per l'Inter. Vederlo giocare è sconcertante». Col Benfica l’Inter mette in ghiaccio la partita in un’ora e spicci, nel finale subisce un rientro che non fa male (3-3). Una settimana più tardi strappa il pass per la finale di Coppa Italia battendo la Juventus a San Siro dopo l’1-1 dell’andata, la partita della bufera per i cori contro Lukaku.

Per l’ennesima volta, Inzaghi riemerge dagli abissi. La sua Inter azzanna il derby di andata in semifinale di Champions League, dopo 11 minuti è avanti 2-0 e la sua squadra sembra a un passo dall’esondazione. Il ritorno è una formalità e già che c’è rimette anche in bacheca la Coppa Italia superando la Fiorentina all’Olimpico. La Supercoppa era stata già vinta a gennaio, 3-0 al Milan a Riyad. Come si esonera un allenatore che è arrivato in finale di Champions League? Non si esonera. A Istanbul, pur perdendo, l’Inter di Inzaghi fa partita alla pari con il Manchester City celestiale di Guardiola. Acerbi annulla Haaland, nel finale è Lukaku a macchiarsi di un paio di errori terribili sotto porta. In quella notte, che certifica la rottura tra i due per la scelta (sacrosanta) del tecnico di affidarsi a Dzeko in tandem con Lautaro, Inzaghi blinda il suo futuro interista. «So che è un momento difficile, abbiamo perso una finale che volevamo vincere, ma i ragazzi devono essere orgogliosi: non li cambierei con nessuno e tutto il mondo ha visto perché». Poi ricade in un cliché dei tempi che furono, di quando a Roma uno dei ritornelli preferiti era «Non ricordo parate di Strakosha», dicendo di ricordare «solo una parata di Onana su Foden». L’Inter e Inzaghi vanno avanti insieme e fissano, da subito, l’obiettivo per l’anno a venire: la seconda stella.

Lo scudetto

Il calcio italiano è storicamente ammantato da una tendenza a nascondersi. I favoriti sono sempre gli altri, gli obiettivi vengono tarati al ribasso (citofonare Allegri) per mettere le mani avanti. Nella stagione 2023/24 dell’Inter c’è invece una costante: la consapevolezza di avere come obiettivo principale lo scudetto. «Vincere la Champions sarebbe una soddisfazione straordinaria per tutti, ma da realista dico che è difficile. In Champions non sempre vince la squadra più forte, il campionato è una corsa a tappe dove di sicuro vince il più forte. Anche per questo, dovendo scegliere, dico scudetto», è la linea tracciata da Marotta a metà ottobre, in occasione del Festival dello Sport a Trento. Ma è già metà ottobre, mentre Inzaghi si era esposto a luglio, presentando la stagione: «Il DNA dell’Inter è la vittoria. Lo scudetto è il grande obiettivo. Abbiamo il dovere di cercare la seconda stella». È una presa di posizione lontanissima da alcune uscite di Inzaghi nei momenti della crisi: dopo la qualificazione ai quarti di Champions League a Oporto, il tecnico aveva detto che il suo gruppo aveva «fatto la storia dell’Inter», sminuendo il blasone del suo stesso club. Proprio le dichiarazioni dopo il Porto erano sembrate quelle di un uomo prossimo all’addio: «Io sono sereno e tranquillo. Quando sarà il momento, parlerò. Lo devo a me stesso e ai miei familiari. So da chi sono mosse le critiche, so chi devo ascoltare e chi no».

L’Inzaghi che si presenta ai blocchi di partenza della nuova stagione, invece, è un uomo nuovo, rigenerato. I primi due anni di Inter gli hanno insegnato come e quando dimenticare la rigidità. È l’anno della definitiva consacrazione di Lautaro come bocca da fuoco, agevolato dall’arrivo di Marcus Thuram, l’ennesimo capolavoro della carriera del tecnico piacentino: fin dagli abboccamenti nell’estate del 2021, era convinto potesse diventare una punta centrale. Lo ha immaginato in quel ruolo prima di tutti gli altri e lo ha reso la spalla perfetta per Martinez: un po’ prima punta, un po’ seconda punta, un po’ esterno. Il derby, arrivato qualche giorno dopo il rinnovo di Inzaghi fino al 2025, è la dichiarazione di guerra che l’Inter lancia al campionato. Inzaghi ci si avvicina con sarcasmo: «Fino a tre settimane fa eravamo scarsi, adesso ci dicono che dobbiamo vincere pure l’Europeo. Ma non ci tiriamo indietro». L’opinione pubblica spinge per fargli lanciare dal primo minuto Davide Frattesi, l’uomo di grido arrivato in estate insieme a Pavard e reduce da uno show in Nazionale, ma Inzaghi prende tempo, non ha fretta. Soprattutto, si fida di Henrikh Mkhitaryan: l’armeno diventa l’uomo copertina di una serata da sogno. Il popolo invoca Frattesi? Inzaghi non si schioda dalle sue certezze e vede il suo numero 22 segnare due gol e ispirarne un altro per il definitivo 5-1, risultato che prende a picconate la credibilità con i suoi stessi tifosi di Stefano Pioli, al quinto derby perso nel 2023.

Grandi risultati, grandi aspettative. "Sono passati cinque anni dall’ultima volta in cui una squadra italiana iniziò la Champions pensando di poterla vincere", scrive Paolo Condò, dando peso alla candidatura interista sulla base della finale dell’anno precedente e sul lavoro fatto da Inzaghi "che ha imparato a sfruttare il suo organico con chirurgica precisione, e il concetto di imparare non è scelto a caso visto che due anni fa furono proprio i cambi di un derby a venirgli imputati come causa dello scudetto perso a favore del Milan. Il contrappasso è evidente". Le scelte di Inzaghi nel corso del girone di Champions fanno intuire da subito quale sia la priorità, almeno nella prima metà della stagione: Thuram rifiata due volte su tre nelle gare di andata, Lautaro tre su tre in quelle di ritorno.

L’Inter si condanna al secondo posto ma in campionato non c’è nessuno in grado di tenere il suo passo. Il Napoli si sfalda in fretta, il Milan vive l’ennesimo derby perso come uno shock difficile da elaborare. Non resta che la Juventus, con Allegri che sbandiera obiettivi minimi nonostante non abbia tra i piedi gli impegni europei. È un’Inter che vince di prepotenza ma anche di pazienza, come quando si trova a incrociare in rapida successione Roma e Atalanta: Lukaku è spettatore non pagante come tutti i giocatori offensivi di Mourinho, ma per scardinare il fortino serve una zampata di Thuram su cross di Dimarco, lanciato meravigliosamente da Asllani, pronto a rendersi utile alla bisogna dopo una prima stagione vissuta ai margini (e macchiata da un errore clamoroso sotto porta a Barcellona).

Lo scontro diretto con la Juventus vive di due fiammate e per il resto viene anestetizzato da entrambe le squadre. Una settimana dopo l’Inter ne fa tre al Napoli e inizia a scucire il tricolore dal petto degli azzurri, già alle prese col primo cambio di guida tecnica dopo il flop Garcia. La vittoria di metà dicembre in casa della Lazio, l’ultimo tabù rimasto da sfatare dopo due sconfitte di fila nell’Olimpico biancoceleste, certifica che Inzaghi ha davvero reciso il cordone ombelicale: «Sono stato tanto alla Lazio e il mio auspicio è di restare ancor di più qui. Ma fra gli auspici e la realtà c’è il campo, e lì dovremo fare la differenza». A dare la cifra dell’obiettivo-ossessione interista è l’eliminazione repentina dalla Coppa Italia, agli ottavi di finale, contro il Bologna: mai, da allenatore, Inzaghi era uscito prima dei quarti. Non molla, invece, la Supercoppa Italiana, la quinta della sua carriera, vinta ancora una volta a Riyad ma nel nuovo formato con semifinale e finale: come era accaduto due anni prima, con l’acuto di Sanchez all’ultimo respiro, stavolta è Lautaro a piegare un Napoli che dopo l’espulsione di Simeone tira i remi in barca sperando invano di prolungare l’agonia fino ai rigori.

Inizia così il lento avvicinamento a Inter-Juventus, con i bianconeri che rimangono aggrappati al sogno scudetto più con i nervi che con la logica. Allegri cerca di travestirsi da Mourinho, dissemina il percorso di trappole verbali con l’obiettivo di rendere inquieta la vigilia nerazzurra. «Se c’è una lepre davanti vuol dire che dietro che c’è un cacciatore che insegue, è come guardie e ladri. i ladri scappano e le guardie rincorrono», è la prima stilettata. La seconda, subito dopo la semifinale degli Australian Open, è un affondo accennato e poi ritirato: «Come età posso dire che noi siamo più giovani come Sinner e loro come Djokovic, ma non so se dirlo perché altrimenti i permalosi la prendono male».

Ma l’Inzaghi permaloso non esiste più, è andato in soffitta da tempo. È rimasto l’Inzaghi che in panchina si sgola a tal punto da doversi avvicinare al fidato Massimiliano Farris a fine partita e chiedergli di sostituirlo davanti ai microfoni; è rimasto quello che non deroga dai suoi principi tattici tranne lievissime variazioni sul tema. Ma per il resto, lascia che Allegri parli, parli, parli. Parla al punto di finire per destabilizzare i suoi, invece che gli altri. Potr

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