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Marco Gaetani
Simone Inzaghi e l'ossessione del doppio giallo
21 set 2022
21 set 2022
I cambi dopo mezz'ora di Bastoni e Mkhitaryan sono l'ultimo esempio.
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Marco Gaetani
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LiveMedia/Alessio Marini / IPA
(foto) LiveMedia/Alessio Marini / IPA
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I cartellini come oggetto fisico arrivarono nel calcio grazie all’intuizione di uno degli arbitri più innovativi e controversi della storia, l’inglese Ken Aston (che gli italiani ricordano come direttore di gara de “la battaglia di Santiago”, Cile-Italia ai Mondiali 1962). Ormai ritirato, Aston è a bordo campo durante un mitologico Argentina-Inghilterra giocato nei Mondiali del 1966 quando l’arbitro Rudolf Kreitlein caccia il capitano dei sudamericani, che però si rifiuta di lasciare il campo. Si crea uno stallo che dura diversi minuti, e alla fine deve intervenire lo stesso Aston, nel tentativo di fare da paciere e far sì che il match possa proseguire. Il giorno dopo, sui giornali, i tabellini del successo inglese riportano anche l’ammonizione di entrambi i Charlton, Bobby e Jacks. Alf Ramsey, commissario tecnico dell’Inghilterra, chiede chiarimenti alla Fifa, perché questi provvedimenti non erano stati comunicati. Aston capisce allora che serve un modo per far sì che equivoci di questo tipo non si creino più. Sta guidando a Kensington High Street quando deve frenare di colpo. Il semaforo è appena diventato rosso. Il suo cervello fa due più due: giallo come avvisaglia, rosso per espellere. C’è chi, da qualche anno, vive questo segnale di avviso come un fatto personale: Simone Inzaghi. Se ne parla da sempre, ma i cambi di Bastoni e Mkhitaryan perché ammoniti dopo appena mezz’ora della partita persa contro l’Udinese ha fatto esplodere la questione. La Gazzetta dello Sport è andata ad analizzare i numeri: da quando è sulla panchina dell’Inter, in 45 partite Inzaghi solo tre volte non ha usato tutti e cinque i cambi, e delle 221 sostituzioni effettuate, 43 hanno riguardato calciatori ammoniti. Questi sono i freddi numeri, ma la gestione dei cambi di Inzaghi non deriva dalla matematica, quanto piuttosto dalla paura. La paura di rimanere in dieci. Ci sono due eventi nella sua carriera da allenatore che hanno creato il trauma e risalgono entrambi al 2019. Il 20 gennaio, in un San Paolo non ancora dedicato a Diego Armando Maradona, la Lazio ha appena accorciato le distanze con Immobile dopo essersi trovata sotto di due gol. Crede alla rimonta, ma qualche minuto dopo aver accorciato le distanze arriva l’espulsione, per doppio giallo, di Acerbi. Il difensore della Lazio aveva una striscia aperta 149 presenze consecutive senza mai incappare in squalifiche o infortuni e aveva messo nel mirino il primato di Javier Zanetti a quota 162, a cui però non arriverà per quel secondo giallo di troppo. Se neanche un maestro del filotto come Acerbi era al sicuro dalla doppia ammonizione, chi avrebbe mai potuto farcela? https://youtu.be/Oz3sQ0XdSGY?t=204 Si arriva così al secondo evento scatenante. Il 6 ottobre la Lazio è di scena al Dall’Ara. Il primo tempo è delirante, si va a riposo sul 2-2. Poco prima del quarto d’ora della ripresa, Inzaghi prepara due cambi: vuole sostituire Luiz Felipe e Lucas Leiva, entrambi ammoniti ma non fa in tempo. Il brasiliano rimedia il secondo giallo mentre Parolo è già pronto a subentrare e la Lazio rimane in 10. In quel preciso momento, Inzaghi giura che non capiterà mai più. La tendenza che già nei primi anni di Lazio aveva manifestato in maniera più evidente rispetto ai colleghi - con una rapida ricerca su Google è possibile trovare numerosi post partita di Inzaghi in cui dichiara apertamente di aver sostituito questo o quel giocatore a causa dell’ammonizione - diventa quasi un’ossessione. Nel momento in cui il calcio ha deciso di rivoluzionare in parte le proprie regole per attutire l’impatto del Covid, che aveva generato un calendario folle per la seconda parte dei tornei 2019-20, con l’introduzione dei cinque cambi tutti hanno pensato a una risorsa in più per le grandi squadre. Per i tifosi della Lazio, invece, la rivoluzione voleva dire soltanto una cosa: Inzaghi potrà togliere ancora più ammoniti. Nel corso degli anni Inzaghi è diventato un allenatore “prevedibile”. A prescindere dalle ammonizioni, in alcune situazioni è come se decidesse in anticipo quali mosse fare in una determinata partita, senza seguirne lo sviluppo. Come se esistesse una sveglia che a un certo punto della partita suona e gli ricorda di dover fare delle modifiche. Nel dicembre 2020, dopo aver riagguantato un doppio svantaggio in casa del Milan, toglie al 75’ Immobile e Milinkovic-Savic per inserire Andreas Pereira e Akpa-Akpro: la Lazio sparisce dal campo e il 3-2 arriva in pieno recupero grazie a Theo Hernandez. I tifosi dell’Inter hanno provato qualcosa di simile lo scorso anno, anche questa volta contro il Milan: fuori Perisic e Calhanoglu (ammonito, nonché bersaglio preferito delle sostituzioni di Inzaghi in epoca interista: 29, in otto occasioni aveva un giallo sul groppone) e derby ribaltato, insieme al campionato, dalla doppietta di Giroud. https://youtu.be/OoboBLX5RW0 Un’altra critica ricorrente riguarda i cambi ruolo per ruolo: chiedere a Inzaghi di rivoluzionare tatticamente la sua squadra a gara in corso è come chiedere a un elefante di prodursi in una capriola. Se è lecito per un allenatore avere fiducia della propria impronta tattica, il rischio per Inzaghi è che il suo 3-5-2 diventi prevedibile, come si è visto in alcune partite di questa stagione. Ciò che stupisce è che se da un lato Inzaghi sembra così poco suscettibile al cambiamento, dall’altro è invece disposto a rivoluzionare il proprio piano partita in presenza della minaccia di un’espulsione: sostituendo Mkhitaryan con Gagliardini, solo nominalmente è un cambio tra due mezzali. Al contrario, invece, ha rappresentato una notevole modifica a livello di intenzioni e di volontà di controllare il possesso del pallone. Così come scegliere Dimarco per Bastoni conduce inevitabilmente a una serie di aggiustamenti, perdendo fisicità per guadagnare qualcosa in fase offensiva, con il secondo che è naturalmente più portato alle sovrapposizioni interne ed esterne. C’è poi un fattore che esula dal discorso meramente tecnico-tattico. Dobbiamo provare a entrare nella psicologia dei giocatori che sanno di essere perennemente a rischio sostituzione in caso di cartellino giallo, e in questo Udinese-Inter è stata emblematica. Mkhitaryan e Bastoni hanno giocato gli ultimi due minuti della loro breve partita vedendo che a bordo campo erano già pronti Gagliardini e Dimarco e già sapevano che sarebbero stati sacrificati sull’altare della paura di Inzaghi. Bastoni, con l’ultimo pallone della sua partita, ha addirittura sfiorato uno splendido gol. Ed è la sua faccia al momento del cambio, più di quella di Mkhitaryan, che ci può raccontare la frustrazione che un giocatore prova uscendo in questo modo da una partita così delicata.

Una frustrazione che poi Bastoni ha sfogato cercando di devastare la panchina interista. La vicenda è stata commentata in maniera decisamente brusca da Christian Vieri: «Io non sarei uscito. C’è da litigare con l’allenatore e spaccare tutto alla Pinetina per una cosa così». Al netto dei due cartellini gialli, bisogna sottolineare che nella prima mezz’ora di partita Pereyra aveva portato in giro per il campo tutto il fianco sinistro dell’Inter, risultando imprendibile sia quando decideva di esplorare la zona verso il fondo, sia nei momenti in cui decideva di accentrarsi. Ma è chiaro che Inzaghi non avrebbe mai sostituito Bastoni e Mkhitaryan senza il peso del cartellino giallo, e la reazione del difensore può essere letta in due modi: rabbia per la sua prestazione, fin lì ampiamente sotto la sufficienza, ma anche semplice ira per il fatto di dover uscire così presto dalla partita. Inoltre, sembra che ci siano dei giocatori di cui Inzaghi si fida più di altri. Nelle ultime tre partite, Marcelo Brozovic, pur ammonito in fasi della partita teoricamente pericolose (39’ contro il Milan, 55’ contro il Torino, 57’ contro l’Udinese), è stato lasciato in campo. Ma la sua è una effettiva fiducia in Brozovic o semplicemente la sensazione di non avere un’alternativa all’altezza del titolare? Un discorso analogo può essere fatto per l’esperienza laziale di Acerbi, che in 104 presenze in A agli ordini di Inzaghi è stato ammonito 16 volte e mai sostituito, finendo espulso per doppia ammonizione in due occasioni. Anche in quel caso, oltre a una fiducia nei confronti delle capacità di gestione di Acerbi, subentrava però un’evidente carenza di potenziali sostituti. Se per esempio andiamo a prendere i dati relativi alla Serie A di Luiz Felipe del periodo che per comodità chiamerò «post Leiva-Bologna», troviamo quattro ammonizioni e quattro sostituzioni nelle gare in cui era partito titolare; per Patric il dato è di cinque cambi su otto gialli (si è salvato solo quando è stato ammonito dopo l’85’). Con il cambio di Udine, Bastoni ha raggiunto il cinque su cinque in caso di gialli, mentre de Vrij è invece fermo a due cambi su tre ammonizioni. Discretamente tartassato anche Barella, sopravvissuto nelle prime tre gare giocate con il giallo nella scorsa stagione e poi sistematicamente sostituito nelle cinque occasioni successive. Il caso di Calhanoglu è decisamente il più interessante: nella scorsa stagione, il turco è stato ammonito undici volte in campionato e in sole tre circostanze ha finito la partita. La prima contro la Salernitana: ammonito al 76’, con la squadra in controllo (0-3, sarebbe poi finita 0-5), dunque con il risultato già al sicuro. Le altre due sono arrivate con Roma e Cagliari, ma in entrambi i casi Calhanoglu è stato ammonito all’87’. Nelle altre otto occasioni, il nesso causa-effetto è impressionante: fuori subito dopo il giallo con la Fiorentina all’83’; 14 minuti di permanenza in campo contro l’Atalanta e 21 contro il Napoli (era stato ammonito sempre verso la fine del primo tempo); quindi 4’ concessi contro il Torino e di nuovo contro l’Atalanta, 13’ nel già citato derby di ritorno con il Milan, un minuto con la Juventus e con il Bologna. Il cartellino giallo diventa il colpo di pistola dello starter: appena viene estratto, Inzaghi avverte il quarto uomo. Per questa smania di provare a controllare tutte le variabili di un match, Inzaghi finisce per condizionare i suoi giocatori: centrocampisti e difensori sanno di essere sotto una lente invisibile e che qualsiasi intervento sopra le righe punito con un giallo potrebbe diventare motivo di sostituzione. È impossibile pensare che questo possa agire indirettamente sull’atteggiamento di un calciatore di Inzaghi? Che possa giocare, paradossalmente, “come se fosse già ammonito”? Quindi magari non forzare una chiusura a rischio lasciando un’occasione agli avversari. Dopotutto il cartellino giallo è anche un’arma a disposizione di un calciatore, da spendere nel momento del bisogno della squadra. Viverlo come una lettera scarlatta che porterà al cambio non è forse lo spirito giusto. Alla ripresa del campionato, l’Inter troverà la Roma, una squadra che negli ultimi 40 metri punta moltissimo sull’abilità dei suoi giocatori di creare superiorità numerica saltando l’uomo: Dybala sullo stretto, sia in prima persona che andando ad associarsi con Abraham e Pellegrini, e Zaniolo in campo largo. Uno stress test che potrebbe rivelarsi potenzialmente devastante per la tenuta di una squadra che ha già perso tre partite nelle prime sette giornate di campionato.

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