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Simone Inzaghi è figlio unico
07 apr 2017
Con la Lazio in finale di Coppa Italia, celebriamo finalmente il talento del secondo dei fratelli Inzaghi.
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Simone Inzaghi è finalmente figlio unico. Ci ha messo quarantuno anni esatti, molti dei quali vissuti con la scomoda compagnia di un suffisso diminutivo che rendeva ogni cosa bella un po' meno bella, ogni gol un po' meno gol, ogni vittoria un po' meno vittoria. Avevano deciso di chiamarlo in modo cacofonico: Inzaghino, serviva ai titoli, ma suonava male e suonava pure come una condanna per via genetica, una parziale espropriazione dell'identità.

Qualunque cosa avrebbe fatto, l'avrebbe fatta non perché determinato, o bravo, o pure fortunato, ma da fratello di Pippo Inzaghi, privilegiato rispetto a lui anche nel soprannome: lui, il fratello maggiore, era Super Pippo, incarnazione dell'idea sorridente di un supereroe in calzamaglia e con le arachidi nel cappello. Un personaggio goffo a cui bastavano delle noccioline americane per acquistare poteri, mentre a Pippo, il calciatore, bastava mettere una maglia e le scarpe bullonate per diventare un bomber nonostante l'andatura caracollante, l'equilibrio instabile, la tecnica grezza.

Pippo Inzaghi aveva il fascino di un attaccante che, per tipo di corsa, controllo e tocco del pallone e coordinazione non avrebbe potuto segnare eppure lo faceva, si era preso tutto lo spazio sul palcoscenico, lasciando a chi portava lo stesso cognome, ma arrivava dopo, l'ultimo angolo in fondo, quello in cui ti vedono solo se sei davvero bravo.

Altrimenti resti Inzaghino.

Fratello d’arte

Bruno Pizzul, per non far torto a nessuno, quando giocavano insieme in Nazionale Roberto e Dino Baggio (che non erano nemmeno parenti) in telecronaca li chiamava solo per nome fino ad arrivare agli scambi “Dino-Roberto-Dino”, declamati con il suo tono oggetto di migliaia di imitazioni. Invece con Simone Inzaghi nessuno ha avuto la stessa accortezza: era Inzaghino anche se non giocava mai con il fratello. Al massimo Inzaghi junior, ma sempre con qualcosa appresso al nome che indicava a chi passava di lì per caso che ce n'era un altro, anche. Più grande e più famoso.

Ora, dietro il sorriso di Simone c'è chi è pronto a scommettere il pc con cui sta scrivendo che un po' di silenzioso rincrescimento c’è sempre stato. Perché nasci, e Pippo ha già quasi tre anni. Giochi a pallone, e Pippo ha iniziato da un po'. Ti stacchi dal Piacenza, e Pippo lo ha fatto cinque anni prima. Vinci uno Scudetto, e Pippo c'era riuscito con due stagioni d’anticipo. Segni, e Pippo ne ha fatti più di tre volte tanto. Esordisci in Nazionale, e c'è Pippo già in campo ad aspettare.

Inzaghino, mamma che brutto nome. Non che il-fratello-di-Pippo-Inzaghi fosse meglio, ma proprio non è stato facile essere Simone, non avere nessuno davanti. In verità nemmeno nel suo anno migliore, da calciatore, quello dello Scudetto della Lazio, perché comunque c'erano Boksic, Salas e pure Mancini, e bisognava fare i conti con loro per ottenere un posto in una squadra bellissima.

Però la sua è una bella carriera, non una carrierina. Facciamo al posto suo: ha segnato quattro gol in una sola partita di Champions League (contro il Marsiglia) e, sì, come lui hanno fatto altri undici, ma alcuni si chiamano Van Basten, Puskas, Messi, Shevchenko, Ibrahimovic, Cristiano Ronaldo (no, in questo elenco non c'è Pippo).

È il migliore marcatore della Lazio nelle competizioni europee (ma siccome parteggiamo per l'indipendenza di Simone non accosteremo questo dato al fatto che il fratello nelle competizioni Uefa ha segnato meno solo di Cristiano Ronaldo, Messi e Raul: li consideriamo dati non raffrontabili). Nell'anno dello scudetto della Lazio è riuscito a essere il miglior marcatore stagionale anche segnando sette gol in campionato e spargendone altri in Coppa e Champions (diciannove, in tutto).

E segnò il primo gol della Lazio il 14 maggio del 200o, contro la Reggina, prima che si scatenasse il diluvio a Perugia, che affondasse la Juve e che si materializzasse l'impresa memorabile di uno scudetto in differita. Un rigore freddo, pesante perché i suoi dovevano segnare, non lo avevano ancora fatto, era passata più di mezz'ora e sembravano nervosi.

Non c'erano molte possibilità di sorpassare la Juventus, ma quelle che c'erano passavano dalla partita con la Reggina, messa in discesa da un destro basso calciato su rigore, senza fronzoli, perché Simone era capace anche di esagerazioni: l'anno dopo, sempre contro la Reggina, si beccò gli insulti di Mancini (diventato vice di Eriksson) dalla panchina per averne sbagliato uno, di rigore. Voleva beffare Taibi con uno scavetto, fece una brutta figura. Disse l'allenatore: «Non si deve mancare di rispetto agli avversari, non ha fatto una bella figura. Comunque, Simone ha già chiesto scusa».

Mancini, invece, non parlò, ma era già bastata la lettura del labiale: «Guarda 'sto deficiente».

Il gioco degli opposti

La memoria non riporta polemiche legate al suo nome, quanto al nome del fratello e al suo vivere perennemente sul filo del fuorigioco. Che, peraltro, vuol dire provare a essere sempre davanti a tutti, cosa che vista in modo figurato fa sembrare la condanna di Simone un po' meno condanna e un po' più vocazione di Pippo.

Non esiste un metodo scientifico, nonostante gli affanni di chiunque abbia un fratello nel citare studi promo domo sua, per stabilire se il più grande è anche il più vivace e il secondo più misurato o viceversa. È però in questo caso verificato sul campo come la maggiore visibilità di Pippo sia stata agevolata dal suo essere più estroverso, testimoniato dalle esultanze indemoniate. Pippo dava quell'idea di uomo sfrenato che Simone, più posato, non dava.

Così anche quando Inzaghino (senti come suona male, però) si è mosso d'anticipo, è sembrato partisse dopo. Lui ha deciso di allenare nel 2010, partendo dagli Allievi Regionali della Lazio. Pippo ha cominciato nel 2012, dagli Allievi Nazionali del Milan. Entrambi diventano allenatori della Primavera, eppure uno dei due arriva per primo in serie A: ovviamente il più grande dei due, che si è trovato sulla panchina del Milan a giugno del 2014.

Quando Simone-il-fratello-di-Pippo-Inzaghi si mette a guidare i grandi è il 9 aprile del 2016, la Lazio ha appena perso male il derby con la Roma, Pioli è stato esonerato, i tifosi a Formello si sono scontrati con la Polizia mentre contestavano e la squadra spedita a Norcia per punizione. Simone racconta che vuole giocarsi questa opportunità per restare anche l'anno dopo, non solo gli ultimi spiccioli di campionato, dice che da quando ha cominciato ad allenare ha avuto come obiettivo quello di guidare la Lazio perché è la squadra di cui è tifoso e altre cose interessanti.

Ma poi gli chiedono: «Tuo fratello Pippo?» «È stato il primo a farmi l'in bocca al lupo, con tutta la mia famiglia». Per ricordargli che lui ha un fratello, più famoso e più grande. Che è Inzaghino, anche se è arrivata ad allenare in serie A.

L’esordio di Inzaghi sulla panchina della Lazio. Subito una svolta nei risultati della squadra biancoceleste.

Non è la promozione in prima squadra che genera ansia, è l'esordio: Simone Inzaghi vince a Palermo e, qualche giorno dopo, intervistano papà Giancarlo. Che racconta: «Il suo sogno era la panchina, voleva allenare la Lazio. Ha perseverato, ci è arrivato». Poi si ricorda che di cognome fa Inzaghi pure lui e allora ecco che racconta cosa si sono detti prima della partita lui e Simone: ««Ci siamo sentiti, ma non abbiamo parlato della partita. È sempre stato così con Filippo e con Simone. Riflettono, pensano, li lascio tranquilli». Poi che tipo di rapporto ha con il calcio Simone: «È un maniaco di calcio, se gli chiedete chi è il centravanti della Civitanevese, lui lo sa. Vive. È come Filippo. Vede tutto». E poi cosa ha pensato quando al figlio hanno affidato la panchina della Lazio: «Allenare la Lazio a casa sua era un sogno. Simone ama Roma. Ha avuto proposte interessanti negli anni passati, ma era titubante all’idea di andare via. Filippo gli diceva di andare. Simone no. Non ci pensava».

A Simone si domanda di Pippo. A domanda su Simone si risponde con Filippo. Ci fosse rivalità tra i due si sarebbe riscritta da tempo la storia di Caino e Abele, ambientata però in un campo di calcio o in una casa in provincia di Piacenza, ma non ci sono i presupposti caratteriali per la nuova ambientazione del primo fratricidio trascritto.

Però provoca fastidio anche al racconto, diverso da quando centrale è il rapporto calcistico tra padre e figlio: lì c'è la devozione di uno verso l'altro, le epoche diverse, il giudizio posticipato. Essere “figlio di” nel calcio non è comodo, ma la storia degli Inzaghi dice che “fratello di” è peggio, perché è una vita in continuo raffronto (come non bastasse quello a casa, a scuola, con gli amici) a cui si sopravvive se si hanno caratteri diversi, e fortunatamente è così.

Figlio unico

Finito il suo primo campionato di serie A, per quanto breve, Simone sperava in una riconferma e, invece, si è visto sorpassare nelle voci da Sampaoli, nei contatti da Prandelli e nella firma da Bielsa. Sì, doveva esserci El Loco a guidare la Lazio e sembrava una gigantesca mossa per rilanciare tutto, persino la gestione di Lotito. Inzaghi è, in fondo, sempre, Inzaghino, no? Magari non torna alla Primavera, ma lo mandano in quella via di mezzo tra la massima espressione giovanile della Lazio e la prima squadra che si chiama Salernitana.

Lotito gli aveva proposto un anno di B per poi vedere, ma Bielsa è uno che prende spazio e tempo, un investimento grosso e quindi Inzaghi sapeva che stava per andare alla Salernitana per poi prendere altre strade. Era pronto anche a questo: uno che ha vissuto con il suffisso diminutivo praticamente per una vita non si demotiverà per un declassamento. A Salerno, a fine giugno, preparano già la presentazione di Inzaghi. Dice il d.s. granata Angelo Fabiani che «Inzaghi è un bravo tecnico, giovane, preparato, con idee chiare. L’incontro alla presenza della proprietà è servito a definire aspetti professionali e metodologie di lavoro. La Salernitana è pronta a partire».

In realtà no, perché nel frattempo Lotito e Bielsa litigano, il contratto non si fa più, l'annuncio va a farsi benedire e i propositi di grandezza pure. Così cambia tutto e Inzaghi, agli ultimi giorni di vacanza a Milano Marittima prima di cominciare ad allenare la Salernitana, torna alla Lazio, perché mancano tre giorni al via della preparazione e non c'è allenatore. È l'8 luglio, la storia ha fatto un giro su se stessa e, francamente, Inzaghino non ci sta facendo nemmeno una bella figura: sembra l'uomo che immediatamente risponde al richiamo della sua ex, pur sapendo di aver poche speranze che l'amore sbocci di nuovo. I giudizi, sì, possono essere un problema: dei tifosi, dell'ambiente.

Perché un allenatore scaricato ritorna così facilmente da chi lo aveva mollato? A questa domanda si risponde con un'altra domanda: ma voi siete mai stati anche un giorno solo il fratello di Pippo Inzaghi?

Al di là dei giudizi, questa è un'opportunità. E non è una ex un po' stronza, è la squadra sempre sognata. Lo dice lui stesso: «Finito il campionato pensavo di rimanere. Poi la società mi ha comunicato che avrebbe cambiato ma ero stato informato della possibilità di andare a Salerno. Poi quando era tutto fatto a Roma erano iniziati i problemi, quindi mi è stato chiesto di aspettare. Non aspettavo un club qualsiasi, ma la Lazio, la squadra in cui sono cresciuto e di cui sono tifoso».

In poche ore la Lazio passa dal Loco Bielsa al quieto Inzaghi, da un allenatore che chiedeva una squadra che qualsiasi fosse stata sarebbe stata sua (La Lazio di Bielsa, come l’Olympique Marsiglia di Bielsa, l’Athletic Bilbao di Bielsa ecc.) da allenare a uno che prende la squadra che gli danno.

Sull’1-2 di Immobile si vede Inzaghi in basso seguire l’azione svincolandosi dall’area tecnica, e poi unirsi ai giocatori nei festeggiamenti.

Poi, ci sono i risultati: la Lazio è quarta, silenziosa come il suo allenatore. Al di sopra dell'Atalanta, che mediaticamente fa più rumore, abbastanza oltre Milan e Inter (con Pioli in panchina), che per qualcuno è sempre in corsa per la Champions League (mentre la Lazio quasi mai). Sotto, solamente, a Juve, Roma e Napoli che si erano iscritte già a un campionato a parte quando la Lazio ancora stava litigando con Bielsa. Soprattutto, Simone Inzaghi, che ha cominciato ad allenare in serie A dopo un derby perso contro la Roma da Pioli, ha vinto la sfida che contava: tutto in una città che quando giocano una squadra contro l'altra si trasforma in un concentrato di rivalità come poche altre possono raccontare.

Era un derby lungo centottanta minuti, chi perdeva era fuori. Ha vinto la Lazio, che ora è in finale di Coppa Italia e può giocarsi un titolo. Con Simone in panchina, senza una parola fuori posto, una dichiarazione da copertina, un grande titolo per osannarlo, una polemica da appiccicargli.

Che ha un fratello allenatore sì, ma in LegaPro. Si chiama Pippo e la sua squadra, il Venezia, è capolista ed è quasi promossa in serie B. Ci sono voluti quarantuno anni, ma la storia si è capovolta. Ora si parla di lui. Di Simone Inzaghi. Suona pure bene, così.

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