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Giorgia Mecca
Serena e Venus Williams, nel nome del padre
12 mag 2021
12 mag 2021
Estratto dell'omonimo libro di Giorgia Mecca, edito da 66thand2nd.
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Giorgia Mecca
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Gli hanno riso in faccia per anni, non senza ragioni. Parlava di tennis senza conoscere nemmeno le regole del punteggio, voleva creare due campionesse dal niente, o ancora peggio, dal ghetto di Los Angeles, Compton, periferia della periferia degli Stati Uniti. «Ma cosa andiamo a fare in quel postaccio?» gli chiede sua moglie Oracene mentre prepara le valigie ed è ormai rassegnata a dire addio a Long Beach e al loro vecchio appartamento con vista sul mare. Si vergogna del posto in cui si sta trasferendo, le sembra di essere caduta in basso.

 

La donna ha paura per sé stessa, ma prima ancora per tutte le sue figlie, Venus, Serena e le tre sorelle maggiori, Yetunde, Isha e Lyndrea, nate da un precedente matrimonio. «Andrà tutto bene, vedrai» risponde l’uomo e non è sicuro di riuscire a mantenere la promessa. «Se le nostre bambine saranno capaci di cavarsela anche qui, sopravvivranno ovunque, sopravvivranno a tutto» e mentre lo dice ha in testa Muhammad Ali, che per sentirsi meno disgraziato, meno povero, meno nero ha passato la sua vita dentro un ring a tirare e ricevere pugni, ritirandosi per sempre nel dicembre del 1981, lo stesso anno in cui è nata Serena Williams.

 

Per Richard Williams la vita è un affronto continuo, un continuo corpo a corpo; ai suoi occhi nessun gesto è innocente, attacca per non essere costretto a difendersi. Non è paranoia la sua, è l’America che lo ha messo al mondo per prenderlo a schiaffi. Anche l’indifferenza colpisce in faccia, le ferite che lascia sono invisibili e profonde.

 

Saranno le figlie a liberarlo dal male. La loro esistenza è stata progettata per essere una correzione della sua. Hanno bisogno di tempo, però. Prima di tutto devono nascere. «Con mio eterno amore e gratitudine, Venus Ebony Starr Williams è venuta al mondo il 17 giugno 1980, e Serena Jameka Williams il 26 settembre 1981. Adesso che avevo le bambine e avevo il tennis, dovevo soltanto fare in modo che si trovassero».

 

Nel 1981 agli occhi di chi lo incontra Richard è soltanto un pazzo, un arrogante, uno che parla di cose che non conosce. Ha visto una sola partita di tennis in vita sua ed è convinto che tutto ciò che succede dentro al campo sia riconducibile a tre fattori: impegno, coraggio e fede. Lo chiama il triangolo della famiglia Williams. La verità è che non sa niente di niente: nei country club ci sono migliaia di ragazzine, frustrate di talento, che si sono impegnate, hanno avuto fede e coraggio e non sono arrivate da nessuna parte. È lo sport del diavolo quello che si è scelto, delle racchette spaccate a metà, della testa che ti abbandona all’improvviso, del faccia a faccia perenne, lo sport della cattiveria, dove vinci soltanto se sei capace di odiare chi hai di fronte. Per non parlare della tecnica: quanti muscoli devono attivarsi, dalla testa ai piedi, per colpire un servizio mediocre? Siamo sicuri che basti la fede? E cosa dire di ciò che succede al battito cardiaco nei secondi precedenti a un match point? Come ha raccontato Martina Navrátilová pochi istanti dopo aver vinto per la prima volta il torneo di Wimbledon: «Il mio cuore non ha mai battuto così forte. Avevo paura che anche il pubblico potesse sentirlo. È stata un’esperienza extracorporea».

 

In definitiva, Richard Williams non sa niente nemmeno della fortuna di cui avrà bisogno per fare in modo che le sue figlie arrivino intere ai vent’anni, con le ossa tutte al loro posto, una testa che comanda e un corpo che risponde, e soprattutto che non si ribellino mai e poi mai alla sua volontà.

 

Quanto devi essere ottuso per guardare due bambine di due anni che inciampano ogni volta che provano a camminare da sole e vedere due future campionesse? A Compton, poi. Anche quello fa parte dei piani: «Ciò che mi ha portato a Compton è stata la consapevolezza che i campioni arrivano tutti dal ghetto. Ho studiato Muhammad Ali e Malcolm X, ho visto da dove arrivano. Come parte del mio piano ho deciso che il ghetto sarebbe stato il posto in cui le mie ragazze sarebbero cresciute, per imparare la mentalità del guerriero e l’abitudine al combattimento. E quanto sarebbe stato più facile giocare di fronte a migliaia di bianchi quando hai imparato a giocare davanti a squadroni di gang armate?». Ogni volta che sua moglie è esausta lui le risponde che non deve preoccuparsi, che Dio è dalla loro parte e niente può ferirli.

 

I primi tempi volano via, e Richard Williams a quarant’anni è ancora un uomo fiero e furioso, la rabbia di quando era giovane è rimasta intatta. Antica, sacrosanta, è capace di fare miracoli. È grazie a lei che si regge in piedi mentre il tennis lo consuma.

 

Prende lezioni da un tizio soprannominato Old Whiskey per motivi che si intuiscono facilmente, compra racchette di seconda o terza mano e un centinaio di palline sgonfie che ormai non rimbalzano più. Anche questo fa parte dei programmi: «Vi serviranno per imparare a colpire più forte» dice alle bambine. La verità è che non può permettersi niente di meglio ma non vuole che le sue figlie lo sappiano. Agli ordini, papà.

 

Scrive un documento di 78 pagine in cui annota tutto ciò che ha capito sul tennis. Il primo comandamento recita: «Fallire nel pianificare significa pianificare di fallire». Il secondo: «Sii positivo, sempre». Il terzo: «La fiducia è essenziale per il successo».

 

Per tutto il resto si affida al patrimonio genetico di Oracene e alla divina provvidenza. È convinto che possa bastare e infatti basterà.

 

Venus e Serena crescono sane e obbedienti, felici di fare felice il loro papà. La prima a entrare in campo è Venus, che a quattro anni è povera e non se ne rende conto. Tenere in mano una racchetta la fa sentire una privilegiata. Se si guardasse intorno, vedrebbe che il cemento che calpesta ogni giorno per andarsi ad allenare è pieno di siringhe, pezzi di vetro, lattine di birra, preservativi, tracce di sangue, ciò che rimane al termine di regolamenti di conti tra disperati.

 

Il sogno americano se esiste davvero si realizza altrove, Compton è un inferno di morti ammazzati: 1397 persone uccise in vent’anni di criminalità organizzata e di guerre tra gang.

 

Richard lo sapeva, prima di portare le sue figlie nei campi comunali aveva dovuto chiedere il permesso ai boss di Compton Ave- nue: per favore, quando le mie figlie giocano potete spostarvi da qualche altra parte? Non vuole che le bambine assistano da vicino a pistole puntate o a scene di spaccio. Ci sono giorni in cui le gang decidono di accontentarlo, non sempre. Dicembre 1985, mancano pochi giorni a Natale. Sei ragazzi che non hanno più di vent’anni sono seduti di fronte ai campi comunali. «Per favore, andate via di qui». I ragazzi non se ne vanno.

 

Richard alza la voce, i ragazzi lo accerchiano, cominciano a prenderlo a pugni, sono più giovani e più forti, lui è da solo. Lo picchiano fino a farlo svenire. Quando si sveglia fa fatica a respirare, si rende conto che ha la maglia sporca di sangue, gli hanno spaccato dieci denti, da quel momento in poi sarà costretto a indossare una dentiera. Non bisogna mai fidarsi di nessuno, mai. Gli altri, tutti gli altri, sono una minaccia. Il rispetto, in posti come quello, si guadagna diventando cattivi. Quando pochi giorni dopo ritorna sui campi, i ragazzi lo stanno ancora aspettando, ma quel giorno Richard è stanco dei segni che gli sono rimasti sul corpo, è stanco di dover chiedere il permesso, delle occhiatacce di sua moglie, di questo perpetuo tutti contro tutti che non ha senso e da cui non c’è scampo. Non prova nemmeno a parlare, si scaglia contro uno dei ragazzi finché non lo pregano di smettere: «Per favore, basta così». Da quel momento, il campo sarà proprietà della famiglia Williams.

 

Ma anche quando la droga non arriva più, rimane la miseria. Venus non se ne accorge, ha occhi soltanto per chi l’ha messa al mondo. La bambina guarda suo papà dal basso verso l’alto e se potesse esprimere un solo desiderio, uno soltanto, quel desiderio sarebbe rivolto al bene di Richard. Vuole renderlo orgoglioso, non le interessa nient’altro. Rinuncia alle favole, alla prima persona singolare, ragiona da figlia, mai da bambina: «Sia fatta la tua volontà». Si fida ciecamente di lui, non può farle del male, pensa, mentre ricaccia sé stessa in gola, i suoi desideri che diventano le sue delusioni.

 

L’amore che prova per suo padre è una condanna che sconterà per tutta la vita, una resa incondizionata alla volontà di un altro. È un ricatto travestito da famiglia, alzarsi ogni mattina per realizzare un sogno che in fondo non riesci a capire, un sogno che non è il tuo.

 

Colpisci più forte, baby.
Agli ordini papà.
Sia fatta la tua volontà, la tua, la tua, soltanto la tua.

 

Serena intanto scalpita, si sente abbandonata, tradita da sua sorella. La più piccola delle Williams è cresciuta all’ombra di Venus e adesso lei la lascia da sola tutto il giorno per andare al campo. «Posso venire anche io domani?» chiede ogni sera a suo papà. «È troppo presto, sei ancora piccola». E invece no, invece no, invece no, piagnucola lei. Di notte Serena continua a infilarsi nel letto di Venus, è il posto del mondo che preferisce visto che non ne ha ancora trovato uno tutto per sé. Ma per la prima volta, oltre all’amore prova un sentimento che somiglia all’invidia. «Perché lei sì e io no?». Non sono capricci, è un pensiero che la ossessionerà per anni. «Dunque è questo il mio destino, rimanere per sempre un passo dietro di lei». Ogni sera la stessa domanda e le stesse lacrime. «Posso venire anche io?». Dopo un anno, finalmente, Richard decide che è pronta anche Serena. «Da oggi ti alleni con noi». La bambina urla di gioia mentre consegna il suo futuro nelle mani di un altro. È suo padre, non ha scelta. Tutto procede secondo i piani: tennis, tennis e solo tennis.

 

Le giornate diventano tutte uguali, senza anniversari, compleanni, ricorrenze. Gennaio, luglio, novembre, il tempo scorre monotono e veloce, le stagioni scandiscono soltanto la durata del giorno; ogni ora in più di sole è un’ora in più di tennis.

 

Mettendo da parte il talento, i manuali, il DNA, il successo nello sport è forse riconducibile a un’unica virtù: la coerenza. Eseguire gli stessi movimenti, per sempre. Lyndrea Williams, primogenita di Oracene e sorellastra delle due tenniste, lo ha spiegato senza metafore: «È come addestrare un animale». Venus e Serena sono bestie obbedienti. Per loro non esiste nient’altro: soltanto centinaia di palline da colpire, tutto il giorno, tutti i giorni e un unico comandamento: «Colpisci più forte, baby». A volte il tennis fa venire il voltastomaco, il mal di testa. Cosa c’è di divertente nel ripetere lo stesso gesto all’infinito? Al cinquantesimo lancio di palla nel vuoto la tentazione di gettare la spugna è molto forte. «Basta, papà, ti prego, per oggi basta così». È una preghiera che interrompono subito, ogni volta che alzano gli occhi e vedono il loro papà dall’altra parte della rete. Richard passa le sue giornate in piedi, con le ginocchia piegate per lanciare le palline alla giusta altezza delle figlie. Ha affidato la sua vita e la sua vendetta a loro. Davanti a quella scena, le due bambine abbassano le armi, si vergognano di aver odiato il tennis anche solo per un momento. La tua, la tua, soltanto la tua volontà. Il voltastomaco passerà, si abitueranno a tutto. Anche alla noia e al dolore. Lo devono al loro papà e alla sua schiena a pezzi, ogni giorno un po’ più curva, ogni giorno un po’ più vecchia.

 

 

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