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Andrea Beltrama

La notte dei 19 assist di Markquis Nowell

Siamo stati al Madison Square Garden per assistere a una delle più grandi prestazioni nella…

A New York procede tutto come se nulla fosse. In una metropoli dove nemmeno una sparatoria in metropolitana riesce a scalfire il ritmo del quotidiano, figuriamoci se ci si accorge di un Regional del Torneo NCAA. In qualsiasi altra città americana un evento del genere scatenerebbe un turbinio di felpe, cappellini e canotte, intasando tutti i pub del centro. Da queste parti, però, tutto passa sotto traccia, mentre flussi di passeggeri continuano a entrare e uscire a frotte da Penn Station, la stazione ferroviaria appena sotto al Madison Square Garden. Solo un occhio estremamente attento può accorgersi di lievi anomalie nel sistema, come una rara canotta di Magic Johnson sullo sfondo verdone di Michigan State, invece che sul ben più iconico gialloviola dei Lakers. O la sparuta presenza di macchie violacee tra i passanti — per una volta non quelle della prestigiosa New York University, ma della distante Kansas State University. Cromaticamente identica, e anch’essa con sede a Manhattan. Peccato si tratti di un omonima città universitaria situata 2.000 chilometri più a ovest di New York, e che con la Grande Mela non ha nulla a che vedere. 

 

Bisogna quindi varcare la soglia del Madison Square Garden per respirare a pieni polmoni l’aria del Torneo NCAA. Quella che traspira irresistibile dall’enorme logo March Madness nel cerchio di centrocampo, sul parquet nuovo di zecca per l’occasione. E, soprattutto, dal cartello “only NCAA cups allowed beyond this point”: l’icona suprema del metaverso collegiale, che nel segno del dilettantismo decoubertiano proibisce a chiunque l’esposizione di marchi che possano generare scontento tra gli sponsor del torneo. E proprio a quella vista, finalmente, ci sentiamo a casa. A nostro agio come parigini in esilio che tornano a vedere la Tour Eiffel dopo anni di lontananza. 

 

 

From Manhattan. In Manhattan

Per gli appassionati di college basket questo weekend newyorkese doveva incarnare molti temi, tutti molto attesi. La consacrazione di Purdue e dei 223 centimetri del suo gigante Zach Edey, probabile giocatore dell’anno di tutto il college basket. La prima prova del fuoco per la Duke senza Coach K in panchina. O l’ennesima passerella per la Kentucky di John Calipari, che ogni anno sfoggia vagonate di talento NBA più o meno pronto all’uso, salvo poi incespicare sulla strada per il titolo che manca dal 2012. E se proprio dovevano esserci incidenti di percorso, ci si aspettava un blitz di Penny Hardaway e della sua Memphis University, che tanto bene aveva fatto in stagione e che avrebbe ridato un po’ di meritata popolarità a uno dei più potenti fulcri di nostalgia del basket contemporaneo. 

 

Invece nessuno di questi personaggi è arrivato a New York. Uno a uno, tutti caduti vittima delle tagliole di un torneo che, tanto per cambiare, ha stracciato i pronostici nel giro di poche ore. Ma la NCAA toglie e la NCAA dà. E così, per ogni protagonista atteso che manca all’appello, ce n’è uno nuovo pronto a prendersi il palcoscenico. Spingendoci ad abbracciare alcune delle migliaia di storie incredibili che popolano lo sterminato universo del college basket. Su tutte, quella di Markquis Nowell, 175 centimetri, cresciuto ad Harlem. Ma che, come tantissimi altri concittadini, al Madison Square Garden non ci ha mai giocato. Poco considerato per la minuscola taglia fisica, ha fatto tre anni ad Arkansas Little-Rock, profonda periferia dell’impero, prima di accasarsi nella Manhattan del Kansas. Dove, dopo una buona stagione, ha assaggiato la gloria nazionale proprio pochi giorni fa, grazie alla sontuosa partita con cui ha affossato senza appello la Kentucky di Calipari. Le reazioni isteriche da parte di gente che non ne aveva mai sentito parlare non si sono fatte attendere. Su tutte i paragoni con Kemba Walker e Steph Curry, eroi di culto della March Madness del nuovo millennio. Mentre il rapper Cam’ron, pure lui di Harlem, si è presentato a bordocampo con una canotta dei Wildcats, per onorare sia Nowell che i due compagni Ismail Massoud e Nae’Qwan Tomlin, anche loro cresciuti nella zona. Che lui non sapesse nemmeno chi fossero è solo un pedante dettaglio. 

 

Più sopra, dove vanno a sedersi i comuni mortali, il pubblico inizia a riempire l’arena. Dietro di noi prende posto la curva di Kansas State: centinaia di persone compresse nello stesso settore, assortite come solo i tifosi di college basketball sanno essere. Ci sono vecchi, vecchi col cappellino, vecchie seppellite dal fondotinta, papà con bambine in spalla, madri dalla lingua tagliente. E poi sciami di ventenni, possibili studenti, saldamente in preda agli effetti della Miller Lite servita al Garden — una tisana amarognola che fa andare in bagno così in fretta che un noto professore dell’Università di Chicago, in un momento di genio, la definì rental property, “proprietà a noleggio”. Vestiti di viola, i tifosi scandiscono K-S-U sin dalla palla a due con grande determinazione, soverchiando quelli di Michigan State. Che pure sono in larga maggioranza numerica, ma, da esponenti della grande nobiltà del college basketball – otto Final Four negli ultimi 28 anni è roba da élite –non hanno la stessa fame di gloria. E così, l’autoproclamatasi Mecca della Pallacanestro Americana — teatro di pagine storiche di questo sport, va detto — si ritrova invasa da folle del tutto estranee ai suoi canoni, chiassose e sfrontate, arrivate nella Grande Mela dalle sconfinate pianure del Midwest e ansiose di tornare a casa al più presto. Possibilmente con un biglietto per la Final Four in mano.

 

Come una slot machine

Si inizia, finalmente. Memori delle prodezze surreali inflitte alla banda di Calipari, Michigan State decide di premunirsi. Tutti, ma non Nowell. Su ogni gioco a due, il folletto si ritrova sempre due uomini addosso. Aiuti profondissimi, con il marcatore del bloccante che prova a imbottigliarlo lontano da canestro, togliendogli la visuale. Quello che è un piano di aggressione, però, si rivela un suicidio. Con ampie praterie che si aprono verso l’area, Nowell ha gioco facile nell’imbeccare i compagni. Una pennellata, due, tre, quattro. In rapida sequenza. E improvvisamente Michigan State si trova aggredita ai fianchi. Ci si aspettavano triple, guizzi, canestri impossibili; invece Nowell riesce a dominare la partita nel modo più subdolo: con la testa. Mandando il pallone esattamente dove vuole e dove fa più male alla difesa avversaria. Arrivano due comodi canestri piazzati da tre per i compagni, seguiti da una fucilata al laser che passa non si capisce dove, prima di finire dritta nelle mani del tagliante. La marea viola è in visibilio. Gli occhi del pubblico del MSG, intanto, iniziano a guardare il tabellone elettronico, dove il conto degli assist sale vorticosamente come le colonne di una slot machine. All’intervallo siamo già a 10. E potrebbero essere anche di più, se un paio di contatti fossero stati sanzionati più generosamente dagli arbitri. 

 

Gli Spartans, però, sono un osso duro. Anche quando la difesa, loro proverbiale punto di forza, perde colpi. Merito di coach Tom Izzo: nonni casertani, ma infanzia passata tra le miniere di Iron Mountain, nella penisola superiore del Michigan. Che geograficamente fa già parte del Canada, e come il Canada porta in dote inverni infiniti e severissimi. La stessa tenacia necessaria a scacciare quel freddo, Izzo l’ha trasformata nel suo credo inossidabile. Esemplificato al meglio dalla fisicità esasperata delle sue squadre, oltre che dalla loro tenuta mentale. Proprio come si è visto nei giorni successivi alla drammatica sparatoria nel campus del 13 febbraio, in cui Izzo ha svolto un ruolo fondamentale nel ricompattare non solo i suoi giocatori, ma pure una popolazione studentesca traumatizzata dagli eventi. E così, pur trafitti a ripetizione dai passaggi filtranti di Nowell, gli Spartans non accennano ad uscire dalla partita. Avviluppano l’avversario con il loro attacco metodico e paziente, con passaggi sul perimetro per creare spazio ai propri guizzanti penetratori – A.J. Hoggard e Tyson Walker su tutti – e lunghi tiratori come Joey Hauser pronti a punire quando la difesa si chiude in area. Alla pausa, nonostante i fuochi d’artificio, Kansas State ha solo 5 punti di vantaggio. La partita è tutta da giocare, in una ripresa che si annuncia esplosiva.    

 

Botta e risposta

C’è una tendenza nelle partite di college basket di cui si parla poco, ma che in molti, intuitivamente, avranno presente. A differenza di quanto accade nella NBA, nei secondi tempi si tende a segnare di più. Non certo perché le difese perdano intensità, ma perché gli attacchi tendono a sciogliersi. Meno esecuzione meccanica, più decisioni istintive. Oltre a un metro arbitrale che diventa più protettivo. E allora, la domanda che tutti si pongono è inevitabilmente quella: dopo un primo tempo così spietatamente lucido, cosa partorirà il genio del folletto nel prevedibile caos della ripresa? Cose molteplici e belle, direbbe Platone a Socrate, se solo fosse seduto al suo fianco al Madison Square Garden. E l’antifona va proprio in quella direzione. 

 

Su un possesso gestito in maniera confusionaria, Kansas State si trova con pochi secondi sul cronometro di tiro. Anzi, si trova sostanzialmente senza nemmeno più il possesso, visto che la palla schizza di mano in mano. Nessuno, però, ne acquisisce il controllo, mentre il cronometro dei 30 secondi continua a ticchettare. 5 secondi, poi 4. Di slancio Nowell si butta sulla palla vagante, ben dietro la linea dei tre punti. Ha così tanta inerzia che non può fisicamente fermarsi. E allora decide di non provarci nemmeno: mentre sta per cadere si butta sulla sfera, sfruttando la spinta per lanciarsi in un bizzarro terzo tempo a otto metri dal canestro. Due passi lunghi, mentre la forza centrifuga del suo cambio di direzione lo spinge di lato, verso la linea laterale opposta. Senza quasi più equilibrio riesce a scagliare comunque il tiro. 

 

Tabellata e canestro. 

 

Il pubblico impazzisce. Lui, con uno strano ghigno in volto, torna in difesa zoppicando, ancora dolorante per una storta alla caviglia rimediata qualche istante prima. Il momento è altamente scenico come solo le cose che succedono al Garden sanno essere.

 

Quella prodezza — quella sbusonata, direbbe Izzo, se i suoi nonni fossero stati di Bologna — è il segnale che scatena l’inferno. Un gigantesco “liberi tutti” che apparecchia la tavola per un finale di partita memorabile, che sarebbe entrato dritto nella storia del college basket. Le squadra continuano a darsi battaglia alla pari. Gli Spartans non cambiano strategia difensiva: con tutte le attenzioni della difesa addosso, Nowell segna relativamente poco, ma sforna passaggi perfetti per i compagni. Dall’altra parte, Michigan State lo attacca senza pietà sul perimetro, aprendo corridoi di penetrazione che tagliano a fette la difesa di Kansas State. Ne viene fuori un botta e risposta appassionante. Canestro su canestro, assist su assist. Con una tripla da lontano di Ismael Massoud, ovviamente innescata da un passaggio di Nowell, i Wildcats provano lo strappo: 83-78 a tre minuti dalla sirena. Ma Michigan State, tanto per cambiare, non si scompone. Mezzaruota, penetrazione, e — se proprio arriva un aiuto — scarico per l’uomo libero sul perimetro. Il basket di Izzo al suo meglio. Puntuale come le tasse, arriva l’entrata che vale il pareggio, a pochi secondi dal termine. Sulla rimessa, Nowell ha tempo per una scorribanda a tutto campo. La versione della Lidl dell’epica da March Madness vorrebbe un canestro acrobatico sulla sirena, seguito da invasione di campo. Ma quello che gli dei hanno in serbo è immensamente più raffinato. Il sottomano del folletto si ferma sul ferro. Supplementare, come è giusto che sia. Cinque minuti in più di questa partita sono un regalo di cui ogni appassionato deve essere grato. A parte forse i tifosi delle due squadre, già ampiamente provati.

 

Dentro la leggenda

Molto spesso, nel basket, i supplementari spezzano l’equilibrio. Una squadra morde, l’altra crolla. La partita si spacca e l’adrenalina scivola via in fretta, lasciandosi dietro uno strano senso di vuoto. E la serata del Madison Square Garden sembra proprio indirizzata a finire così. Con Nowell sulle gambe e la circolazione offensiva in panne, Kansas State sembra sul punto di mollare. Con l’ennesima tripla ben costruita, gli Spartans vanno a +3. Sono più freschi, più profondi, e allenati da un condottiero che ha diretto con successo decine di partite di questo genere. Il copione, in questi casi, prevede che la squadra sotto nel punteggio perda la calma. Ad esempio, che Nowell forzi i ritmi, prendendo un paio di triple da lontano. Di quelle che, del resto, è perfettamente in grado di segnare. Ma Nowell non è un copione. È una mente pensante. Che decide di continuare nell’opera certosina intessuta fino a questo momento. Leggere, prima. Eseguire, poi. Con la difesa degli Spartans che continua a buttargli corpi addosso, ricomincia la pioggia di assist. Due fucilate dal palleggio permettono agli Wildcats di riportarsi in parità, i passaggi smarcanti numero 16 e 17. Poi, finalmente Kansas State recupera un pallone. Manca un minuto alla fine. Il folletto ha la palla. E l’adrenalina, invece che defluire, ricomincia improvvisamente a scorrere. 

 

E allora, eccoci qui. Ad aspettare il momento tanto atteso. Quell’istante infinitesimale che segna la differenza tra una partita bellissima e una leggendaria. Che finirà nella storia e su tutti i filmati della NCAA da qui ai prossimi decenni. Nowell ha la palla e trotterella oltre la metà campo, facendo leva sulla gamba sana. Ci aspetta un’azione ristagnante, tipica di questi momenti: molti palleggi, pochi passaggi, e la speranza di un fallo strappato verso la fine del possesso. C’è troppa stanchezza, fisica e mentale, per provare qualcosa di diverso. E così, il folletto coglie il glitch del sistema; l’attimo di rilassamento in cui la difesa abbassa la guardia. Laddove una mente normale vede l’opportunità di rifiatare, una geniale vede spalancarsi, per un millesimo di secondo, le porte della leggenda. Nowell si gira verso la panchina. Uno scambio di battute veloci con il coach. O forse un paio di parole al peperoncino per Mateen Cleaves, ex stella di Michigan State seduta a bordocampo.

 

Poi, al momento di chiamare lo schema, il folletto spara il pallone nella stratosfera. Colti di sorpresa, tutti si chiedono cosa diavolo stia succedendo. Ma lui, invece, ha già calcolato e risolto tutta l’equazione. La palla scavalca la difesa di Michigan State, visibilmente schiacciata verso il palleggiatore. Poi, mentre plana verso il canestro, viene intercettata da Keyontae Johnson, fidato compagno di squadra. Un balzo felino, una presa sicura, e poi, nell’incredulità generale, una tonante schiacciata rovesciata. 

 

Il MSG schizza in piedi. Un giornalista al nostro fianco si acquatta sul computer, mani nei capelli. Ci guardiamo per un istante. Annuiamo a vicenda. Rassicurando l’un l’altro che sì, tutto questo è successo davvero.

 

È l’assist numero 18, valido per pareggiare il record di tutti i tempi nel torneo NCAA, poi battuto sul possesso successivo. Soprattutto, è il momento che era nell’aria da minuti, ma ancora non si era materializzato. Quello in cui un colpo di genio diventa instant classic, guadagnandosi l’eternità sportiva. E il ricordo si riduce a un’immagine che trascende tutto, risultato compreso. Proprio come, dodici anni fa, era successo con Jimmer Fredette, in un altro momento indelebile. Anche quello, avvenuto nella terra di nessuno che separa la linea di metà campo da quella del tiro da tre. 

 

Con un’ultima, tenace difesa Kansas State sradica il pallone dalle mani degli avversari. In contropiede, Nowell suggella la vittoria con il canestro più facile della serata. Nello spicchio del MSG diventato una curva ultras, quelli dell’altra Manhattan vanno in visibilio. Non è la prima volta che Kansas State arriva alle Elite Eight, ma è di gran lunga la partita più memorabile della storia sportiva dell’ateneo, nonché una delle più significative mai viste nel torneo NCAA. Il giorno dopo le pagine sportive dei giornali di New York sono tutte per il piccolo grande uomo. “King of New York” titola il NY Post; “King of Manhattan” gli fa il NY Daily News. È l’apice di una gloria che durerà poco. Il tempo di farsi battere in volata dalla sconosciuta Florida Atlantic University, che strapperà meritatamente un improbabile biglietto per la Final Four di Houston, interrompendo così la cavalcata di Markquis Nowell verso il titolo NCAA. Quella del suo mito, invece, è appena cominciata. E nemmeno New York ha potuto mostrarsi indifferente.

 

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Andrea Beltrama nasce a Sondrio, Valtellina County, e vive a Philadelphia. Vorrebbe scrivere un reportage di basket su ogni college di Division I NCAA, e pure un reportage di pesca su ogni porto di Lake Michigan. Mentre pianifica, inganna l’attesa seguendo il basket NBA e l'hockey svizzero.