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(di)
Francesco Paolo Giordano
Senza fare miracoli
16 dic 2014
16 dic 2014
Ronnie Koeman: un ritratto.
(di)
Francesco Paolo Giordano
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Il ciuffo biondo sempre in ordine, il completo con la camicia che gli stringe il collo. Ronald Koeman può sembrare uno di quegli uomini d'affari amanti dell'azione, che intervengono al momento giusto nelle aziende in crisi: c’è un problema, lo risolvo io. Almeno così devono aver pensato a Southampton quando, dopo l’addio del tecnico Pochettino, hanno chiamato l’olandese per confermare o eventualmente migliorare l’ottavo posto in campionato raggiunto nella stagione 2013/14. Oggi i Saints sono quinti in Premier League a due punti dalla zona Champions, ma quella con il Burnley dello scorso sabato è la quarta sconfitta consecutiva (sulle cinque subite in totale) per la squadra che sembrava la sorpresa del campionato. E la sfida inglese potrebbe rivelarsi decisiva sopratutto per la consacrazione di Koeman come allenatore: lui che, fino a qualche anno fa, sembrava incamminarsi verso un declino rapido. Oggi il tecnico 51enne gode di una buona considerazione, è reduce da un triennio positivo alla guida del Feyenoord e in Olanda viene indicato come il possibile sostituto di Guus Hiddink sulla panchina della Nazionale arancione. D'altra parte ha già avuto la benedizione di Johan Cruijff, che quando ancora Koeman giocava ha detto di lui: “Incarna la scienza del gioco e il sentire dell'essenza del calcio.

”.

 

Finora, ai successi in patria (tre campionati con Ajax e Psv, due Supercoppe con Ajax e Az, una Coppa d’Olanda ancora con i lancieri), non è corrisposta uguale fortuna nelle due precedenti esperienze all’estero. Ha vinto una Supercoppa portoghese con il Benfica nel 2005 e una Coppa del Re con il Valencia nel 2008, ma entrambe le esperienze sono durate appena un anno, poi subito indietro in Olanda, quasi fosse una coperta di Linus. E pensare che Ronald, da calciatore, aveva sì trionfato in patria, ma anche e soprattutto nel Barcellona. E poi l’Europeo con la Nazionale Oranje vinto nel 1988. Era un difensore, Cruijff con i blaugrana seppe adattarlo come regista arretrato: perché ne aveva carpito l’intelligenza tattica e il senso della posizione. E pure un certo vizietto del gol: quel suo destro potente gli è valso 207 reti in carriera, Nazionale compresa. Nessun difensore ha segnato più di lui nella storia. Se lo ricordano bene i tifosi della Sampdoria: fu lui, con una punizione violenta, a decidere ai supplementari la finale di Champions del 1992.

 

https://www.youtube.com/watch?v=byjcAjwAjOg



 

Il suo esordio da allenatore è stato nel gennaio 2000, alla guida del Vitesse. Un sesto posto al primo colpo, il battesimo in Europa. Il buon lavoro ad Arnhem gli valse, l’anno seguente, la chiamata dal grande Ajax. Qui, con giovani talenti come Ibrahimovic, Van der Vaart e Chivu, vinse nel 2001/2002 campionato e coppa nazionale: un “double” che aveva realizzato anche da calciatore nel 1987/88 e nel 1988/89 con la maglia del Psv, primo olandese della storia a riuscirci sia da giocatore sia da allenatore. Due anni dopo, arrivò il secondo titolo nazionale.

 

Dopo l’anonima parentesi con il Benfica, tornò alla ribalta vincendo ancora una volta il campionato olandese, stavolta con il Psv. Un traguardo che gli valse, nel 2007, una chiamata dalla Spagna.

 


Valencia è stata la tappa più prestigiosa eppure la più controversa della carriera di Koeman: qui ha raccolto solo il 32,25% di vittorie (11 su 34 gare), mentre la sua media da allenatore è di 56,23%. È passato in cinque giorni dal trionfo in Coppa del Re (battuto 3-1 il Getafe in finale) all’esonero (all’indomani della pesante sconfitta per 5-1 contro l’Athletic Bilbao). Quell’anno il Valencia arrivò decimo nella Liga (peggior risultato negli ultimi sedici anni nella storia del club), fuori al primo turno nel girone di Champions (con Chelsea, Schalke e Rosenborg), senza nemmeno la consolazione della retrocessione in Europa League. Va detto che l’olandese arrivò a novembre, a stagione in corso, per rimpiazzare Quique Sanchez Flores, ma non legò mai con lo spogliatoio.

 

A dicembre, quando capì che stava perdendo il controllo della squadra, al termine di una serie di risultati terribili (una vittoria in otto partite, addirittura sette senza andare a segno), decise di ricorrere alle maniere forti: a tre senatori come Canizares, Albelda e Angulo fu comunicato che non rientravano più nei piani della società e vennero messi fuori rosa. Una mossa coraggiosa, appoggiata dal presidente Soler ma non dagli spalti del Mestalla. La spiegazione che Koeman diede ai tre fu la necessità di dare spazio ai giovani: nessuno, però, la vedeva così, tanto più che il sostituto di Canizares, Juanlu Mora, aveva 34 anni. L’olandese, in realtà, tagliò le teste più influenti dello spogliatoio, che ormai remava contro di lui.

 

Albelda, che di quella squadra era il capitano,

la decisione come una mancanza di rispetto: “Nessuno in società ha il potere di umiliarmi in questo modo. Non ho ricevuto nessuna spiegazione dal presidente o da qualcun altro. Ho la coscienza pulita”. Albelda decise di ricorrere in tribunale per risolvere il suo contratto che era stato da poco rinnovato fino al 2011. Nonostante le offerte di Chelsea e Tottenham a gennaio, il centrocampista spagnolo volle andare al muro contro muro, attendendo l’esito del tribunale, che però gli fu sfavorevole. Il ricorso venne ritirato dopo l’esonero di Koeman, visto che il calciatore fu reintegrato in rosa assieme ai due compagni epurati. Nel gennaio di quest’anno Albelda è tornato a

di Koeman: “Non sarebbe male se venisse ad allenare il Barcellona. Così ci sarebbe più equilibrio nella Liga”.
Invece dopo l’addio al Valencia, il tecnico

anche con Joaquin: “È stato comprato per 30 milioni di euro, ma in campo ne vale 30”.

arrivò poco dopo: “L'unica preoccupazione di Koeman non era certo il calcio, ma quella di pranzare e cenare con 5 o 7 bottiglie di vino a tavola. Non aveva le palle per dire le cose in faccia”.

 

A Valencia, poi, è nota la “maledizione di Koeman”, modellata su quella di Bela Guttmann con il Benfica (“Da qui a cento anni nessuna squadra portoghese sarà due volte campione d’Europa e il Benfica senza di me non vincerà mai una Coppa dei Campioni”). Anni dopo la vittoria della Coppa del Re, l’olandese, intervistato sul suo passato al Mestalla da una radio spagnola,

: “Quel trofeo sarà l’unico che il Valencia vincerà nei prossimi cinque anni”. Previsione che si sta rivelando azzeccata.

 

https://www.youtube.com/watch?v=eEsWRIDYdho


“È stato un errore andare a Valencia”,

in seguito Koeman. Da calciatore era stato soprannominato “Rambo”, per quel suo modo di mettere ko gli avversari. Da allenatore, cerca il dialogo con i suoi giocatori: è un motivatore rassicurante, di solito non ha bisogno di urlare per imporsi, ma in Spagna non andò così. Arrivò in una situazione già compromessa di suo, e lui contribuì ad affossarla ancora di più al punto che quella benedetta Coppa del Re non venne mai festeggiata. Era già nell’aria la partenza di Koeman, il gruppo lo guardava di traverso, lo spettro della retrocessione rendeva ridicola qualsiasi celebrazione. La società doveva solo decidere chi sarebbe stato il nuovo allenatore tra Pellegrino, Oscar Fernandez e Voro (fu quest’ultimo a prendere il posto dell’olandese). Si pensò di comunicare a Koeman l’esonero la sera stessa della vittoria in Coppa del Re: si opposero giocatori storici come Marchena e Baraja, per i quali un gesto di questo tipo sarebbe stato umiliante. Tornati a Valencia, la squadra si recò in Municipio. Fuori, un gruppo di tifosi chiedeva che si esibisse il trofeo, invece nessuno si fece vedere all’esterno.
Era il momento più complicato della carriera da allenatore di Koeman: l’anno successivo, restò in carica con l’Az per soli cinque mesi, riuscendo a perdere sette volte in sedici incontri di campionato. Rimase fermo per un anno e mezzo: Rambo era stato messo ko.

 

Un duro colpo per un uomo che di calcio si era nutrito da sempre. Suo padre, Martin, faceva il calciatore: difensore anche lui, una sola presenza in Nazionale, lunghi trascorsi al Groningen – la prima squadra in cui Ronald ha militato da giocatore - prima in campo, poi come allenatore. Un club che ha rappresentato una sorta di seconda casa anche per suo fratello maggiore Erwin, che invece faceva il centrocampista, oggi suo assistente al Southampton. Da giocatore, anche Mechelen e Psv. Carriera onesta ma non brillante, anche se pure lui si infilò nella Nazionale olandese che vinse l’Europeo nel 1988. E pensare che in famiglia era considerato il cavallo su cui puntare: era veloce, tecnico, mentre a Ronald si imputava una certa rigidità e scarsa coordinazione. Anche Erwin ha provato a sfondare da allenatore: Rkc Waalwijk, Feyenoord, Utrecht, persino la Nazionale ungherese. A differenza di suo fratello, Ronald aveva un sentimento tutto suo, che si sarebbe trascinato dietro anche nella sua carriera da allenatore: l’odio per la sconfitta. Quando Erwin perdeva, si stringeva nelle spalle e si diceva: “Andrà meglio la prossima volta”. Ronald, invece, provava quasi dolore fisico. Non riusciva a staccarsi la rabbia di dosso e poteva tenere il broncio per giorni interi.

 


Quando il declino sembrava irreversibile, arrivò la chiamata del Feyenoord, reduce da un magro decimo posto. La squadra aveva pochissima qualità ed era derisa dai suoi stessi tifosi: l’attaccante Jhonny van Beukering era stato soprannominato Jhonny Burger King per la sua stazza imponente. L’impatto di Koeman fu debordante: secondo posto il primo anno, terzo il seguente (ma a pari punti con il Psv secondo), ancora secondo nella scorsa stagione. Sempre sul podio, sempre in grado di potersela giocare per il titolo nazionale. Solitamente, un allenatore non accende la fantasia dei tifosi: è un ruolo che si ritaglia meglio a fantasisti, bomber, chi in campo ci sa fare con i piedi. Solo figure eccezionali hanno il privilegio di essere salutate come degli eroi. A Koeman è successo, nell’ultima gara casalinga con il Feyenoord (vinta 5-1 contro il Cambuur). Cori, striscioni, applausi, lacrime, giro del campo per il tecnico. Scene di giubilo e di commozione che non sono proprio la specialità dalle parti di Rotterdam: la prima volta, in 106 anni di storia del club, che a un allenatore venisse riservato un tributo di questo tipo. Nemmeno per Bert van Marwijk, che con il Feyenoord vinse una Coppa Uefa nel 2002, ci si era scomodati così: per lui, bastò un giro di campo, arrivederci e grazie.

 

Quello in cui Koeman è riuscito davvero è stato risvegliare l’orgoglio della gente, la voglia di stare vicino alla squadra e di sognare. Lo scetticismo al suo arrivo, dovuto ai suoi ultimi magri risultati ma anche al suo passato nell’Ajax, si era subito trasformato in entusiasmo. Il suo metodo con lo spogliatoio era basato su disciplina ma anche sostegno, critica pubblica ai giocatori che era anche un modo per spronarli. Bastone e carota, ma sempre con il gruppo e l’ambiente dalla sua parte. Koeman

i primi tempi a Rotterdam: “Quando sono arrivato, ho detto: non siete più dei talenti, dovete cambiare mentalità. Dovete imparare ad essere assassini. E poi la disciplina. Prima del mio arrivo, ai giocatori veniva concesso di pranzare a casa. E a volte avevano anche la mattina libera. Beh, non con me. Si viene al campo di allenamento presto e si mangia tutti insieme. Avevo tanti giocatori giovani in squadra, se avessi concesso loro la mattina libera cos’avrebbero fatto? Dormire? Mangiare pizza? Giocare ai videogames? Avevo bisogno di responsabilizzarli. L’età non è un fattore chiave per me. Gioca il migliore, anche se ha 18 anni. E se gioca, deve dare il meglio, non esigo scusanti. Non mi interessano alibi del tipo “ma io sono ancora giovane”. All’inizio può essere un problema fare un discorso di questo tipo. Ma quando crescono, allora capiscono. In passato, mi sono scontrato con gente come Sneijder, Van der Vaart e Ibrahimovic, ma poi hanno ammesso di aver imparato tanto con me”.

 

I giocatori del Feyenoord se ne sono subito accorti. Jordie Clasie, nel pomeriggio dell’addio di Koeman, era in lacrime. Non riusciva a trattenere la commozione: “

”. Con lui, Koeman ha svezzato giocatori come Bruno Martins Indi, Stefan de Vrij, Terece Kongolo, Tonny Trindade de Vilhena e Jean Paul Boezio.

 

Lui

la sua esperienza in biancorosso: “Cosa mi ha regalato l’esperienza con il Feyenoord? La felicità. Da allenatore, l’avevo persa dopo l’esonero dall’Az. È stato molto difficile essere congedati così, senza cerimonie. Ho vinto due titoli con l’Ajax, un campionato all’ultima giornata con il Psv. Ma Feyenoord ha rappresentato qualcosa di più per me. Anche se non abbiamo vinto niente, con mezzi limitati abbiamo riportato l’orgoglio di tornare al De Kuip. Questo, probabilmente, vale più di qualsiasi trofeo. Le sensazioni che ho provato qui vanno in profondità più di qualsiasi altra cosa”. Brividi che ha provato il giorno del suo addio, con una frase che rimarrà stampata nella memoria di chi, quel pomeriggio, era allo stadio: “Una volta al Feyenoord, si rimane per sempre del Feyenoord”.

 

https://www.youtube.com/watch?v=fMYBUaj-zWI



 

Koeman, forse, non avrà le stimmate da santone. Quelle, le lascia volentieri ai mostri sacri del calcio olandese con cui ha avuto la fortuna di lavorare: Johan Cruijff, che lo allenò per un breve periodo nell’Ajax e poi nel Barcellona, Guus Hiddink, di cui fu vice nella Nazionale olandese a cavallo tra il 1997 e il 1998, e Louis Van Gaal, che seguì come assistente ancora in Catalogna nel 1998. Koeman, finora, non ha raggiunto la celebrità, né l’autorevolezza del trio di cui sopra, gli “eletti” del voetbal made in Nederland. Ma, dalla sua, ha una dote innata: la tenacia, la voglia di tenere duro fino alla fine. Un’ostinazione che a volte può rivelarsi controproducente, come a Valencia. Ma Koeman è fatto così, da sempre. Quando era calciatore, si fece male in un Atletico Madrid-Barcellona. I medici lo soccorsero, lui si rialzò e tornò negli spogliatoi sulle sue gambe. Il giorno dopo la diagnosi dell’infortunio svelò che si era rotto il tallone d’Achille. Ma lui non si era lasciato andare a piagnistei: era voluto uscire da solo, dal campo, nonostante il dolore.

 


Forse sono cambiati i tempi, ma oggi quella testardaggine funziona ancora. A Southampton ha continuato il lavoro che aveva portato avanti con il Feyenoord: creare un gruppo coeso, umile ma ambizioso, risvegliare la passione del pubblico. Quando la gente del St. Mary poche settimane fa cantava “We’re gonna win the league”, eravamo di fronte all’attestato di stima più significativo nei confronti di Koeman. Che è riuscito a riportare fiducia in una piazza che si era depressa dopo l’addio in estate dei giocatori più rappresentativi: Rickie Lambert, Adam Lallana, Dejan Lovren, Calum Chambers, Luke Shaw (in tutto nelle casse del club sono arrivati quasi 120 milioni di euro).

 

È stato l’olandese a sostituire i partenti, costruendo una squadra egualmente competitiva. Dal campionato olandese ha portato il miglior assistman e il secondo cannoniere del torneo: Dusan Tadic dal Twente (16 reti e 14 assist nella stagione precedente) e Graziano Pellè, che aveva avuto con sé nel Feyenoord (50 gol in 57 partite in Olanda). In attacco arriva anche Shane Long dall’Hull City, tra i pali Fraser Forster dal Celtic. L’acquisto più pagato è Sadio Mané, 15 milioni di euro: a giudicare dal nome, sembra un frammento di storia staccatosi dai vari Didì e Vavà, invece è la nuova stella emergente del calcio senegalese arrivato dal Salisburgo. E poi i prestiti di Bertrand e Alderweireld. Spesa totale per gli acquisti: 73 milioni di euro circa. Quindi è riuscito a parlare direttamente al cuore dei tifosi. Il segreto di Koeman è non avere segreti: fare le cose con semplicità, offrire uno spettacolo decente e fare risultati.

 

Si vede anche nel modo in cui il tecnico olandese comunica su Twitter: c’è tanto calcio, c’è il senso delle dichiarazioni post-partita sintetizzate in 140 caratteri, c’è l’

, ma anche la sua vita quotidiana, foto semplici tipo un primo piano, maniche corte, il porto sullo sfondo, come

.

sul tavolino di un aereo, l’attesa del

, insieme alla squadra, una

sulla spiaggia. E pure la

: “Crediamo in noi stessi”, pur all’indomani dell’amara sconfitta con il Manchester United per 2-1. Frammenti di normalità che parlano al cuore dei tifosi.

 

https://www.youtube.com/watch?v=0rlBoluVWVU



 

Al netto delle quattro sconfitte recenti, i risultati stanno dando ragione a Koeman. Pellè va a segno con una buona regolarità: 10 centri in 19 partite. Tadic si è confermato assistman sopraffino, con 6 palloni vincenti recapitati. Schneiderlin, Cork e Wanyama sono cresciuti e formano una diga di centrocampo di livello assoluto. Dietro i titolari c’è un pugno di ragazzini a cui Koeman sta cercando di dare più minutaggio possibile: James Ward-Prowse, Lloyd Isgrove e Matt Targett arrivano dal vivaio del Southampton (uno dei migliori in Inghilterra, da cui sono venuti fuori ad esempio Gareth Bale, Theo Walcott, Alex Oxlade-Chamberlain) sono il futuro e la rappresentazione di una città che non ha mai smesso di credere nel football.

 

Nel calcio, si sa, le cose cambiano nel giro di poco, e chissà quante sconfitte ci vorranno per minare la fiducia di cui gode Ronald Koeman, fiducia nei suoi metodi, nella sua filosofia. Everton, Crystal Palace, Chelsea (con in mezzo lo Sheffield United in coppa) e poi Arsenal a Capodanno: la stagione dei Saints è in un momento chiave e da cui dipenderà anche la percezione del lavoro svolto da Koeman. I giocatori in primis credono in lui: hanno apprezzato il modo in cui si è posto, parlando chiaro nei loro confronti, e anche il fatto di cercare di mantenere il buono che era stato fatto nella stagione passata. Le dure sessioni fisiche imposte da Pochettino sono state sostituite da esercizi più leggeri, ma questo spiega solo in minima parte perché i giocatori del Southampton hanno deciso di rinunciare a un giorno di riposo pur di allenarsi. È successo all’indomani della vittoria all’Emirates contro l’Arsenal in Coppa: Koeman voleva passare la giornata con la moglie, si è ritrovato i giocatori, con capitan Fonte in testa, a chiedergli se poteva presentarsi in campo per un allenamento extra. Un tributo bello e significativo che nessuna sconfitta potrà togliergli.

 
 

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