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Lo Scudetto di Scott McTominay
27 mag 2025
Il peso del centrocampista scozzese nell'incredibile stagione del Napoli.
(articolo)
9 min
(copertina)
IMAGO / Sports Press Photo
(copertina) IMAGO / Sports Press Photo
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Quando Scott McTominay è arrivato a Napoli con bermuda e polo chiari sembrava un qualsiasi turista nordeuropeo venuto a godersi la costiera; pizza e cappuccino a via dei Tribunali, poi Spaccanapoli a scendere, la visita prenotata a Napoli Sotterranea, uno spritz con il Vesuvio all’aperitivo e una calamita per ricordo. Sembrava, anzi, un Tom Ripley particolarmente atletico, o forse la sua ingenua vittima, Dickie Greenleaf: inglese, scozzese, americano, è uguale, un elemento estraneo alla città, fuori posto, fuori dal tempo, con quell’aria fredda in una città con un vulcano, forse persino esotico. Quando però hanno preparato il video di presentazione ai tifosi, dopo aver toccato il piede sinistro della statua di Maradona, ci ha tenuto subito a dire: «Sono venuto qui per vincere, non per fare foto».

Non c’erano dubbi sul fatto che McTominay avrebbe avuto un impatto in un campionato fisico come quello italiano. Ma nessuno, neanche i più ottimisti, avrebbero previsto questo tipo di impatto. Con il mercato estivo quasi finito, si parlava di McTominay come consolazione dal rifiuto di Brescianini, che dopo le visite mediche aveva scelto l’Atalanta. Ed era difficile, allora, fare la differenza tra Brescianini e McTominay. Un freddo soldato del centrocampo del Lancashire (pur con un padre scozzese) arrivato a campionato in corso al posto di un freddo soldato del centrocampo lombardo?

In fin dei conti, chi lo conosceva Scott McTominay? Oggi invece si parla dello “scudetto di McTominay”. Neanche di Antonio Conte, che razionalmente sarebbe il più indicato a rappresentare l’impresa di una squadra arrivata decima lo scorso anno (se non altro, perché Conte ha già fatto un’impresa simile con la Juventus nel 2011/12, arrivata settima la stagione precedente).

Certo è anche, almeno in parte, la stessa squadra che l’anno ancora prima lo aveva già vinto lo scudetto; ma passata nel frullatore di una stagione da tre allenatori, privata di giocatori carismatici - Kim, Zielinski, Osimhen - e con il quarto, il migliore di tutti, in partenza - ovviamente Kvara. Conte era una garanzia fino a un certo punto, veniva dalla sua peggiore esperienza in carriera, conclusa con una conferenza stampa vendicativa in cui ha fatto venire giù il tempio a costo di rimanere sotto le macerie.

Anche il mercato andava interpretato, leggere nel futuro di Bongiorno - da vedere a un livello più alto di quello del Torino, stabilmente in una difesa a 4 - e nel presente del 31enne Lukaku non era così scontato. Qualcosa di più ci si aspettava da David Neres, ma erano passati cinque anni dal suo momento migliore. Neres, oltretutto, è arrivato dopo che il Napoli aveva perso 3-0 a Verona nella partita d’esordio: la situazione in quel momento sembrava difficile, se non già compromessa; il Napoli pareva aver bisogno di tempo per staccarsi dall’immagine che aveva dato di sé nella passata stagione, non era certo a un giocatore di distanza dal trasformarsi in qualcosa di completamente diverso, di completamente nuovo.

E McTominay? Cosa ci si poteva aspettare da un centrocampista che non aveva fatto mai il salto da “giovane promessa” a vero e proprio campione? Un giocatore a cui, come scrivevamo in quei primi mesi, "a Manchester hanno sempre riconosciuto l’appartenenza al club ma quasi nessuno le qualità in campo". Su McTominay c’era certezza dello spirito, della combattività, ma cosa poteva aggiungere esattamente nel gioco di Conte con due mediani? Possibile che un allenatore tra i più accentratori, tra i più «manager», come si definisce lui, fosse finito su un calciatore così peculiare per caso, per fargli fare il panchinaro di Anguissa?

McTominay è il giocatore-sineddoche della sorpresa, della straordinarietà di questa vittoria; più profondamente del carattere che c’è voluto perché il Napoli si prendesse un campionato che pochissimi - quasi nessuno, diciamoci la verità - pensavano davvero fosse alla portata. Ma in quei pochissimi deve per forza esserci stato qualcuno che ha avuto una visione del futuro più precisa degli altri. Qualcuno per cui la sorpresa non è stata così pazzesca, che in McTominay aveva visto già il potenziale barbaro nelle aree di rigore di Serie A.

La differenza con gli anni passati è evidente, oltre che nelle metriche difensive, nelle palle perse (turnovers), diminuite drasticamente, e nei dribbling, molto aumentati (radar di Hudl StatsBomb).

In una recente intervista a The Athletic - quella in cui, come un robot che prende vita e prova delle sensazioni per la prima volta, ha lodato il sapore dei pomodori - è stato lo stesso McTominay a dire di essere stato «misprofiled», classificato male, inquadrato nella categoria errata. «I miei punti forti sono sempre stati gli inserimenti in area, i gol, creare problemi là dentro. Ma venivo usato davanti alla difesa». La sua storia calcistica, d’altra parte, non era così chiara: nelle giovanili (quando giocava con Rashford nell’Under 16) era un numero dieci tecnico ma piccolo, ancora nell’Under 18 del Manchester United giocava poco per problemi di dimensione ridotta. Che poi, quando si sono risolti tutti insieme, anche grazie al lavoro in palestra, hanno portato a problemi di altro tipo, infortuni legati appunto alla crescita, che lo hanno tenuto lontano dal campo.

Solo intorno ai vent’anni acquista continuità e quando, dopo poco, arriva in prima squadra, trova Mourinho che lo legge come un centrocampista difensivo (forse anche per colpa della presenza in squadra di un Matic già quasi immobile, un giocatore simile solo se guardato da lontano). Lo stesso vale per Solskjaer e per l’inizio della stagione di Ten Hag. Nessuno vede in lui quello che vede Steve Clark, suo allenatore con la Nazionale scozzese (che lo ha scelto fin dalle giovanili), che quasi esattamente due anni fa, nel marzo del 2023, lo inizia a far giocare dietro al centravanti.

Sul finire della scorsa stagione anche Ten Hag si è ricreduto, mettendolo in coppia con Bruno Fernandes sulla linea di attacco, in realtà a schermare il centrocampo (in finale di FA Cup con il Manchester City, una partita quasi tutta senza la palla per lo United, McTominay ha effettuato appena 11 passaggi riusciti in novanta minuti più recupero) e lasciare la profondità a Garnacho e Rashford. Ma questo è bastato a chi - Antonio Conte? Il direttore sportivo Giovanni Manna? - ha guardato alla possibilità di portare McTominay al Napoli.

Per McTominay, per aggiungere un centrocampista, Conte ha rinunciato a un difensore passando alla difesa a 4. Non è cambiato niente, anche quando è tornato a giocare con due esterni su tutta la fascia e una coppia di attaccanti restava la certezza che McTominay sarebbe finito in area di rigore (e Anguissa non lontano). Più libero, senza responsabilità in costruzione, McTominay ha convertito quell’aggressività che veniva letta in chiave puramente difensiva in un’arma offensiva, in creatività, persino.

E così è successo che McTominay diventasse il cavatappi del Napoli, quello in grado di sbloccare le partite - e spesso, per una squadra che ha imparato a vincere con un margine sempre ridotto, quello in grado di risolverle.

Nel caso in cui fosse servita un’ulteriore conferma, un suggello a una stagione già di per sé eccezionale, pazzesca, è arrivata la firma nell’ultima partita, una specie di manifesto del dominio fisico e tecnico di Scott McTominay su questa Serie A. L’ultimo di 12 gol e 4 assist, di cui la metà esatta - 6 gol e 2 assist - realizzata dallo scorso 14 aprile.

Quando le cose hanno iniziato a farsi serie, McTominay ha mostrato più serietà di tutti.

Quando il Napoli ha avuto bisogno di un leader che la trascinasse al traguardo, Scott McTominay ha fatto un passo avanti. La palla di Politano è arrivata in area di rigore dopo quaranta minuti giocati da tutto il Napoli con feroce determinazione - anzi, con felice determinazione, quella data dalla consapevolezza che sarebbe bastato un gol, uno soltanto, per completare la missione impossibile. Eppure la palla non entrava e i pessimisti - specie dopo il gol dell’Inter a Como - avranno iniziato a pensare che un destino beffardo fosse dietro l’angolo come il barbone-mostro di Lynch in Mullholland Drive, rappresentazione del subconscio o, forse, più in generale, di tutto ciò che è invisibile.

Per McTominay non c’è niente di misterioso, nel calcio e nella vita. C’è il lavoro, la voglia, si tratta in fin dei conti di trasformare le potenzialità in fatti. La palla di Politano lo trova al centro dell’area, preso in un momento di lotta greco-romana con Zappa. McTominay spinge più forte, mette Zappa sui talloni e prende posizione. La palla di Politano è leggermente arretrata, meglio così, McTominay si coordina e mentre Zappa lo tiene con delle prese da judo, lui si alza in aria e si coordina per quella mezza-rovesciata che nessun tifoso italiano, napoletano e non, dimenticherà mai. Una mezza-rovesciata segnata con un avversario che lo teneva con tutte le sue forze, che non voleva fargli staccare i piedi da terra. Zappa con un ruolo puramente simbolico, del difensore che non può nulla contro la superiorità dell’attaccante.

Era successo anche contro il Torino, neanche un mese fa, quando il giovane Casadei, con una stazza non troppo diversa a quella di McTominay, ha provato in tutti i modi a fermarlo, standogli addosso, usando le mani, scivolando sulla sua linea di tiro: e McTominay ha segnato una doppietta in poco più di mezz’ora. Una superiorità e un dominio che non stati solo fisici: McTominay ha avuto una lucidità superiore alla norma, una capacità di leggere ed eseguire, una precisione al tiro, che veramente viene da chiedersi come possano averlo classificato male per tutto quel tempo. Possibile che in allenamento non lo vedessero calciare in porta?

Pregiudizi, stereotipi. A volte anche i professionisti di altissimo livello ne sono vittima. Ma non bisogna mai fidarsi delle apparenze. Come della freddezza che appiccichiamo a chi viene da più a nord di noi, contraddetta da quelle lacrime con cui McTominay ha accolto qualcosa che, evidentemente, anche per lui sembrava impossibile. Un campionato vinto contro le previsioni, grazie a lui. Non era mai stato così importante come è stato in questa stagione e, ci potete scommettere, non sarà mai più “non importante” come è stato fino alla scorsa stagione. Ci vorrebbe del dolo, della volontà di danneggiarlo - e danneggiarsi - per tornare a farlo giocare davanti alla difesa.

Ma dobbiamo rivedere anche gli stereotipi che appiccichiamo a chi sta a più sud di noi. Dobbiamo riconoscere a Napoli, una città raccontata come solo estroversa, eccessiva, fuori controllo, barocca e grottesca - la Napoli delle torte con la faccia di Lukaku e i capelli di Osimhen - la capacità di innamorarsi nel giro di pochi anni di due giocatori come Kvaratskhelia e McTominay, così seri, opachi, costanti, affidabili, burocratici nel loro modo di applicare il talento. “Kvaradona”, “McFratm” sono tentativi dolci di avvicinare ciò che è diverso, lontano, farlo immediatamente proprio.

Scott McTominay è cresciuto nel settore giovanile del Manchester United, ne ha assorbito lo spirito da quando aveva cinque anni. Eppure è bastato arrivare a Napoli per diventare qualcosa di completamente diverso, di completamente nuovo. Proprio come con successo con i pomodori, McTominay ha assaggiato per la prima volta il vero sapore del proprio talento. E nel farlo, ha vinto uno scudetto. Lo scudetto di McTominay.

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