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Scimmie a chi?
17 dic 2019
17 dic 2019
Perché è sbagliato scegliere delle scimmie come simbolo di integrazione.
(articolo)
8 min
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Immagino di non dover informare nessun lettore della notizia del giorno, cioè del fatto che la Lega Serie A per presentare alcune misure contro il razzismo ha scelto di utilizzare come simbolo tre opere d’arte raffiguranti altrettanti volti di scimmie.

Immagino anche di non dover elencare le critiche e le prese per il culo che sono seguite, sui social ma anche sulla stampa internazionale e sui canali social di due club, Milan e Roma, gli stessi che erano intervenuti duramente contro il Corriere dello Sport, vietando l’ingresso in conferenza stampa (per tutto il mese di dicembre) dopo la famosa prima pagina dedicata al “Black Friday”.

Il contesto è quello di una stagione in cui si parla più di razzismo che di VAR. Il calcio italiano ha una lunga storia di discriminazioni ma quest’anno stiamo assistendo al collasso di tutto il sistema ufficiale, per così dire, mediatico e istituzionale, che ormai è chiaro non è all’altezza della situazione. O meglio, non è all’altezza dei tempi.

Lo dico meglio ancora: si capisce che le persone che parlano di razzismo sui giornali e che provano a fare qualcosa contro il razzismo in Italia, per carità in buona fede, non hanno la sensibilità giusta per farlo. Ed è evidentemente una questione generazionale.

Perché è sbagliato scegliere delle scimmie come simbolo della lotta al razzismo? Io lo dico perché secondo me è sbagliato, ma prima dico che se qualcuno se lo sta chiedendo significa che non ha la sensibilità giusta. Magari è qualcuno che non ha a cuore la cosa, che non ci ha pensato mai prima di adesso, ma in moltissimi casi è semplicemente qualcuno di una generazione che ha vissuto in un mondo troppo diverso per capirlo.

Io ho quasi 40 anni e sono già troppo vecchio per capire molte cose. Tik Tok. Fortnite. Chiara Ferragni. Non c’è niente di male ad ammetterlo.

Faccio un solo esempio a proposito della questione di età. La difesa di Gianni Mura alla prima pagina del Corriere dello Sport. Un articolo uscito su Repubblica dal titolo “Gridare al lupo. L’autogol antirazzista”. Mura dice: «In quel titolo non c’era nulla di razzista, lo dico per esperienza. Il razzismo puzza, che sia verbale o scritto. Lo noti subito».

Quale esperienza? Mura intende, credo, i numerosi articoli che lui ha scritto contro i cori razzisti, contro altre gaffe (tipo quella di Cellino). Come se aver preso una posizione giusta dia un qualche tipo di patente. Ma dato che non è così, torno a chiedere: quale esperienza? Quella di un italiano nato nel 1945?

Mio nonno, nato una ventina di anni prima di Mura, girando dalle parti della Stazione Tiburtina, a Roma, una volta mi raccontò che quando un suo compaesano aveva visto per la prima volta una persona di colore aveva pensato fosse il diavolo. Mio nonno era più informato del suo compaesano e Mura senza dubbio è più informato, acculturato e cosmopolita di mio nonno, ma in quale Italia ha vissuto lui? Quanto è distante l’Italia - il mondo - degli anni ‘60, ‘70 e ‘80 dall’Italia - dal mondo - di oggi?

Per questo la seconda motivazione di Mura è così debole: primo perché il razzismo non puzza, non lo si nota subito, anche se sarebbe bello fosse così; secondo poi perché nel caso di cui parla Mura in moltissimi hanno sentito la puzza e hanno cercato di dirlo a chi cercava di dire che era l’odore dei campi, suggerendo di chiudere i finestrini.

Il razzismo va stanato e combattuto anche nelle sue sfumature più difficili da percepire, proprio per non passare il messaggio che il razzismo sia una cosa sola, chiara e inequivocabile: perché il razzismo ha molte facce e i razzisti hanno molte giustificazioni (e possono esserlo inconsapevolmente).

Per questo Mura si stupisce delle reazioni di Smalling e Lukaku (che poi, fossero solo loro) e si chiede se magari «abbiano maturato, nel vissuto calcistico non tutto rose e fiori, una sensibilità più acuta». Per questo il resto del pezzo di Mura è una difesa del suo mestiere (con tanto di consiglio a Zazzaroni di non pubblicare su Roma e Milan, se non il minimo delle informazioni: come se il potere dei quotidiani nazionali non fosse già basato sul ricatto implicito di una stampa che può diventare “cattiva”, o almeno “più cattiva”) e confonde il diritto di critica con il diritto di scrivere cose che questa società, forse, non vuole più accettare.

Ma quella su quanto è distante l'Italia in cui si vive da quella in cui si è cresciuti è una domanda che dovrebbe farsi chiunque voglia parlare di questi problemi, altrimenti si rischia di scegliere dei quadri raffiguranti scimmie pensando di fare bella figura.

A me invece sembra di perdere tempo, scrivendo del perché sia sbagliata una scelta del genere, ma se non lo facessi farei l’errore di quelli che difendono cose che per altri sono razziste senza argomentare veramente.

Non ci è riuscito Mura, ad argomentare, ma non ci era riuscito neanche Zazzaroni rinfacciando ai suoi stessi lettori le altre prime pagine in cui il Corriere dello Sport criticava il razzismo. Non ci è riuscito neanche l’artista che ha dipinto le scimmie - e a onor del vero non sta a lui farlo - quando dice che per lui devono essere simbolo di “fratellanza”.

D’altra parte definire cosa è razzista e cosa no, o peggio ancora chi è razzista e chi no, serve solo a relativizzare. Tanto per cominciare non funziona così: puoi non esserlo per tutta la vita e poi, un giorno, comportarti in modo razzista. Puoi non esserlo con i giocatori della tua squadra che hanno la pelle più scura della tua, o con tutti i giocatori neri in generale, e poi esserlo con uno in particolare, perché magari ti sta antipatico come uomo.

Il razzismo sta nelle azioni e non nei valori in cui si crede, altrimenti non esisterebbe il razzismo inconsapevole - che poi è il tipo di razzismo di cui stiamo parlando in Italia, senza aver fatto prima un discorso chiaro sul razzismo storico.

La cosa bella del razzismo è proprio che puoi esserlo un attimo e non esserlo un attimo dopo. Nessuno ti può riconoscere per strada in quanto tale, ad esempio dal colore delle tua pelle. Nessuno ti tatua un numero sul braccio perché nessuno ha mai deciso di sterminare i razzisti.

E poi anche nelle azioni "insensibili" ci sono sfumature: una cosa è mettersi un cappuccio e trascinare, attaccate con una corda al proprio cavallo, persone con il colore della pelle diversa; un’altra è non andare più in un esercizio commerciale gestito da stranieri senza altra ragione se non quella. Ogni persona, ogni giorno, compie scelte complesse dal punto di vista etico, difficili da definire e a volte persino in contraddizione tra loro.

Scegliere dei ritratti di scimmie (peraltro con dei tratti “tipizzati” per rappresentare Europa, Asia e Africa) mostra scarsa sensibilità anche se è stato fatto in buona fede. Perché il messaggio antirazzista non è, o non dovrebbe essere, “siamo tutti scimmie”, bensì: “nessuno è una scimmia”.

La scimmia è il simbolo che hanno scelto i razzisti per disumanizzare le persone di colore, per dirgli che loro e la loro famiglia, che loro e tutti quelli come loro, sono solo degli animali. Il codice usato è quello razzista da stadio e non è che quelle persone non siano a conoscenza della teoria evolutiva: è che per loro ci sono uomini che sono più scimmie di altri. Ed è questo che andrebbe combattuto.

Bisogna dire chiaro e forte che nessun essere umano ha meno diritti di un altro perché il 10 dicembre del 1948, a Parigi, 48 Paesi sui 58 che formavano le Nazioni Unite, hanno firmato un pezzo di carta su cui quei diritti sono elencati. Quello è forse il pezzo di carta più importante della Storia, quello che segna un vero e proprio progresso dell’umanità (che non è economico o tecnologico) e comincia con un preambolo in cui si dice che il mancato rispetto di questi diritti ha portato ad “atti di barbarie che offendono la coscienza dell'umanità”.

Bisognerebbe quindi cominciare ad avere - o meglio, tornare ad avere - fiducia nella coscienza dell’umanità. Bisognerebbe ricordarsi che non siamo più, o che non vogliamo più essere, delle scimmie, proprio perché ci riconosciamo come uguali indipendentemente dalle origini o dalla cultura da cui veniamo. Perché la nostra uguaglianza va al di là delle nostre differenze (perché siamo tutti diversi).

E poi dovremmo avere il coraggio di dire, anche a chi non sa di cosa si parla o finge di non saperlo, che quello che gli manca non è un linguaggio "politicamente corretto", ma il rispetto e la sensibilità per parlare a chi è diverso.

Il contrario, insomma, di quello che dicono quei quadri. Quelle scimmie ci ricordano che l’Italia è sempre più lontana dall’attualità del discorso sul razzismo e sulle discriminazioni per come viene svolto da altre parti del mondo. Gli USA, l’Inghilterra, la Francia hanno magari problemi di razzismo più grandi, ma culturalmente rischiamo di finire sempre più isolati e chiusi in discorsi auto-riferiti: il che per uno sport che mira a essere il più globale possibile, anche a livello nazionale, è davvero un autogol, come direbbe Mura.

Quelle scimmie ci ricordano anche che abbiamo perso fiducia nel fatto che le persone possano essere domani migliori di come sono oggi, che possano fare uno sforzo per essere più sensibili e rispettose. E che non potendo trovare un punto di unione su una base dignitosa lo si cerca in basso, addirittura all’origine della specie. Ci ricordano, infine, che nei posti di potere in Italia, a livello istituzionale e sui grandi media, non solo non c’è praticamente nessuno che quelle discriminazioni le ha vissute, ma neanche nessuno in grado di ascoltare quelle voci.

In realtà, proprio adesso, mi è venuto in mente un modo per migliorare la campagna della Lega. Basterebbe modificare i ritratti e rappresentare una scimmia con le mani davanti agli occhi; una scimmia con le mani sopra le orecchie; una scimmia con le mani davanti alla bocca. Così almeno rappresenterebbero il fatto che in Italia il razzismo non lo vediamo, non lo sentiamo e non ne sappiamo parlare.

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