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Paola Moretti
La scandalosa normalità degli abusi nella ginnastica
10 nov 2022
10 nov 2022
Una riflessione sulle denunce delle atlete italiane.
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Paola Moretti
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DPPI/Kanami Yoshimura
(foto) DPPI/Kanami Yoshimura
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Ho iniziato a mangiare normalmente a dodici anni e con gusto a diciannove. Ero una bambina inappetente, non è raro, anzi, ho letto su una rivista pediatrica che può essere un tratto ereditario. Mia madre è stata una bambina inappetente, mia nonna pure. Mangiare mi sembrava una perdita di tempo, tanto fame non ce l’avevo mai, e poi non mi piaceva niente. Fino ad oggi a casa si scherza che se non ci fosse stata la Nutella, apparentemente unico alimento che mangiavo in quantità, sarei morta di fame. Ovviamente non è così, mia madre si è dannata a farmi trovare a tavola sempre quei quattro piatti che erano di mio gradimento. Controllava che non andassi a sputare il boccone di carne in cucina, che non svuotassi il piatto dentro quello di mio fratello. Quindi immaginate la sua gioia quando ho iniziato ginnastica ritmica, o meglio, immaginate la sua gioia quando passai all’agonismo. Immaginate la gioia di mia madre quando la direttrice del centro ginnico le disse che avevo la corporatura perfetta per quella disciplina: “magra magra e con gli arti lunghi”. Facevo allenamento tre volte a settimana dalle due alle cinque di pomeriggio, il patto era che se non pranzavo non mi ci portava. Ogni tanto ci provavo a fare storie, ma mia madre era inamovibile. Niente cibo, niente sport. La storia della mia esperienza con la ginnastica ritmica è indissolubilmente legata alla figura di mia madre, non solo perché era la persona che mi accompagnava e veniva a riprendere al palazzetto, non solo perché ero un minore, una bambina per la precisione, ma perché mi ha sempre protetta dalle esagerazioni di quel mondo. Si è opposta quando volevano farmi indossare cavigliere da un chilo a gamba, mentre io ne pesavo su per giù trenta, si è opposta quando volevano farmi mettere le punte di gesso per l’ora di danza classica settimanale, senza neanche motivare l’utilità effettiva del provvedimento, e quando mi convocò una società di livello superiore a quella con cui mi allenavo, ha detto: “vediamo”. Vigilava, com’era giusto che facesse, e in qualche modo ha impedito che io venissi completamente risucchiata dalla ginnastica. Non mi ha impedito di fare quello che desideravo, ma ha sempre espresso le sue opinioni, esternato dubbi e critiche, e messo al primo posto il mio benessere fisico e mentale secondo i suoi parametri, non secondo i miei, né secondo quelli delle allenatrici. Il 30 ottobre scorso Nina Corradini, ex ginnasta delle Nazionale, ha denunciato le pressioni psicologiche a cui veniva sottoposta quando frequentava l’Accademia di Desio, ovvero l’Accademia Internazionale di Ginnastica Ritmica diretta da Emanuela Maccarani dove si allenano le atlete della nazionale italiana, le “Farfalle”. Ha raccontato di essere stata pesata ogni giorno davanti a tutti dall’allenatrice che appuntava le cifre su un quadernino e le commentava a voce alta. La denuncia di Corradini ha fatto da apripista a una serie di ulteriori accuse da parte di ex atlete che non riguardano solo l’Accademia di Desio ma anche altri rinomati centri ginnici in Italia. Anna Basta e Giulia Galtarossa, anche loro ex ginnaste della Nazionale, hanno raccontato di esperienze simili a quelle della collega, esperienze risultanti tutte e tre in disturbi alimentari conclamati, e hanno detto di aver esposto la situazione ad allenatrici e a persone che in teoria avrebbero dovuto essere responsabili di gestire la situazione, ma che all’epoca non presero alcun provvedimento. In seguito alle recenti denunce, la procura di Brescia ha aperto un’indagine sull’Accademia di Desio, la quale è stata di conseguenza commissariata dalla Federginnastica. La risposta di Federginnastica è stata tuttavia insufficiente, il presidente Gherardo Tecchi, che si dichiara allibito e arrabbiato in quanto padre, nonno e dirigente sportivo, come se ci fosse ancora bisogno di immedesimarsi in una figura vicina alle atlete per parentela o per ruolo prima di inorridire davanti all’accaduto, in un tentativo che sembra voler minimizzare le responsabilità della Federginnastica, dice di aver «concesso troppo spazio alle persone» precisando poi che il controllo del peso è compito delle figure specializzate come medici e nutrizionisti, non dei tecnici. Afferma che l’obiettivo è arrivare a zero casi e che non sarà più accettato niente di simile. Sarebbe opportuno che si indagasse anche su come si è potuti arrivare a questo punto. Non è molto migliore l’uscita del presidente del CONI Giovanni Malagò, che si è scusato, sì, ma non ha mancato di esortare a non fare di tutta l’erba un fascio: «Chi ha sbagliato, se lo ha fatto, pagherà. Bisogna capire, una volta accertati i casi, la reale dimensione del fenomeno». Entrambi i dirigenti ci tengono inoltre a sottolineare che comunque nella ginnastica, più che in altri sport, il peso è una determinante e un certo rigore è inevitabile. Ieri ha parlato anche Vanessa Ferrari, in un lungo post su Instagram. Non è la prima volta che racconta dei problemi alimentari avuti in passato a causa della ginnastica, nel suo caso artistica. A 19 anni fu anche ricoverata in una clinica dove intraprese un percorso durato due anni per risolverli. Ferrari ha parlato di un mondo ancora grigio dove, per sua esperienza, le cose stanno migliorando, ma il caso dell'Accademia di Desio conferma quanto ancora deve essere fatto per rendere questo mondo sostenibile per gli atleti. La sua riflessione invita a non demonizzare la ginnastica in quanto sport, "un mondo magnifico benché complesso", ma a eliminarne le storture "parlandone costantemente e denunciando tempestivamente".

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Un post condiviso da Vanessa Ferrari (@ferrarivany)

La mia esperienza con la ritmica è stata traumatica, ma non per i motivi di cui parlano in questi giorni le atlete. Non ho il minimo dubbio che sia tutto vero quello che dicono, credo anche ai racconti più raccapriccianti, credo all’atleta che sostiene di essersi allenata con una frattura al metatarso, credo alla ginnasta che racconta di essere stata chiamata “maialino” per un paio di chili in più, credo alla ginnasta che dice che le allenatrici non volevano che frequentasse la scuola, e rabbrividisco quando leggo frasi come “strano che se ne sia ricordata solo adesso” o vedo i tecnici, i direttori e i presidenti nascondersi dietro a un “bisognerà fare accertamenti”, come se non fossero già successi innumerevoli casi simili, come se non ci fosse stato lo scandalo Nassar, come se non ci fosse stato il ritiro di Simone Biles dalle Olimpiadi per salvaguardare la sua salute mentale, come se qualche anno fa girassero su siti-clickbait i video delle palestre cinesi in cui bambine di cinque anni venivano maltrattate; cioè come se fosse inaudito e impensabile quello che sta accadendo. Come d’altronde era impossibile il #MeToo e come sarà inverosimile la prossima storia di abusi, soprattutto se sulle donne o su una minoranza, in una società come quella occidentale che ha fatto della sopraffazione del più debole una nuova forma di culto. Ci credo perché se anche ho avuto la fortuna di non viverli in prima persona certi episodi estremi (non ho raggiunto livelli così alti, né il professionismo, nella società in cui mi avrebbero pesata tutti i giorni non ci sono andata e le mie allenatrici erano persone attente) non vuol dire che non abbia sentito di storie, assistito a commenti o rimproveri alle compagne di squadra più in carne di me, non tremassi di terrore quando si avvicinava una delle allenatrici più severe. Io credo a tutto e tutti dovremmo credere alle ginnaste, perché in una bambina che piange di paura quando le si avvicina una donna adulta per dimostrarle come fare un esercizio, c’è qualcosa che non va. E mi fa specie dire che mi ha salvata una brutta scoliosi. Fosse stato per me avrei sacrificato la mia infanzia per quello sport. Mi sarei lasciata pesare prima di ogni allenamento, sarei andata in palestra cinque volte a settimana per cinque ore al giorno, avrei lasciato che il menarca ritardasse perché non avrei raggiunto i quaranta chili minimi, avrei sottoposto la mia persona a uno stress fisico e mentale eccessivo, avrei fatto tutto quello che mi chiedeva la preparatrice che mi terrorizzava, avrei fatto il necessario per eccellere. Perché? Me l’hanno chiesto, “cos’è che ti piaceva così tanto?” E ci ho ci ho dovuto pensare un attimo, ma poi la risposta è arrivata chiara: mi piaceva essere brava, mi piaceva avere il corpo adatto e la mentalità giusta per primeggiare. E io da sola mi sono domandata spesso: facevo ginnastica ritmica perché ho questo carattere oppure ho questo carattere perché facevo ginnastica ritmica? Ho scritto un libro sulla mia esperienza in questo mondo. L’ho scritto a vent’anni di distanza dai fatti accaduti e ho dovuto assumere il punto di vista di mia madre, della trasposizione letteraria di mia madre, per parlarne. Ci avevo provato anche cinque anni prima, in un altro tipo di testo, più aderente alla realtà, più emotivo, più accusatorio. E prima ancora era una storia che raccontavo solo a poche persone perché, nonostante il tempo, faceva ancora male. Quello che non ho ancora raccontato è quello che è venuto subito dopo la ginnastica ritmica, perché è altrettanto difficile. C’è stato sì il curare la mia schiena, c’è stata la depressione, c’è stata la rabbia, c’è stato il ritorno in palestra, fallimentare, c’è stato un esaurimento nervoso e un’altra depressione, c’è stato il rifiuto totale, c’è stato il disprezzo per quel mondo, c’è stata la fascinazione segreta e colpevole per quel mondo, c’è stato il fare pace, più o meno, con tutta questa storia. Cosa sarebbe successo se non avessi avuto la schiena a impedirmi di continuare? Me lo sono chiesta innumerevoli volte, se lo sono chieste le mie allenatrici e preparatrici che parlavano di nazionale e olimpiadi. Ovviamente nessuno lo sa, ma credo che mi sarei trovata in situazioni estreme, forse estremamente brutte, credo anche che ci sarebbe stata mia madre a tirarmene fuori. E questo esercizio di speculazione mi fa riflettere sull’etica di un universo in cui una bambina, magari testona, magari ambiziosa, magari di talento, ma pur sempre bambina, incapace di tutelarsi e proteggersi, non equipaggiata ad affrontare le pressioni di un gruppo di adulti e di una struttura così impositiva, come una bambina con un sogno possa anche venir spinta all’autodistruzione.

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