Nel funzionamento della Corte Suprema americana, che ha creato una tradizione giuridica poi diffusasi anche in Europa, c’è una dimensione molto interessante, quella della cosiddetta dissenting opinion. I giudici che esprimono un voto di minoranza hanno la possibilità di manifestare pubblicamente le ragioni della propria posizione, e quindi il proprio dissenso giuridico rispetto alla decisione della maggioranza.
Questo dissenso ha un significato tecnico, e non va interpretato come espressione automatica di posizioni impopolari, però possiamo prenderlo da ispirazione per cercare di manifestare un’opinione calcistica dissenziente, soprattutto in questi giorni: difendere parte del modello-Sassuolo, e quello che ha rappresentato nell’ultimo decennio.
L’inattesa retrocessione della squadra neroverde è uno dei grandi temi calcistici della stagione, visto il ruolo sportivo e mediatico ricoperto in questo decennio dal club emiliano, l’importanza della proprietà nel contesto del sistema economico italiano e i risultati fortemente negativi in rapporto alle risorse a disposizione. Una retrocessione che ha scatenato una felicità diffusa per la liberazione da una realtà vissuta come alloctona e usurpatrice del vero spirito calcistico nazionale, una stortura negativa di cui festeggiare, auspicabilmente per sempre, la dipartita dal massimo campionato nazionale.
Da dove nasce questo odio?
Qui devo fare una premessa. Ho già tentato qualche mese fa per Limes un’analisi antropologica del calcio italiano ispirata al realismo di Machiavelli: guardare e studiare la realtà per come si presenta e per come appare, non per come idealmente vorremmo che fosse.
Il calcio italiano ha manifestato in questi anni post-pandemici una vitalità antropologica particolare, espressa dal rito antropologico per eccellenza – quello della festa popolare, che nel calcio è da sempre il sigillo della vittoria -che ha variamente coinvolto tante squadre e tante tifoserie (Milan, Roma, Napoli, Inter, financo il Bologna), in numero incomparabile rispetto allo scorso decennio, contrassegnato dall’egemonia della Juventus. Questo vitalismo ha delle conseguenze poco indagate, ma importanti.
Da un lato il tribalismo identitario del calcio, in uno scenario di forte crisi e indebolimento delle appartenenze politiche, sindacali e religiose tradizionali, è divenuto – suo malgrado - il fondamento supremo della vita pubblica italiana. In secondo luogo la natura evasiva dello spettacolo calcistico assume una funzione così rilevante nell’Italia contemporanea perché funziona da meccanismo protettivo dalle ansie e dalle angosce della situazione storica, che vede il nostro Paese, sempre più vecchio da un punto di vista demografico e sempre più fragile nei suoi fondamentali socio-economici, alle prese con numerose crisi interne ed esterne, in un pianeta attraversato da guerre, conflitti, sconvolgimenti climatici. L’appartenenza calcistica è divenuta una sorta di bene-rifugio, una messa in pausa attingibile nel rito ormai bisettimanale della partita, e nelle numerose interazioni sociali che precedono e seguono tale rito.
Calcio nell’Italia del nostro presente significa prevalentemente l’appartenenza di tifo a uno dei cinque club più importanti, che, numeri alla mano, rappresentano e identificano circa il 90% dei 25 milioni di tifosi e appassionati stimati dalle ricerche Ipsos. Il rapporto tra queste grandi comunità interne alla nazione va poi compreso facendo ricorso a un altro concetto legato all’antropologia, quello di schismogenesi. Semplificando, parliamo di meccanismi che portano gruppi umani tra loro interagenti a smettere di riconoscersi reciprocamente, e quindi di rispettarsi, al contrario esasperando gli elementi di distinzione, fino a sfociare nella violenza reciproca. Una malattia dello stare assieme.
È un concetto elaborato quasi un secolo fa da Gregory Bateson, che oggi torna utile per descrivere varie tendenze delle società occidentali. La schismogenesi calcistica in Italia è una tendenza di lungo corso, avvitata sulle numerose dispute arbitrali e sugli scandali ciclici, ma con i social, che di polarizzazione distruttiva delle opinioni vivono proprio per la loro natura tecnico-economica, è divenuta contrasto a tutto campo, arrivando addirittura a penetrare campi del sapere molto tecnici e formali come la lettura dei bilanci aziendali.
Alle latitudini italiane l’appartenenza calcistica è ormai una continua guerra di opinioni in cui è diventato impossibile avere delle posizioni terze e disincantate, o anche solo riconoscere la verità nel campo avversario quando necessario, e in cui sono sempre più deboli le mediazioni esterne, in passato affidate ai media, in particolar modo i giornali. Accade così, giusto per citare un esempio, che un sindaco di un’importante città turistica arrivi sui social a insultare in forme sguaiate una squadra avversaria senza rendersi minimamente conto della degenerazione comunicativa e cognitiva in atto.
In Italia il 90% dei tifosi tifa cinque squadre, e due di queste, Juventus e Inter, che assieme fanno quasi la metà del tifo suddetto, poggiano su una rivalità più profonda della fossa delle Marianne, quasi tutto è contrapposizione tra le comunità suddette, con geometrie variabili.
È impossibile comprendere l’odio per il Sassuolo se non si parte da qui, da questo realismo antropologico.
Nel decennio pre-pandemico la squadra emiliana è stata additata dal mondo non juventino come “Scansuolo”, ovviamente nei confronti della Juve, una "seconda squadra" buona per favori agonistici, scambi di plusvalenze e acquisti di favore con pagamenti dilazionati. Negli ultimi anni post-pandemici il Sassuolo è invece divenuto prima l’oggetto d’odio dei tifosi interisti, per la presunta scarsa resistenza opposta al Milan nella partita che assegnò matematicamente lo scudetto ai rossoneri, mentre in questa stagione è stata identificata dal mondo come “seconda squadra” nerazzurra, buona per scambi di plusvalenze e acquisti con pagamenti dilazionati, e Beppe Marotta e la sua storica amicizia con l’AD del Sassuolo Giovanni Carnevali a fare da imprescindibile trait d'union di queste forme d’odio.
Vale richiamare per queste considerazioni quello che Machiavelli riportava a proposito di Girolamo Savonarola. Molti cittadini fiorentini della fine del Quattrocento credevano che il frate ferrarese parlasse in nome e per conto di Dio, e che questo fosse vero o meno non importava loro, contava solo la sua capacità di persuasione. Anche la larga maggioranza dei tifosi non interisti crede che l’Inter abbia deliberatamente concesso i tre punti al Sassuolo lo scorso 4 maggio su ordine espresso del cardinal Marotta e delle sue trame oscure in favore della sua presunta seconda squadra, come nemmeno il cardinal Carafa ritratto in Q di Wu Ming avrebbe saputo architettare. È difficile scalfire queste credenze nel mondo della schismogenesi calcistica italiana. Il Sassuolo, allora, diventa un’estensione del potere del club avverso, sua metamorfosi da contrastare, club privato di ogni scheletro soggettivo, di ogni libertà di scelta e decisione progettuale.
Il primo peccato mortale del Sassuolo sarebbe il "ratto" dello stadio di Reggio Emilia avvenuto nell’autunno del 2013, percepito come un attentato nei confronti delle identità storiche del tifo italiano (nel caso di specie la comunità dei tifosi della Reggiana). Lì si sarebbe consumata la protervia rapace di una delle famiglie più importanti e ricche del capitalismo italiano.
L’altro aspetto contestato al Sassuolo, però, è l’incapacità di riempire questo stadio. La comunità dei tifosi neroverdi esiste eccome, ma ha numeri contenuti. Lo stadio allora viene di volta in volta riempito dalla big di turno (rafforzando quella sensazione di vassallaggio). Viene contestata l’idea che il Sassuolo sia lì per rubare il posto a qualcun altro: lo stadio non è suo, la Serie A non dovrebbe appartenere a un contesto così minuto e i soldi sono stati spesi per creare una società “di plastica.”.
Eppure il legame tra la famiglia Squinzi e il territorio di Sassuolo è tutt’altro che di plastica.
Il Sassuolo è l’unica vera figurazione calcistica del capitalismo manifatturiero italiano dei distretti, in controtendenza con le scelte dei pochi grandi gruppi industriali italiani a trazione familiare (dai Ferrero ai Del Vecchio a molte altre famiglie meno note ma dotate di ingenti capitali) di ignorare il calcio come settore d’investimento. I giocatori del Sassuolo ogni anno in visita al Cersaie, il Salone Internazionale della Ceramica che si tiene a Modena, incarnano la parte sportiva di un connubio unico in cui un’azienda chimica milanese nelle sue origini da quasi un secolo realizza il legame cementizio con cui le piastrelle possono depositarsi per sempre nei pavimenti e nelle pareti delle case di milioni di persone, piastrelle che vengono per la maggior parte prodotte proprio a Sassuolo e dintorni, un settore che realizza una parte consistente del Pil italiano, molto più del calcio. È falso dire che il Sassuolo è un club senza storia, è un club che mostra questa storia particolare, con il supporto del Gruppo Mapei alla squadra cominciato nel 1982, e la proprietà acquisita nel 2003.
Persino questo legame tra squadra e gruppo industriale viene contestato dal pubblico, come se le squadre di calcio italiane non fossero poi anche espressione del capitalismo: non ora ma da sempre. Un capitalismo prima industriale e oggi finanziario. Si può dire che anzi che il calcio sia nato attorno alle aziende e alle fabbriche.
Tuttavia per essere amati, e quindi conquistare nuovi tifosi oltre il perimetro delle proprie mura cittadine, bisogna vincere. La vera causa recondita dell’odio nei confronti del Sassuolo è forse quella di non essere mai riuscito a vincere, nonostante la potenza economica della sua proprietà. È questo il vero fattore antropologico in grado di attrarre nel tempo tifosi su base regionale e nazionale, come accaduto nella storia del calcio italiano alle grandi squadre blasonate, tutte nate come espressione di poteri economici di determinate città. La via Emilia conserva la memoria del Parma di Tanzi, quello sì molto amato e ancora vissuto a distanza di un trentennio con simpatia e affetto, proprio perché vinse numerosi trofei rimasti nella memoria collettiva, senza troppe inquietudini sulle basi contabili ed economiche su cui si reggevano quei successi. Oggi è ancora possibile trovare tifosi del Parma fuori da Parma.
Il Sassuolo da questo punto di vista è rimasto a metà del guado, forse anche per la morte di Giorgio Squinzi avvenuta nell’ottobre del 2019, perché il venir meno, in termini weberiani, del carisma del fondatore è un tema rilevante ai fini della nostra analisi, dato che per l’imprenditore milanese investire nello sport e nei successi sportivi come leva pubblicitaria, educativa e anche scientifica è sempre stato un tarlo costante del proprio percorso biografico, mentre gli eredi non sembrano essere animati dallo stesso fuoco. Il Sassuolo non ha mai sperimentato gli effetti del potere della vittoria, anche per evitare follie dissipative, ma non ha nemmeno creato quel legame tra sostenibilità, competitività e comunità che sta rendendo magica la storia presente dell’Atalanta (o, più in piccolo, del Lecce), perché le possibilità demografiche di Sassuolo sono differenti da quelle di Bergamo. Quest’assenza di legame alimenta, appunto, un senso di artificialità.
Il Sassuolo è ora sceso in B perché nello sport gli errori tecnici e gestionali – magari anche per un eccesso di superbia - contano, incidono, si pagano, e possono commetterli tutti, anche squadre dai budget importanti, con dirigenti preparati e navigati, dotate di strutture moderne. Il Sassuolo ha esagerato col player trading? Ha sovrastimato i propri mezzi? Non voglio entrare nelle questioni tecnico-sportive alla base della retrocessione.
Tuttavia l’odio non può prendere il sopravvento sulla realtà, cancellando alcuni suoi elementi che occorre richiamare. Ci sono cinque cose di questo decennio calcistico neroverde che non vanno dimenticate. Cinque ragioni per cui apprezzare il lavoro del Sassuolo e delle persone che lavorano nella società neroverde, anche in questi giorni in cui farlo è decisamente impopolare:
1) Gli investimenti nelle strutture. Per quanto riguarda lo stadio, bisogna ricordare in quali condizioni versava l’allora Giglio. La sua gestione era stata affidata al tribunale fallimentare, e la vecchia proprietà della società granata aveva lasciato in eredità ai contribuenti reggiani 650 mila euro di tasse mai versate. Il Sassuolo ha investito costantemente nell’impianto, facendolo riammodernare dal gruppo Mapei, proprietario della struttura. La società neroverde nel 2019 ha poi inaugurato un bellissimo centro sportivo - a Sassuolo - in cui oltre alle prime squadre si allenano anche quasi tutte le squadre giovanili maschili e femminili, un modello fatto proprio ora anche dalla Fiorentina al Viola Park, e ha anche tenuto in vita il vecchio Stadio Ricci, che ospita le partite della prima squadra femminile, che inizialmente giocava al vecchio Mirabello di Reggio Emilia. Questa dotazione impiantistica significa tra le altre cose la possibilità di ospitare partite delle varie nazionali azzurre, le fasi finali dei tornei giovanili, e altri eventi di rilievo. Pensiamo, solo per fare un esempio, alla differenza con la vicina Toscana, culla spirituale e tecnica del calcio italiano, dove sostanzialmente tutti gli stadi dei capoluoghi di provincia cadono a pezzi in senso letterale.
2) Aver regalato al calcio italiano e alla sua Nazionale maschile tre campioni d’Europa 2020, di cui due cresciuti all’interno del proprio vivaio, fatto letteralmente straordinario, se pensiamo che solo il Milan con Donnarumma e il Napoli con Insigne possono rivendicarne uno a testa. Non è un fatto banale e scontato, tanto più nella presente era di difficoltà sistemica del sistema-calcio italiano a coltivare talenti. L’esultanza e la festa di milioni di italiani nella notte di Wembley, tutti appartenenti alle comunità di tifo da cui siamo partiti in quest’analisi, sono state rese possibili anche dal lavoro del Sassuolo, la cui sublimazione è il progetto Generazione S. Se il Sassuolo è stata in questi anni una squadra di sistema, lo è stata in questo senso virtuoso.
3) Aver regalato al calcio italiano una storia particolarissima, quella di Domenico Berardi, vero giocatore-bandiera, che andrà raccontata in futuro con la profondità che un percorso simile e un talento simile meritano, perché nell’odio anti-Sassuolo di questi giorni il calciatore calabrese è diventato un fallito con poco coraggio (e personalmente sono molto curioso che venga esplorato in profondità il suo legame umano con Giorgio Squinzi, per capire quanto sia alla base di questa lunghissima permanenza in neroverde).
4) Aver investito in maniera seria e appassionata nel calcio femminile, che in Italia resta ancora una questione da valdesi della passione calcistica, minoranza stritolata dal disinteresse generale, ma che guarda alle tendenze delle grandi nazioni calcistiche. Il Sassuolo è uno dei pochi club ad aver investito con convinzione, a partire dalla finale di Champions femminile del 2016 ospitata a Reggio Emilia, e con risultati importanti a fronte di risorse nettamente inferiori rispetto ai grandi club, testimoniati dal quarto posto di questa stagione in Serie A, dal lavoro di valorizzazione di giovani talenti (nella finale Primavera contro il Milan, persa ai supplementari, ha stupito una centrocampista del 2009 nemmeno quindicenne originaria di Sassuolo, Giulia Guerzoni). Lancio qui un’idea folle: perché non investire pesantemente solo sulla squadra femminile, per renderla vincente?
5) La presenza sul territorio, attraverso attività educative, il lavoro sul calcio inclusivo e sul superamento delle barriere legate alla disabilità, per esempio con la presenza della squadra Special. Se il calcio femminile è una questione marginale nel calcio italiano non parliamo nemmeno della questione disabilità. L’importanza accordata alla formazione dei giovani del vivaio, un tema caro alla compianta Adriana Spazzoli.
Il Sassuolo è un club tedesco e anti-tedesco assieme, uno strano Centauro, totalmente unico nel suo genere. Tedesco per la progettualità e gli investimenti appena ricordati, ma anti-tedesco nell’impossibilità di rappresentare una comunità di destino, perché privo di un bacino di tifo adeguato allo scopo, la vera grande croce che ipoteca anche il futuro, e che per certi versi rende sinistramente premonitrici le parole di De Zerbi, riferite proprio alla sua esperienza in neroverde, sulla necessità di avere la pressione dei tifosi per riuscire a fare calcio ad alti livelli, come stimolo insostituibile all’autoesigenza.
Come sarà il futuro del Sassuolo? Risalire in A e darsi una nuova prospettiva non sarà facile, compresi i nodi da sciogliere sul futuro di Berardi e di altri giocatori. Anche proseguire nella progettualità legata alla valorizzazione dei giovani italiani sarà più complicata, ora che i grandi club si stanno via via dotando delle seconde squadre per far maturare i propri talenti. Ritrovare entusiasmo e rilanciare il progetto? Ridimensionare i progetti e il budget ed entrare a far parte della fascia “yo-yo” del calcio italiano, come Empoli e Frosinone, magari con un passaggio di proprietà? Oppure disinvestire e tornare ai livelli della storia precedente, nelle categorie dilettantistiche interregionali o intraregionali, consegnando questo decennio ai libri di storia?