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Saremo mai d'accordo sulle decisioni arbitrali?
08 nov 2023
08 nov 2023
Gli arbitri stanno provando a spiegarle in TV ma c'è qualcosa che non va.
(copertina)
IMAGO / Action Plus
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Lo scorso 24 settembre ha debuttato Open VAR, un nuovo format del broadcaster DAZN, con la collaborazione della Federcalcio italiana e dell’Associazione Italiana Arbitri (AIA). Ogni settimana, un rappresentante dell’AIA è presente negli studi televisivi, il teatro dei dibattiti televisivi serali intorno al campionato. In Open VAR il delegato degli arbitri commenta le immagini di un episodio della precedente giornata di Serie A, rilevante per l’attenzione che ha suscitato o perché la complessa applicazione del regolamento necessita di un approfondimento. La vera novità (rispetto ad ex arbitri che commentano episodi dubbi) è la presenza degli audio nei quali lo spettatore può ascoltare le parole che l’arbitro, i collaboratori di campo e gli uomini al controllo video si sono scambiati durante la valutazione dell’episodio in esame. Secondo il presidente degli arbitri Carlo Pacifici, questo è: «Un momento storico che consentirà al mondo arbitrale di aprirsi sempre di più in un’ottica di trasparenza».

Quindi lo scopo iniziale, in buona fede, sarebbe stato quello di accorciare la distanza tra la classe arbitrale e il pubblico, togliere spazio alle molteplici teorie del complotto che i tifosi di ogni squadra sono in grado di articolare. In maniera forse utopistica l’idea era di poterci trovare – forse sul tema più divisivo in assoluto: il calcio – tutti d’accordo. O quantomeno capirsi.

Dopo poche settimane di programmazione, però, l’impressione è che alcuni degli episodi mostrati abbiano contribuito a confondere ancora di più le idee degli appassionati riguardo a vari aspetti del rapporto tra il direttore di gara e il VAR. In particolare si è fatta confusione circa il potere discrezionale dell’arbitro e le possibilità di intervento del VAR.

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Se l’esperimento doveva diffondere una maggiore cultura, aiutare i tifosi a comprendere meglio i processi decisionali dei direttori di gara e creare maggiore indulgenza nei loro confronti, almeno per il momento Open VAR pare aver mancato i suoi obiettivi.

Un esempio più controverso degli altri

Uno degli episodi più controversi è andato in onda lo scorso lunedì sera. Allo juventino Kean l’arbitro Feliciani, con il supporto del VAR e del fuorigioco semiautomatico, annulla un gol. Una voce nella clip, probabilmente dell’assistente al VAR Abbattista, dice che c’è una segnalazione di un probabile fuorigioco ancora prima che l’azione finisca. Il VAR Nasca chiede la revisione delle immagini, si torna indietro al momento in cui il sistema del fuorigioco semiautomatico ha rilevato un’anomalia. Nasca verifica tre fotogrammi: quello in corrispondenza della segnalazione, quello precedente e quello successivo.

Osserva con particolare attenzione il momento del rilascio del pallone calciato da Bremer. Nasca chiede ad Abbattista quale frame dovrebbe considerare, perché in uno, quello segnalato dal sistema, il fuorigioco c’è; nell’altro, il fuorigioco non c’è più. Il VAR e il suo assistente decidono di confermare la decisione del sistema: il gol è da annullare.

Ad aver colpito i tifosi è l’aspetto discrezionale su un frangente del gioco, il fuorigioco, che tutti consideravamo oggettivo. Il fuorigioco semiautomatico è, per l’appunto, non completamente automatico. Cioè il sistema computerizzato che analizza le immagini dal vivo segnala una possibile infrazione. È il VAR che decide se confermare o meno la segnalazione, se analizzare l’azione da un fotogramma diverso rispetto a quello scelto dalla macchina. Il sistema non è completamente autonomo, ha sempre bisogno dell’intervento umano. Serve la discrezionalità.

Un problema che a me ha colpito di più – deviazioni da ingegnere – è l’aspetto tecnologico della questione. Pierluigi Pardo, l’host di DAZN in studio, ha parlato di una quantità di immagini prodotte dalle telecamere a disposizione del VAR ben precisa: 24 fotogrammi al secondo. Facciamo un esempio pratico. Immaginiamo un pallone calciato da sinistra a destra, in modo esattamente perpendicolare rispetto all’inquadratura della telecamera, supponiamo che il pallone viaggi alla velocità di 50 chilometri orari, più o meno 14 metri al secondo: nelle ipotesi descritte da Pardo, tra un fotogramma e l’altro c’è una differenza di 58 centimetri, un mezzo metro abbondante che nel caso di una chiamata per fuorigioco non è esattamente una differenza da poco.

In realtà le telecamere installate negli stadi fanno anche meglio di così: i fotogrammi registrati per ogni secondo sono cinquanta. Nel nostro esempio di prima questo significa che in fotogrammi successivi il pallone è in due posizioni differenti, distanti tra loro 28 centimetri. Resta una distanza sostanziale, che può cambiare l’esito di una decisione.

Si può investire sulla tecnologia, installare telecamere più costose, che registrano ancora più fotogrammi, ma prima o poi si raggiungerà comunque un limite tecnologico e una differenza tra i frame, seppur piccola, ci sarà sempre. In altre parole una chiamata per fuorigioco valutata in tv non sarà mai oggettiva per costruzione. Fa bene il VAR a non fidarsi fino in fondo del sistema, a considerare altri fotogrammi al posto di quello che viene offerto per primo dalla macchina. Ma a quel punto è l’uomo che fa la scelta.

Oltretutto con le attuali regole il fuorigioco va considerato dal momento del “primo contatto” tra il piede del compagno che effettua il passaggio e la palla, ma in questo caso sembrano prendere in considerazione il momento in cui la palla si stacca dal piede, forse perché non esiste un frame che mostra l’esatto momento in cui avviene il primo contatto. In ogni caso, non è anche questa una scelta soggettiva? In fondo anche i regolamenti si possono discutere e cambiare (e infatti cambiano in continuazione).

In questo caso, con Kean che parte appena dietro il marcatore e deve superarlo per raggiungere il pallone, ci si può anche chiedere quale tipo di vantaggio possa aver tratto, anche ammesso che parta in fuorigioco. Non è forse il caso di riconsiderare l’applicazione del fuorigioco di rientro in toto? Un episodio simile costò al Manchester City l’accesso alle semifinali di Champions League nel 2018. Per il momento è meglio lasciar perdere la revisione del libro delle regole, ma va tenuto conto anche della natura dei regolamenti sportivi, oltre che della loro applicazione rigida.

Secondo me il problema più grande è su un altro piano. Perché dobbiamo fidarci della discrezionalità del VAR? Non potremmo fidarci di quella dell’arbitro? Il VAR in fondo è nato per assistere l’arbitro, correggere le decisioni sbagliate. Ma la sua invasività ha finito fatalmente per condizionare l’operato del primo arbitro e quasi subito ha mosso dei dubbi su chi fosse davvero in comando (d'altra parte, noi li avevamo sollevati già nel 2017).

Anche Carlo Ancelotti, nel 2019, aveva centrato il punto.

Arbitri e media hanno gli stessi interessi?

Il VAR doveva omogeneizzare le decisioni tra i campi, riducendo la discrezionalità dell’arbitro, invece non ha fatto altro che raddoppiare quella discrezionalità. Non abbiamo l’uniformità di giudizio tra i diversi match di una giornata di campionato che il VAR aveva promesso, e a me sembra che non ci sia più neanche all’interno della stessa partita. Non sarebbe più semplice, ad esempio, lasciare che l’arbitro decida da sé, guardando gli episodi al monitor in autonomia e senza alcun condizionamento; richiamato non più dal VAR, ma dai due allenatori che richiedono un approfondimento, un challenge come avviene già nel tennis e nella pallavolo? Si può parlare pubblicamente di modifiche di questo tipo oppure la presenza istituzionale della classe arbitrale sui palcoscenici in TV è limitata a discussioni dall’alto verso in basso? Quanto è aperta veramente la classe arbitrale?

In queste poche settimane di prova ci sono stati anche altri episodi altrettanto contestati, tra quelli discussi in TV. Sembrerebbe che l’operazione Open VAR stia alienando le simpatie dei tifosi verso la tecnologia ancora di più. Mi sono chiesto se i dirigenti arbitrali sono consapevoli dell’effetto che stanno ottenendo, contrario a quello che avevano desiderato. Magari hanno sottovalutato la portata che un esperimento del genere poteva avere in TV. Per non parlare poi del corto circuito innescato dai social. Non serve a niente ritardare la messa in onda delle immagini di una settimana se poi generano comunque un tale livello di frustrazione nei tifosi.

La frustrazione genera rabbia, che a sua volta genera interazioni sui social. La rabbia aiuta a vendere i prodotti e quindi fa il gioco dei broadcaster che, seppur in buona fede, non condividono del tutto gli obiettivi della classe arbitrale e decidono cosa mandare in onda e in che modo per incrementare le visualizzazioni. Gli arbitri erano consapevoli di cosa andavano ad affrontare, di come funziona la discussione su questi temi nei media e nei social?

In Inghilterra non ne possono già più

Il nostro non è l’unico movimento calcistico che sta facendo i conti con il VAR e la sua invasività nel gioco. Il VAR in Inghilterra è da sempre trattato come un ospite sgradito, qualcosa che prima o poi toglierà il disturbo. Quest’anno in Premier League il bubbone che covava da tempo è esploso. Nell’ultimo Tottenham-Liverpool è stato annullato un gol validissimo a Luis Diaz per una banale incomprensione tra l’arbitro e il VAR.

Gli uomini da remoto si accorgono che qualcosa nella comunicazione radio con il direttore di gara non è andata a buon fine quando ormai il gioco era già ripreso. Da protocollo non si poteva più tornare indietro, ma in campo era avvenuta una colossale ingiustizia sportiva. Nella clip condivisa poi dalla federazione (anche qui nel tentativo ingenuo di smorzare le polemiche) si nota come il VAR si soffermi sulla scelta del frame, così come avviene da noi.

In conferenza stampa, Jurgen Klopp ha chiesto di rigiocare la partita. Allora, pochi giorni dopo, il Wolverhampton ha mostrato sul proprio account TikTok le immagini di un torto arbitrale subìto con il Liverpool in FA Cup, suggerendo l’opportunità di un replay anche per quella partita. Mikel Arteta, dopo la sconfitta patita in Newcastle-Arsenal, ha detto che il gol convalidato dal VAR tra le proteste è: «Una vergogna assoluta». Ange Postecoglou, dopo un Tottenham-Chelsea in cui dal punto di vista arbitrale è successo di tutto, ha sostenuto che il VAR non fa altro che ridurre l’autorità dell’arbitro.

In Inghilterra si ritrovano, dopo l’introduzione del VAR, con un livello del dialogo sportivo che per noi magari è normale, ma che prima di oggi era inedito alle loro latitudini. Jonathan Liew sul VAR ha scritto: "Gli abbiamo dato tempo. Si doveva tentare. Ora però è tempo di ammettere che la soluzione migliore è eliminarlo. Buttarlo via. Troppe polemiche, troppi battibecchi inutili, troppo cattivo sangue e malafede".

«Ogni settimana c’è gente che esamina tutto dettagliatamente per assicurarsi che le loro decisioni siano corrette e alla fine siamo tutti scontenti lo stesso».

La solita questione sulla “natura del gioco”

Postecoglou tocca un altro punto caro al pubblico inglese: le attese imposte dalle verifiche al VAR sono snervanti e spezzano il fluire naturale del gioco. Forse in Italia percepiamo di meno questa differenza, mentre in Inghilterra sono maniaci dell’intensità, ne hanno fatto un marchio di fabbrica: la Premier League cerca di vendere sul mercato mondiale un certo tipo di prodotto e il VAR glielo cambia sotto al naso.

Ma al di là dei problemi del marketing del campionato inglese c’è anche tutta la questione delle esultanze posticipate o strozzate in gola dai tempi tecnici dei check VAR. L’emotività del tifo è parte stessa del gioco: se la mortifichiamo, cosa resta? Quale è il punto in cui, semplicemente, smette di essere divertente?

Mi importa di sottolineare un ultimo aspetto, quando si parla di arbitri e di VAR. È un problema vecchio di decenni, di quando è stata introdotta la prima moviola televisiva nel 1965. Un’azione avviene davanti ai nostri occhi, un secondo dopo il pallone si sposta, succede dell’altro: quell’azione non esiste già più, è immagazzinata da qualche parte nel nostro cervello sotto forma di ricordo. La memoria lavora incessantemente: nel momento in cui riceviamo un’informazione, questa non resta fissa nella nostra testa, ma viene modificata di continuo, minuto dopo minuto. Dov’è la verità in quello che è successo sul campo? Nel corpo dell’arbitro, nelle sensazioni che ha ricevuto in campo? Nella sua testa, nelle anidrasi carboniche o in un altro processo chimico che sintetizzano un ricordo?

È una questione di realtà e della sua rappresentazione: la dinamica di quel che è successo in campo può essere valutata solo da chi sta in campo. Anzi, direi che per assurdo non può essere valutata completamente nemmeno da chi è in campo, perché come detto la rielaborazione di quel che percepiamo attraverso i sensi parte istantaneamente. E però, più ci allontaniamo da quell’istante fatale e più siamo distanti dalla verità: il campo è la migliore approssimazione possibile e l’arbitro è l’uomo più vicino al vero. Le immagini rallentate in retrospettiva appartengono a un’altra realtà, raccontano un’altra storia.

Ha senso questa ricerca di una verità astratta, pura, libera dal contesto del campo, in uno sport in cui la discrezionalità è necessaria? Non sarebbe più semplice ammettere che l’arbitro può sbagliare in buona fede; e magari lavorare sulla nostra cultura e smettere di vivisezionare i fotogrammi di ogni azione controversa; interrompere la continua costruzione di archivi di torti arbitrali subìti da tirar fuori alla bisogna?

Non ci si può arrendere all’evidenza che il calcio è un gioco ormai troppo complesso, troppo veloce, con troppi interessi in ballo, per essere governato da uno, quattro, sei persone in divisa da arbitro? In fondo, se si è così convinti che nel calcio ci sia del marcio dappertutto, perché continuare a guardarlo?

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