Descrivere uno stadio come un teatro è una metafora pigra ma esatta. C’è uno spettacolo sportivo che “va in scena” e una divisione tra campo e spalti, palco e platea, che dal punto di vista della costruzione architettonica è cristallina. La luce, naturale o artificiale, illumina il terreno di gioco, dove i calciatori delle due squadre, attori protagonisti, antagonisti e secondari, sono pronti a eseguire il loro copione tattico mentre la quaterna arbitrale e gli allenatori gli ronzano intorno e in mezzo. Fuori campo ci sono i tifosi, spettatori che improvvisano gesti di approvazione o disappunto a seconda degli input dati dal campo, dello sviluppo degli eventi e delle prestazioni dei calciatori che amano o detestano.
A parti invertite, la stessa metafora è stata messa in scena due settimane fa in uno spot della Lega Serie A intitolato “Calcio is back! Semifinals Edition” creato per celebrare il passaggio delle cinque squadre italiane alle semifinali delle tre coppe europee. Un video in cui non è lo stadio che si fa teatro, ma il teatro che si fa luogo dove vedere il calcio, stadio. Lo spot, girato al teatro Romolo Valli di Reggio Emilia, ha l’atmosfera tipica delle grandi serate d’opera, solenni e regali, e tre protagonisti famosi. Sotto le note del “Nessun Dorma” di Giacomo Puccini, Fabio Capello cammina tra le file di poltrone di velluto rosso accarezzandole con la mano sinistra, sembra un regista soddisfatto del lavoro che ha fatto. Capello si rivolge in inglese a Fabio Cannavaro - are you ready? L'ex difensore napoletano, posto in un loggione, impersonifica un operatore pronto ad accendere un proiettore cinematografico - yes, i’m ready. C'è anche Luca Toni, posto sul palco, fa aprire il sipario come un presentatore - here we go. Sullo schermo del teatro - e sul nostro - partono gli highlights di alcune partite della Serie A mentre una voce impostata declama in inglese la portata dell’evento storico: «For the first time in history…».
È una scena dall’estetica kitsch per via della relocation, non più metaforica ma reale,che confonde regalità del contesto, figure nostalgiche, immagini e parole che vogliono sottolineare una sorta il rinascimento, o presunto tale, della Serie A. Nell’ultima inquadratura del video i tre si rivolgono verso la macchina da presa, verso di noi, con la volontà di convincerci che effettivamente «calcio is back», come dice Capello.
Da notare la differenza di stile tra i tre: ai lati, camicia col primo bottone slacciato, Toni e Cannavaro sorridono - sì, Toni fa anche la sua famosa esultanza. Al centro, Capello, serissimo e incravattato, fulmina con lo sguardo lo spettatore: prova ora a negare che calcio is back.
Il video tenta di creare un effetto nostalgico forzato, un ricordo intimo e generazionale del passato attraverso la creazione di parallelismi emotivi tra quella che viene definita come la golden age della serie A e le ultime settimane vissute. Ci sono i campioni di una volta, c’è la volontà di far sentire che si è tornati ai fasti di quei tempi. Sono passati tanti anni, eppure la memoria non è da disincrostare, non è ricoperta di uno strato di polvere come potrebbe essere quello presente sulle poltrone di un teatro chiuso per decenni. La rievocazione è tutta concentrata nei tre protagonisti, personaggi che ai nostri occhi devono sembrare usciti da un surgelatore dei ricordi ed essere posti in uno spazio lustrato per far resuscitare nel nostro ventre le stesse sensazioni positive del passato. È come se ci dicesse:spettatore, guarda che il passato è qui, è tornato, è il presente, e si merita una cornice ancora più prestigiosa, teatrale.
L’ultimo derby a San Siro di Champions
Nel gergo giornalistico il parallelismo più utilizzato tra teatro e stadio è proprio quello che riguarda San Siro, spesso chiamato nelle cronache radiotelevisive e negli articoli di giornale la Scala del calcio. Di quale sensazione si può parlare quando, a distanza di sei giorni, le due squadre della stessa città s’incontrano nelle due partite che garantiscono l’accesso alla finale della competizione per club più importante del mondo? Quale sensazione si prova quando i ricordi delle semifinali del 2003 e dei quarti del 2005 tornano a galla come estasi per i tifosi milanisti e tormenti per i tifosi interisti, che videro entrambe le volte la loro squadra eliminata?
Se dei derby del 2003 ci si ricorda per i due pareggi, per il gol di Shevchenko in trasferta, per quello di Martins e per la parata di Abbiati su Kallon; degli altri due ci si ricorda principalmente per la quantità di oggetti lanciata in campo dalla curva nord interista, che indusse l’arbitro Markus Merk a sospendere la partita di ritorno. Come in un gioco di ruolo, la sera del 12 aprile 2005, una sera da tardo impero calcistico italiano, i tifosi divennero coloro verso cui guardare e i calciatori gli spettatori di ciò che stava avvenendo intorno. È come sela forma dello stadio San Siro si fosse capovolta, rovesciando, in un incrociarsi di sguardi, il campo e gli spalti.
L’Inter arrivò al derby di ritorno dopo aver perso 2-0 l’andata in una stagione imbevuta di pareggi (prima del doppio confronto erano già sedici in campionato) e gol di Adriano. Il Milan, perso Inzaghi per infortunio, si affidò alla coppia Shevchenko-Crespo per provare a rivincere lo scudetto. Al momento delle sfida erano rispettivamente terza e seconda in campionato dietro la Juventus.
Riguardando gli highlights della partita più che nostalgia si prova stupore per la ruvidezza dei contrasti, durissimi fin dai primi minuti di gioco, e ansia per la tensione emotiva che tirava i visi dei calciatori levigandoli. Tra le due squadre non c’è alcuna attesa tattica, si nota piuttosto una dinamicità caotica che le allunga, le sfilaccia, portandole spesso a compiere errori. Gli interventi difensivi sono le giocate che si notano maggiormente. Tra il terzo e l’undicesimo minuto si fanno ammonire prima Kily Gonzalez per un’entrata in ritardo su Andrea Pirlo a metà campo, poi Massimo Ambrosini per un’entrata scomposta sullo stesso giocatore dell’Inter, infine Ivan Cordoba per un’altra entrata in ritardo, stavolta su Kakà davanti l’area di rigore. Di fronte a questi tre interventi, tutti quelli che compie Jaap Stam hanno una pulizia tecnica e una superiorità fisica che mette i brividi. In particolare, quelli su Adriano tra il ventiseiesimo e il ventisettesimo sono esemplari: nel primo, dopo essere stato puntato sulla trequarti di difesa, lo anticipa scagliando il pallone cinquanta metri più avanti, nel secondo recupera il pallone dopo un contrasto spalla a spalla sulla linea sinistra dell’area di rigore.
Al ventinovesimo il Milan passa in vantaggio. Da poco fuori l’area di rigore, con una «compostezza bio-meccanica impeccabile» Andryi Shevchenko tira di collo interno il pallone, che passa nello spazio tra tre calciatori dell’Inter e uno del Milan ed entra in porta a mezz’altezza sul secondo palo. Rivedendo l’azione al replay ciò che impressiona sono i movimenti di Shevchenko, la sua coordinazione braccia-gambe sia nel momento in cui carica il tiro sia nell’attimo dopo, quando il suo corpo scarica l’energia dell’impatto col pallone facendolo sembrare un ballerino di danza neoclassica, una figura la cui perfetta armonia potrebbe essere forgiata su una moneta. Essendo il Milan in trasferta il gol vale doppio.
Su un tiro di sinistro di Kily Gonzalez, Dida al trentaduesimo devia il pallone in calcio d’angolo distendendosi a mano aperta alla sua destra con una naturalezza atletica disarmante. Cinque minuti dopo Kakà punta Cordoba a metà campo con una delle sue accelerazioni dalle proprietà ineluttabili. Il difensore pianta le gambe nel terreno come fossero due tronchi d’albero di fronte a un torrente in piena e riesce a bloccare regolarmente Kakà facendolo cadere a terra. Al sessantanovesimo Dida ripete l’intervento del primo tempo tuffandosi alla sua sinistra su un tiro di destro di Andy van der Meyde. Dal calcio d’angolo seguente nasce l’episodio che scatena i tifosi interisti: sul cross a mezz’altezza Dida manca l’intervento ed Esteban Cambiasso anticipa Cafu segnando il pareggio. L’arbitro Merk ravvisa però un fallo di Julio Cruz sul portiere e annulla il gol. Cambiasso protesta, agita per due volte la mano sinistra davanti al viso di Merk che proferisce soltanto uno «stop» e lo ammonisce.
Di Inter e Milan abbiamo parlato on alcuni tifosi delle due squadre in 1 vs 1, uno dei podcast riservati agli abbonati de L'Ultimo Uomo. Se volete abbonarvi, potete farlo a questa pagina.
Il lancio di oggetti da parte della curva nord comincia poco dopo, in parte contro la decisione arbitrale, in parte contro i giocatori della propria squadra, colpevoli di una stagione al di sotto delle aspettative. In campo arrivano bottigliette d’acqua, accendini, contenitori di Borghetti e poi i bengala. Mentre alcuni calciatori parlano con l’arbitro a distanza, Dida, situato sotto la stessa curva e poco curante del contesto in divenire, cerca di pulire l’area di rigore raccogliendo alcuni degli oggetti lanciati. Un mortaretto batte sulla spalla destra del portiere che cade a terra con la mano sinistra poggiata sulla parte colpita. In pochi secondi si rialza e scortato da Cafù, Stam e un medico, si avvicina velocemente ai compagni di squadra. Pochi giorni dopo, a dispetto di tutte le successive e fantasiose teorie sulla correlazione tra colpo subito e calo delle prestazioni, dirà: «Di quell’incidente mi resta una bruciatura alla spalla, un ematoma, un dolore che sta passando e tanto dispiacere – spiega – è stato un danno per lo sport mondiale, il derby lo hanno visto in tutto il mondo. Quel bengala ha fatto più male al calcio italiano che a me». Il cronometro del tempo di gioco scompare dalle immagini e viene sostituito dall’attesa sul da farsi. Vediamo i pompieri cercare di liberare l’area di rigore da una dozzina di bengala rossi. Nel frattempo i calciatori rientrano negli spogliatoi attraverso il vecchio ingresso, posto proprio sotto la curva nord su cui campeggia uno striscione dal chiaro riferimento bellico: «Obiettivo: distruggere le armate rossonere e conquistare l’Europa». I calciatori rientrano in campo, Abbiati sostituisce Dida, ma i lanci continuano. Dopo pochi minuti Merk decide di sospendere definitivamente la partita. Sarà 3-0 a tavolino.
Fotografie dalla fine
Da centro della scena, il campo si è trasformato in un cimitero di fuochi d’artificio e nel punto privilegiato da cui osservare la contestazione. Di quei minuti in cui i calciatori rimangono in campo con lo sguardo rivolto verso la curva rimangono alcuni scatti iconici che hanno come protagonisti Materazzi e Rui Costa. Tra le varie fotografie, che sono quasi tutte di spalle, ce ne sono tre in campo medio che danzano tra la documentazione del momento sportivo e la bellezza artistica.
Nella prima, la meno conosciuta, Rui Costa si rivolge a Materazzi, gli sta dicendo qualcosa. Forse sta parlando della partita appena finita, forse della protesta. Sono a metà campo mentre lo sfondo è completamente coperto dalla nebbia rosata provocata dal consumarsi dei bengala che intanto bruciano l’erba. La loro posa è differente.
Uno ha la maglia dentro i pantaloncini, l’altro ce l’ha fuori, entrambi hanno gli scarpini che riprendono alcuni dei colori che indossano. Materazzi, nella sua divisa che ricorda quella bellissima con cui l’Inter vinse la Coppa UEFA 1998, è un corpo scultoreo che guarda verso i fumogeni, sembra carne umana inanimata poggiata sul prato, con le braccia perfettamente speculari poggiate sui fianchi e una buona quantità di bracciali che fascia i polsi. Rui Costa ha entrambe le mani all’altezza del petto e i calzini bloccati all’altezza degli stinchi da un nastro adesivo rosso. Il suo è ancora un corpo vivo, non anestetizzato dal contesto, capace di essere ancora senziente.
Nella seconda fotografia i due calciatori sembrano su un piano differente rispetto alla realtà, alienati dal mondo e distaccati tra di loro. Sembrano due figure all’interno di un dipinto di Caspar David Friedrich. Inglobati nel paesaggio artificiale, tra i loro corpi si crea uno spazio a V che invece di avvicinarli li allontana: Materazzi guarda verso il lato sinistro del campo, si distrae dal fulcro della scena, la nuca di Rui Costa sembra puntare verso la porta che è leggermente alla sua destra.
Sono entrambi in attesa, l’uno intento a guardare qualcosa che è nel fuoricampo della foto, nello spazio e nel presente, l’altro, con le braccia conserte, di qualcosa che proviene da un altro tempo, dal futuro, l’esaurimento dei fuochi. Il colore del fumo crea un effetto tramonto mentre i bengala lanciati sul campo sembrano dei soli incapaci di scendere sotto la linea dell’orizzonte. La nebbia artificiale si sta diradando.
Due uomini in riva al mare, di Caspar David Friedrich
Se guardiamo solo lo sfondo sembra che queste fotografie provengano da uno scenario bellico, con il campo di San Siro bombardato con violenza dai bengala. La forma della contestazione è tutta concentrata lì, delegata alla nebbia e al fuoco. L’ultima fotografia è la più famosa. Stefano Rellandini, il fotografo di Reuters che l'ha scattata, ha spiegato in molte interviste la genesi dello scatto. I due corpi sono ancora lì, in primo piano, si sono di nuovo avvicinati, si toccano, sono accoglienti l’uno con l’altro. Materazzi ha il gomito destro poggiato sulla spalla sinistra di Rui Costa, con la mano gli sfiora il braccio mentre guardano insieme e in silenzio le luci dei fuochi. Non è uno scontro di gioco, è un contatto pelle a pelle che travalica i colori delle divise, che spoglia Materazzi e Rui Costa della rivalità. La loro è pura osservazione passiva della protesta: due amici che non possono fare nulla se non indugiare nel finale della partita che arde in modo inaspettato, spettacolare. Come ha scritto James Horncastle su The Athletic è come se stessero bevendo assieme uno spritz in un bar di Milano. Non essendoci un controcampo della foto in grado d'inquadrare i loro visi, le emozioni che provano sono tutte sedimentate nei loro corpi. Il presente li cattura dal contesto puramente sportivo, abbassa il pathos emotivo del momento. Forse si stanno chiedendo se siano state le loro prestazioni, insieme a quelle dei compagni, a provocare tutto ciò.
Quella sera Materazzi e Rui Costa hanno rovesciato il loro status canonico: non hanno solo fatto parte della partita ma hanno assunto la posa degli spettatori, persone che guardano verso gli spalti invece di essere guardate dagli stessi, che ammirano invece di essere ammirate, che per pochi istanti vedono bruciare la fine di una storia. La contemplano, come Tyler Durden e Marla Singer nell’ultima inquadratura di Fight Club.