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Antonio Cunazza
Breve storia della decadenza del San Paolo
03 ott 2018
03 ott 2018
Dopo una storia travagliata, che ne ha frainteso il valore architettonico, lo stadio napoletano è oggi in pessima salute e senza prospettive di rilancio.
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Antonio Cunazza
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Uscendo dalla fermata della metropolitana “Campi Flegrei”, e superato l’edificio razionalista a pianta circolare della Stazione di Mostra (1940), il San Paolo è ancora nascosto da un filare di alberi che fanno appena intravedere l’ossatura metallica della copertura – croce e delizia ereditata dalla ristrutturazione per i Mondiali 1990. Poi, dopo qualche passo, lo stadio si rivela: un gigante di marmo, muratura e ferro, tanto imponente quanto visibilmente in degrado. Incute un senso di timore reverenziale e, al contempo, di forte sconforto. Racconta di un passato scintillante, di un presente precario e, per il momento, di un futuro ancora incerto.

 



Il giorno dell’inaugurazione, il 6 dicembre 1959, il San Paolo si chiamava ancora “Stadio del Sole”. E, in effetti, il sole splendeva nel cielo nonostante fosse già inverno, mentre il Napoli batteva la Juventus per 2-1 con reti di Vitali e Vinicio, mentre un rigore di Cervato per gli ospiti solo nel finale sigillava definitivamente il tabellino.

 

Era un impianto

, senza copertura e dal sapore sudamericano, con quel secondo anello continuo che abbracciava e dominava il campo, a cui faceva da contraltare il primo anello, più piccolo e in parte sovrapposto al suo gemello superiore. A tener fede al progetto originale, firmato dal team guidato dall’architetto razionalista Carlo Cocchia (in cui spiccava la figura del giovane architetto Gerardo Mazziotti), il secondo anello sarebbe dovuto essere l’unica gradinata dello stadio. Ma la capienza si sarebbe fermata a 40.000 posti e l’allora patron del Napoli, nonché sindaco della città, Achille Lauro, pretese l’aggiunta del livello inferiore, per portare così il totale a 60.000 posti.

 

All’epoca soltanto una piccola cancellata spezzava la spianata del piazzale antistante lo stadio, che si elevava in tutta la sua rigida bellezza brutalista. I 56 costoloni esterni in cemento armato segnavano e suddividevano l’esterno della struttura come lame verticali, a cui facevano da contraltare le rampe delle scale d’accesso, che formavano una trama orizzontale di linee geometriche incrociate a ingannare l’occhio del visitatore. All’interno, le gradinate erano in marmo travertino, e la capienza effettiva massima, con i tifosi in piedi, superava quota 70.000.

 

Poi il Napoli di Maradona e gli anni dello scudetto, che crearono l’epica dello Stadio del Sole – che intanto era stato intitolato al Santo il quale, secondo le Sacre Scritture, attraccò sulla costa di Fuorigrotta durante un viaggio che lo condusse da Malta a Roma. Il fuoriclasse argentino che sale le scalette

e arriva sul campo, il 5 luglio 1984, accolto da grappoli di palloncini biancazzurri e dall’entusiasmo di 60.000 persone. E, infine, i Mondiali di “Italia ‘90”, che cambiarono per sempre il volto dello stadio.

 





 

L’aggiunta della copertura in policarbonato traslucido, decisa

più che per obblighi FIFA, stravolse completamente la percezione dello stadio e il senso principale della sua architettura. Nel 1988 il progetto iniziale dell’architetto Fabrizio Cocchia, figlio di Carlo, e dell’architetto Giuseppe Squillante, prevedeva una sorta di velario molto leggero nell’aspetto, e ancorato all’esterno da pochi elementi verticali metallici. Ma gli interessi in gioco erano altri,

che sottolineava il prezzo del ferro al chilo: dagli iniziali 2 milioni di kg del progetto Cocchia-Squillante, la struttura

.

 

Fu realizzata una pesante gabbia metallica, firmata dall’ingegnere Luigi Corradi, che nascose quasi del tutto lo stadio originale, issata su 33 pilastri reticolari e con l’aspetto ingombrante di un’impalcatura temporanea più che di un elemento in armonia con l’esistente. Costò da sola 15 miliardi di lire (all’interno di un restyling che ne doveva costare 12, e che invece superò complessivamente i 200) e creò più problemi che benefici, provocando la diminuzione del passaggio dell’aria e della luce verso l’interno e sul terreno di gioco. A ciò si aggiunse la malaugurata idea del “terzo anello”, che ebbe vita breve e fu chiuso al pubblico per problemi di stabilità ed effetti statici negativi che si propagavano dai piloni della copertura fino alle abitazioni del quartiere.

 



Le Corbusier, architetto e urbanista francese, fra i maestri del Movimento Moderno, in uno dei suoi saggi sulla rivista parigina “L’Esprit Nouveau” (1920-1925) – poi raccolti nel volume “Verso un’architettura”, del 1923 – scrisse che: «L’architettura è un fatto d'arte, un fenomeno che suscita emozione, al di fuori dei problemi di costruzione, al di là di essi. La Costruzione è per tener sù. L'Architettura è per commuovere». Per quanto sia complicato traslare di quasi un secolo i pensieri di Le Corbusier, attualizzandoli al contesto contemporaneo, non è sbagliato prenderne spunto per capire che un giudizio netto sull’impianto partenopeo non è possibile.

 

Oggi lo Stadio San Paolo è monumento di se stesso. Ma per quanto lo si possa criticare per lo stato in cui versa – frutto di una gestione svogliata e assente da parte dell’amministrazione, di fortune calcistiche alterne del Napoli negli ultimi vent’anni e di un rapporto quasi mai costruttivo fra la città e la presidenza del club – allo stesso tempo non si può non ammirarlo per ciò che rappresenta e ha rappresentato, contribuendo a creare un’immagine di passione sportiva che ha pochi eguali nel mondo.

 

Non è soltanto la copertura a rappresentare un problema per lo stadio. I parcheggi sotterranei sono l’altro elemento critico della struttura al quale, per ora, non esiste rimedio. Costruiti anch’essi per i Mondiali ‘90, e costati da soli 60 miliardi di lire, si sono immediatamente trasformati in un incubo logistico. Il Comune di Napoli non ha mai indetto il bando di gestione e manutenzione rivolto a figure private e, fin da subito, i luoghi nascosti nella pancia del San Paolo – che avrebbero potuto ospitare fino a duemila automobili – sono diventati simbolo del degrado dell’intero stadio.

 

Tra realtà e leggende, i parcheggi sotterranei del San Paolo sono letteralmente terra di nessuno da quasi trent’anni: da rave abusivi a presunte messe nere, da luogo di fugaci incontri sessuali a ritrovo fisso della delinquenza locale e dei senzatetto, non si contano più le volte in cui sono state effettuate opere di muratura forzosa e chiusura dei varchi d’ingresso, prontamente neutralizzate da fori e passaggi di fortuna aperti negli angoli e nelle grate da chi cerca il buio come riparo per le proprie attività clandestine.

 

Lo stesso sottopassaggio di Via Claudio, che corre lungo gli ingressi al parcheggio, è più un salto nell’oscurità che un tratto urbano tradizionale – e la poca illuminazione ha spesso facilitato chi voleva introdursi nei locali interni dello stadio, qualche volta addirittura per creare cunicoli d’accesso fino alle curve e poter introdurre qualunque cosa nello stadio, bypassando i controlli. Si è anche perso il conto di quante volte sia stato manomesso il circuito di videosorveglianza, da quella prima volta nel 1995 che portò all’annullamento dell’amichevole Napoli-Dinamo Bucarest.

 





 

All’esterno, poi, l’architettura severa e imponente dello stadio ormai si intravede appena. L’anello di barriere e grate ereditate dal decreto Pisanu dovrebbe servire per le operazioni di pre-filtraggio, ma purtroppo, da un punto di vista architettonico, finisce per essere l’ennesima gabbia metallica che avvolge e degrada l’aspetto dell’edificio. Così come lo sono tutte le altre sovrastrutture addossate negli anni, come il piano rialzato con locali di servizio accessori e le rampe di scale metalliche che si collegano con quelle esistenti.

 



Una soluzione percorribile per riportare il San Paolo nella sua veste migliore potrebbe essere la demolizione della copertura, del terzo anello e della gabbia sui cui poggia. Un’eventualità, questa, però molto costosa e di difficile soluzione – se è vero che sarebbe anche complicato trovare un soggetto pronto ad accollarsi lo smaltimento del ferro in esubero. A questo andrebbe aggiunto l’investimento per ristrutturare completamente il parcheggio sotterraneo, rimettendolo in funzione, oltre che per ammodernare i servizi interni, i seggiolini e tutte le parti dello stadio attualmente in degrado. In ultimo, riprendere in mano il progetto della copertura-velario pensata da Squillante nel 1988, restituendo lo stadio alla sua idea estetica originale con un elemento in completa concordanza e rinnovata utilità.

 

Purtroppo ogni idea di rinascita del San Paolo passa inevitabilmente per lo scontro dialettico che anima da anni i rapporti fra il Comune di Napoli e la presidenza del club, nella persona di Aurelio De Laurentiis. La gestione ordinaria dello stadio (nel quale il Napoli gioca in affitto “annuale” dal 2016, quando è scaduto il contratto di convenzione mai rinnovato) diventa ancora più complicata, e aggravata da interventi sempre più blandi da parte della municipalità – come in tantissimi altri stadi di proprietà comunale, in giro per l’Italia – e rattoppata da pochi lavori straordinari ad hoc, come l’ultimo ammodernamento in vista delle Universiadi 2019.

 

L’idea, invece, di un nuovo stadio, con capienza dimezzata rispetto al San Paolo, più volte ribadita dal patron del club azzurro, resta per il momento solo un’utopia, e finirebbe per aggravare ulteriormente la situazione del gigante di Fuorigrotta, trasformandolo in un monolite inutilizzato nelle mani del Comune, dal canto suo impossibilitato a gestirlo con le dovute attenzioni.

 





 

Il paradosso del San Paolo è esempio cardine di quanto uno stadio, inteso come edificio e come elemento costruttivo di ingegneria civile, racchiuda in sé due anime perennemente in gara fra loro per prevalere: da una parte il significato architettonico e stilistico; dall’altra la memoria emotiva dei tifosi, che si rafforza stagione dopo stagione. A questo va aggiunto il fatto che il San Paolo è anche sede di attività sportive giornaliere che coinvolgono molti giovani e scuole, nelle sue palestre interne aperte al pubblico o sulla pista d’atletica attorno al campo, ed è quindi elemento fondamentale nella vita della città.

 

Al netto delle deroghe concesse dall’UEFA di anno in anno o dei piccoli interventi “migliorativi” fatti qua e là – che vanno ad aumentare il volume di spese a fondo perduto compiute negli anni, senza un progetto alle spalle – una risoluzione è necessaria. Sia sul piano edilizio che su quello sportivo, rinunciare al recupero del San Paolo sarebbe una sconfitta difficile accettare.

 

 

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