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(di)
Stefano Piri
San Kakà
03 mag 2016
03 mag 2016
L'ultimo pallone d'oro brasiliano, il campione borghese, l'uomo dalla fede incrollabile.
(di)
Stefano Piri
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“Ho un rapporto disincantato con il lusso. Forse perché provengo


da una famiglia borghese brasiliana, non ho grandi lacune da colmare.


Penso che siano altre le ricchezze importanti della vita”.


 

 

Quella di Ricardo Kakà, l’ultimo Pallone d’oro brasiliano, non è una storia di riscatto e non parte da una favela. Non inizia con un padre ex calciatore dilettante, gli occhi gialli e il ventre gonfio, non con una sfilza di fratelli di cui è difficile ricordare tuttli i nomi, non con una madre seduta all’ombra a riposare le gambe, con ciocche di capelli umidi che cascano sulla fronte.

 

Se non avesse fatto il calciatore, se la lotteria del talento non gli avesse riservato in sorte uno dei primi premi, o se più semplicemente giocare a calcio gli fosse piaciuto meno che studiare, l’aspetto di Kakà non sarebbe molto diverso. Avrebbe le stesse camicie ben stirate, i pullover stretti e sottili, i denti larghi e bianchi come tasselli di ceramica e l’abbronzatura da velista. Probabilmente guadagnerebbe  di meno, ma comunque guadagnerebbe molto sulla scala di quelli che non fanno i calciatori. Magari farebbe l’ingegnere come suo padre Bosco, che ha i capelli radi, gli occhi piccoli dietro le lenti degli occhiali e una vaga somiglianza con Papa Francesco. Oppure avrebbe studiato economia, o legge come tanti giovani brasiliani della sua generazione, e sarebbe finito lo stesso negli Stati Uniti, a lavorare per una

a Orlando o per qualche multinazionale. Avrebbe perfino la stessa intensa e conciliata religiosità da vincitore, devolverebbe comunque in beneficienza cifre non trascurabili e andrebbe in chiesa a ringraziare per la luce del mondo cosi com’è, nella sua imperfezione, nel peccato e nel disordine.

 

Kakà è un campione borghese, non soltanto per le origini della sua famiglia ma anche per la linearità e la pulizia del suo talento, e persino per la traiettoria della sua carriera, che si è impennata prestissimo e ha toccato l’apice a 25 anni, per poi proseguire su ritmi più compassati, in un declino lento ma non privo di prestigio: trova una cosa che sai fare bene, impara tutto quello che puoi evitando le complicazioni intellettuali non necessarie, dài tutto da giovanissimo in modo da farti presto una posizione e poi campa di rendita. Non è più o meno quello che ci insegnano nelle migliori università?

 

Non c’è traccia di conflitto, non c’è notizia di lotta con demoni propri o altrui, non c’è dolore visibile (perché la forza che ammiriamo negli atleti, è bene non dimenticarlo, è una forma estetizzata di resistenza al dolore) quando in una delle sue azioni straordinarie Kakà rovescia il pallone poco prima o poco oltre il centrocampo, tende i muscoli del collo in avanti come un rapace e supera senza sforzo due, tre, quattro avversari prima di prendersi il tempo per guardare bene la porta e spedire il pallone dove il portiere proprio non può arrivare. Viene da pensare che la fede di Kakà sia prima di tutto la gratitudine di un figlio prediletto degli dei, che ha avuto in dono un corpo perfetto e la luce sovrannaturale di chi quasi non conosce distanza tra idea e azione.

 

“A Gore Vidal manca la ferita” diceva Norman Mailer per accusare il suo carismatico, mondano e brillante rivale di non avere quell’esperienza diretta della sofferenza da cui sola può scaturire il genio artistico. Si direbbe che anche a Kakà manca la ferita, e questo forse è il motivo per cui, anche negli anni in cui faceva cose mai viste prima, non gli è mai riuscito di scatenare nei tifosi neutrali gli entusiasmi e l’identificazione di altri giocatori non necessariamente di maggior livello, ma di più forte narrazione.

 

La sofferenza è la fonte da cui sgorga la sensualità, per cui la straordinaria grazia e potenza del gioco di Kakà rimangono esperienze in qualche modo fredde, asettiche, e il giudizio nei suoi confronti è sempre stato in qualche modo meno affettuoso che nei confronti di altri. Dei grandi giocatori che soffrono (l’archetipo è Maradona, ma ognuno di noi ne ha in mente a decine) amiamo le tenebre quanto le luci, siamo disposti a perdonare le pause e gli errori come controparte indispensabile del loro riscatto. Da uno come Kakà e dal suo corpo da ginnasta, dalla sua anima liscia, ci aspettiamo sempre il massimo, e appena il suo livello si abbassa lievemente (al Real Madrid, e poi quando torna al Milan) perdiamo interesse e lo spediamo a giocare in Major League.

 

La sfacciata fortuna di Kakà è una medaglia a due facce, è la ragione del suo destino ma anche della sua caduta precoce. Kakà non è come noi, è sovrumano. La sua grandezza è stata senza limiti ma anche senza riposo, come un meraviglioso giardino senza ombra.

 

 



 

“I miei obiettivi erano arrivare nella prima squadra del


San Paolo e giocare almeno una partita in Nazionale.


Li ho raggiunti a 18 e 19 anni. Poi è arrivato tutto il resto”


 

 

“Nel 2000 giocavo nelle giovanili del San Paolo. Eravamo nel mezzo del campionato giovanile Paulista quando ricevetti un cartellino giallo e fui squalificato per la partita successiva. Approfittai del fine settimana libero per andare a trovare i miei nonni, che all’epoca vivevano a Caldas Novas. Con loro, i miei genitori e mio fratello andammo in un parco acquatico. Alla fine della discesa da uno scivolo, urtai la testa contro il fondo della piscina. Sentii il collo schioccare. Quando uscii dall’acqua la testa mi faceva malissimo, e mio fratello mi disse che era uscito del sangue. La prima cosa che fecero i miei genitori fu una preghiera. Mia madre disse che era in corso una lotta spirituale”.

 

All’ospedale di Caldas Novas visitano Kakà e lo rimandano a casa dicendo che non c’è nulla di cui preoccuparsi. La settimana dopo mentre si allena sente delle fitte lancinanti e viene portato di nuovo al pronto soccorso, stavolta a San Paolo. Lì gli fanno una lastra e trovano una frattura alla sesta vertebra cervicale: “I dottori mi dissero che ero stato molto fortunato. Che avrei potuto restare paralizzato e perdere l’abilità di camminare e giocare a calcio. Non credo sia stata fortuna, credo che Dio mi stesse proteggendo”. Le statistiche dicono che la rottura di una vertebra cervicale determina paralisi nel 15% dei casi, e la probabilità è associata alla violenza del trauma, ma Kakà non ha dubbi e ritiene che la sua carriera e la sua intera vita da quel momento siano un dono di Dio, che lo ha protetto.

 

Nasce nel distretto di Gama il 22 aprile 1982 dall’ingegner Bosco Leite e Simone dos Santos, un’insegnante di matematica molto religiosa con taglio di capelli rigorosamente scalato e tutta l’aria di una perfetta padrona di casa. Il soprannome Cacà (che resterà scritto con la “c” fino alla prima stagione da calciatore professionista) viene affibbiato a Ricardo dal fratellino Rodrigo, che anni dopo con il soprannome di Digão giocherà nel Milan come il fratello, ma con molto minor successo.

 

Kakà inizia a giocare a 8 anni, dopo essersi trasferito con la famiglia a San Paolo. Il padre diventa socio del

e Ricardo entra nelle giovanili. Fa l’attaccante e segna parecchio, ma attorno ai 12 anni, quando i compagni iniziano a mettere su chili e centimetri, Kakà non cresce. Gli diagnosticano un ritardo di due anni nella crescita ossea, che non recupererà prima dei sedici anni. Le sue prestazioni ne risentono molto, finché un allenatore non gli dice chiaro e tondo che non ha il fisico per reggere il confronto fisico diretto con i difensori, e gli suggerisce di arretrare a centrocampo, in modo da sfruttare al meglio la sua velocità e la sua tecnica in spazi meno angusti. Diventa così trequartista, il ruolo nel quale diventerà il migliore al mondo, eppure quando Kakà racconta di questo riposizionamento forzato, sotto il sorriso è ancora possibile leggergli negli occhi tutto il senso di frustrazione e impotenza di un bambino a cui viene interdetto ciò che sa fare meglio.

 

Nello stesso periodo viene battezzato entrando a far parte di

, una delle congregazioni evangeliche più grandi del paese nata negli anni ottanta dal grande seguito della coppia di predicatori televisivi Estevam e

. La liturgia di

è quella - inevitabilmente kitsch dal nostro punto di vista - fatta di canti gospel, microfoni ad archetto e modesti set televisivi da cui Estevam e Sônia illustrano con il sorriso fisso in macchina obblighi ed opportunità derivanti da un solido rapporto di amicizia con l’Altissimo. Kakà però vede ancora oggi nel battesimo il momento decisivo della sua vita, e lo descrive sempre con una scelta di parole interessante: “Quel giorno ho ricevuto la liberazione”. (Interessante e rivelatoria perché, come dirò in seguito, mi sono fatto l’idea che una delle funzioni principali della religione nella vita di Kakà sia quelle di liberarsi, alleggerirsi dal peso di essere - in questo mondo - Kakà)

 

La carriera nelle giovanili del San Paolo procede fino al livello immediatamente inferiore alla prima squadra, il corrispettivo della nostra primavera, dove Kakà - ecco una prima anomalia rispetto alle storie di quasi tutti gli altri campioni brasiliani - è un diciottenne con abbastanza talento da poter sperare di diventare un professionista, ma non un predestinato o un campione designato. Addirittura, stando a quello che racconta lui stesso, gli avvenimenti che lo portano ad esordire in prima squadra e che in pochi mesi sconvolgeranno in positivo la sua vita sono determinati da una casualità bella e buona (o dalla volontà di Dio, direbbe probabilmente lui).

 

La rottura della vertebra lo tiene lontano dal campo tra la fine del 2000 e l’inizio del 2001, e quando torna con la squadra giovanile il posto da titolare nel suo ruolo è andato ad un certo

n. Per la prima partita del

(storica competizione che ogni anno metteva a confronto le migliori squadre

e

, oggi scomparsa) alla prima squadra serve un centrocampista per integrare la rosa, e non volendosi privare del titolare Harison l’allenatore delle giovanili manda la riserva: Kakà.

 

L’1 febbraio 2001, al Morumbi di San Paolo, a dieci minuti dal termine di un San Paolo-Botafogo da lui stesso definita “una partita di incredibile bruttezza”, Kakà fa il suo esordio con la prima squadra del San Paolo. Non ha il tempo di lasciare il segno, ma è sufficiente aspettare 72 ore. Il 4 febbraio entra in campo al ventesimo della ripresa di San Paolo-Santos, facendo il suo esordio anche in campionato.

 

Pochi minuti dopo una palla che sembra telecomandata disegna una mezzaluna attraverso l’area di rigore e plana alle spalle dei difensori del Santos. All’altezza del vertice dell’area piccola c’è Kakà, solo come se davvero nessun avversario si fosse dato la pena di inseguire quel ragazzino con il collo lungo e il fisico da adolescente. Piega la gamba sinistra facendo impattare il pallone con il piatto del piede e spedendolo all’incrocio dei pali, riuscendo ad inserire una nota di eleganza ad un primo gol da professionista di irrisoria facilità, un vero e proprio regalo della sorte (o un dono di Dio, direbbe lui).

 

La storia di Kakà assume i contorni della fiaba mitopoietica all’incirca un mese dopo, quando il San Paolo ritrova il Botafogo in finale del

. Kakà entra in campo a mezz’ora con il Botafogo  avanti di un gol, ma al settantanovesimo minuto un centrocampista del San Palo alza un pallone a campanile dalla trequarti verso il limite dell’area avversaria. Lì un altro giovane di grandi speranze di nome Luis Fabiano sale in torsione e riesce a girare il pallone di testa verso il dischetto dell’area di rigore, dove c’è un difensore del Botafogo, e dietro di lui Kakà. Il difensore cerca di intervenire senza coordinazione e arriva quasi a contatto con la palla all’altezza dell’inguine, ma in quel momento la punta del piede di Kakà guizza davanti a lui e tocca la palla facendola impennare lungo il corpo del difensore, quasi come sulla schiena di un giocoliere inconsapevole. Prima che il difensore capisca bene quello che sta succedendo la palla lo scavalca e atterra alle sue spalle disegnando un sombrero che lascia Kakà solo con la palla tra i piedi, a guardare negli occhi il portiere. L’appoggio in rete è preciso, glaciale.

 

Passano altri due minuti, ma siamo in una di quelle bolle emotive in cui la cognizione collettiva del tempo è sospesa e dire due minuti è la stessa cosa che dire due secondi o due mesi. Kakà riceve un altro pallone sulla trequarti sinistra, lo addomestica con l’esterno del piede, punta un difensore avversario cambiando passo tre o quattro volte in dieci metri, poi piega il corpo verso sinistra, barcolla per un attimo e con un’incertezza controllata sposta in qualche modo il pallone verso destra, sistemandoselo per il tiro. Calcia basso verso il secondo palo, imprimendo al pallone l’effetto necessario a farlo passare fuori dalla portata del portiere.

 


Prima di tutta questa sequenza epica, Kakà si incarta sul pallone tentando un dribbling, come un bambino emozionato.


 

La terra ha tremato. Due gol in due minuti, dal settantanovesimo all’ottantunesimo, dallo zero a uno al due a uno. Il Brasile scopre Kakà e impara subito un paio di cose su di lui. Prima di tutto, non è un calciatore normale, è uno che a diciott’anni risolve una finale segnando in due minuti due gol talmente belli che basterebbero a nobilitare una stagione intera. E allo stesso tempo si capisce già che è un prodotto atipico rispetto alla tradizione brasiliana. Linearità e una pulizia affilano il suo gioco, in una geometria che sembra attrarlo verso la porta avversaria secondo il tragitto più breve, senza lasciare il tempo per estetismi e giochi di prestigio. Se l’archetipo del talento brasiliano può essere paragonato a un virtuoso delle percussioni - ritmo, tocco, rapidità - questo diciottenne di Gama con le gambe lunghe, il sorriso accattivante coi denti un po’ all’infuori e un’onda di capelli castani che svolazza sulla fronte fa pensare alla grazia e all’ispirazione di un grande pianista.

 

Non esce più dalla formazione titolare, in un San Paolo che raccoglierà poco e niente in termini di vittorie ma schiera una sfilza di campioni affermati e giovani destinati a vare buone o grandi cose in Europa: insieme a Kakà e al già citato Luis Fabiano ci sono Julio Baptista, Fábio Simplício, Belletti, França, Gustavo Nery e Rogério Ceni, ai quali a stagione in corso andrà ad aggiungersi Leonardo, di ritorno dal Milan per la terza esperienza in maglia

(quest’ultimo non riuscirà ad incidere più di tanto sul campo a causa degli infortuni e della precaria condizione atletica, ma avrà un ruolo decisivo nell’influenzare le future scelte di carriera di Kakà).

 

https://www.youtube.com/watch?v=5hW34hOp2B8&nohtml5=False%23t=00m54s

In finale di Copa Dos Campeões, unico trofeo stagionale vinto dal San Paolo, Kakà segna forse il gol più bello dell’anno, e uno dei più belli della sua carriera. Tre tocchi con tre parti diverse del piede - interno, esterno, collo - bastano per una giravolta che manda a vuoto il difensore avversario e per un gran tiro all’incrocio dei pali. Sembra un saggio teorico di sintesi calcistica, sembra che Kakà non abbia fatto altro che questo movimento per tutta la vita e che tutta la sua vita sia servita ad arrivare qui, a questo momento


 

Quello che colpisce nell’esplosione di Kakà - che segnerà 11 gol nel

, da settembre a dicembre - è l’incredibile varietà di soluzioni che ha a disposizione, ai limiti del sovrannaturale per un ragazzo di quell’età.

 

Si posiziona sulla trequarti, e bastano poche partite a chiarire che le flebili speranze di fermarlo per gli avversari sono appese al tentativo di strozzare l’azione sul nascere, prima che Kakà riesca a girarsi verso la porta e partire. Dopo, è come una valanga che guadagna velocità e forza d’impatto a ogni metro. Verrebbe da ridurre la descrizione della sua superiorità a categorie rudimentali: corre più veloce degli avversari, controlla la palla meglio di loro, vede una porzione maggiore di campo, tira più forte e più preciso.

 

Se volete farvi un’idea più precisa di quello a cui mi riferisco o se semplicemente vi interessa la showreel che tra il 2001 e il 2002 ha messo Kakà in cima alla lista degli osservatori di tutto il mondo, guardatevi la

a, quando prima segna di tacco e poi con un colpo di testa tutt’altro che semplice, riuscendo con la torsione del collo a spedire la palla nell’angolo più lontano come farebbe uno specialista alla Bierhoff o Lewandovski, oppure lo spettacolo che va in scena

, quando Kakà prima duetta con Leonardo e poi a difesa avversaria schierata supera Dida con una specie di tiro a freccette. Ma forse le immagini più illustrative sono quelle della prova da calciatore totale

, quando ruba palla alle soglie della propria area di rigore, la consegna a un compagno e poi si fa sessanta metri in corsa libera, per andare a raccogliere il passaggio di ritorno nell’area di rigore opposta e mettere tra le gambe del portiere il pallone del gol del due a zero.

 

Il 31 gennaio 2002 arriva l’esordio in nazionale nel 6-0 contro la Bolivia e il 6 marzo, in amichevole contro l’Islanda, Kakà segna il suo primo gol in maglia verdeoro per il 3-0 che concorre al 6-1 finale.

 

https://www.youtube.com/watch?v=UY1ffoKJ1A4#sthash.sNRViNXL.dpuf

Rientra di sinistra, si sistema la palla con l’esterno e poi calcia d’interno. È uno dei suoi gol più tipici, quasi volesse subito presentarsi per quello che è.


 

I dodici gol segnati dal Brasile in occasione delle prime due convocazioni di Kakà, al netto della modestia degli avversari, danno la misura delle forza di quella squadra e del livello della concorrenza con cui, ancora ventenne, si misura in vista del mondiale 2002.

 

Eppure a giugno arriva la convocazione di Scolari, e Kakà sale sull’aereo per il Giappone per integrare un reparto offensivo che comprende due ex Palloni d’oro come Rivaldo e Ronaldo (che vincerà di nuovo quell’anno) e un futuro vincitore del premio come Ronaldinho. Il suo soprannome è O Anjinho, “l’angoletto” per la fede in Dio e la faccia da sbarbatello, ma durante la spedizione asiatica Ronaldo lo soprannomina “Kakito”, quasi fosse una mascotte. Difficilmente il fantasista del San Paolo, che si laureerà campione del mondo insieme agli altri giocando soltanto uno scampolo di partita contro il Costa Rica, può immaginare che il quarto pallone d’Oro di quel devastante attacco qualche anno dopo sarà proprio lui. Allo stesso modo, vedendolo

al posto di Rivaldo  e sentendo il commentatore inglese che lo presenta genericamente come “wonderful young talent”, nessuno prevede che un anno dopo quel ragazzino con le orecchie a sventola, arrivato al Milan, farà accomodare in panchina e sostanzialmente passare di moda proprio Rivaldo.

 

https://www.youtube.com/watch?v=7wC4IBXxCXk#sthash.P75HF9yO.dpuf

In occasione di un’amichevole per il centenario del Real Madrid, è forse il giocatore meno noto ad essere invitato nella selezione “Resto del mondo”. Segna un gol bellissimo, tipicamente suo, accentrandosi e poi calciando a giro sul secondo palo. Se siete di quelli a cui piacciono le operazioni nostalgia a tema calcistico, vedere Marc Wilmots che gli passa la palla mentre Nakata taglia verso il centro dell’area vi toccherà il cuore.


 

 



 

“Tutto quello che faccio è cercare Dio”


 

 

Di ritorno dal mondiale brasiliano Kakà non è più solo un grande talento, ma uno dei più grandi prospetti del calcio mondiale. Non resterà a lungo in Brasile, questo lo pensano tutti, ma sorprendentemente le grandi squadre europee su di lui sembrano meno decise che su altri. Il motivo probabilmente è proprio la singolarità di Kakà rispetto alla tradizione brasiliana e, di conseguenza, la sua mancata corrispondenza con quello che gli osservatori europei si aspettano di trovare da quelle parti. Kakà è già così europeo che si possono immaginare solo esiti estremi per il suo approdo in Europa. O un impatto immediato e devastante o la diluizione di una goccia nel mare.

 

Si congeda dal pubblico brasiliano con una serie di prestazioni lunari, tra cui vale la pena ricordare la tripletta messa a segno contro l’Atlético Juventus, con un terzo gol segnato a termine di un coast-to-coast che illustra bene l’immagine della valanga che ho usato prima (minuto 0:35 del video qui sotto).

 

https://www.youtube.com/watch?v=LWMtB6loDEU

Davvero pochi giocatori nella storia hanno avuto un arsenale sul tiro da fuori paragonabile a quello di Kakà. Il primo gol illustra bene una delle sue specialità, il tiro da lontano rasoterra. Pochissimi hanno la capacità di tenere basso il pallone calciando alla potenza a cui lo fa lui, ancora meno sono quelli che riescono a farlo con la sua precisione e pericolosità


 

Una delle prime squadre europee a tentare seriamente di prenderlo è l’Inter, ma l’affare non si conclude. Ci prova anche la Juve, ma anche in questo caso il trasferimento sfuma con una celebre battuta da asilo infantile di Luciano Moggi (“Tanto, uno con un nome così…”) Più vicino di tutte ci va il Chelsea appena acquistato da Roman Abramovich, che inoltra al presidente Marcelo Portugal una di quelle offerte con cui il petroliere russo sta ridefinendo gli standard del calciomercato. Portugal però rifiuta, spiegando che è troppo tardi: grazie alla mediazione di Leonardo il ragazzo ha già scelto il Milan, e il San Paolo ha già un accordo sulla parola con i rossoneri sulla base di 8,5 milioni (cifra che poco tempo dopo, alla luce dell’esplosione di Kakà, Berlusconi potrà definire con compiacimento “due spiccioli”. Ma questo Portugal ancora non può saperlo). L’unico effetto dell’offerta di Abramovich è quello di spingere il Milan a formalizzare l’operazione sei mesi prima del previsto.

 

Il 23 maggio 2003 segna contro il Paranà il suo

 e il Morumbi lo saluta con un’ovazione.

 

Ricordo bene quel periodo - tra l’altro all’epoca ero molto più impallato di calciomercato di quanto non lo sia adesso - e il profilo molto basso con cui l’arrivo di Kakà venne gestito dal Milan e raccontato dai media. La cifra modesta pagata per il trasferimento, la notorietà limitata di Kakà fuori dai confini nazionali e il fatto che il Milan avesse appena vinto la Champions League - per cui i tifosi rossoneri non avevano ragione di proiettare aspettative eccessive su un giocatore così giovane - fecero sì che Kakà venisse accolto tutt’al più come una stuzzicante incognita. Ricordo anche che c’era l’idea diffusa che il Milan potesse mandarlo in prestito da qualche parte dopo il ritiro, per mandarlo a giocare e liberarlo da una concorrenza oggettivamente proibitiva che sulla trequarti comprende Rivaldo, Rui Costa e Seedorf, senza contare Pirlo che ha da poco iniziato ad arretrare il suo raggio d’azione. (SPOILER: alla fine della stagione, Kakà arriverà davanti a tutti i sopraccitati sia per numero di presenze che di gol).

 

Quel Milan è insieme ai galacticos del Real Madrid di gran lunga la squadra più forte del mondo. I suoi eroi sono quelli della Champions vinta in finale contro la Juve e hanno nomi già incisi nella memoria calcistica globale, da Sheva a Nesta, da Inzaghi a Maldini. Basta però la prima di campionato con l’Ancona, in cui Kakà nemmeno segna, a far capire a tutti che non è arrivato per fare la comparsa. È lui ad avviare l’azione che porta al 2-0, con un sombrero sulla propria trequarti a cui fa seguito un attimo di studiata esitazione, guardandosi platealmente intorno come ai giardinetti, per poi esplodere

.



 

Il giorno dopo è già “convincente, illuminato, davvero un buon acquisto” e “dopo una sola partita da titolare ha già conquistato l’ambiente rossonero, sia per le qualità tecniche sia per la personalità da grande giocatore”.

 

Due settimane dopo è il migliore in campo all’esordio in Champions contro l’Ajax, ma la sua vera esplosione è il 5 ottobre quando si prende il proscenio nel derby contro l’Inter. Schierarlo al posto di Rui Costa è la “mossa a sorpresa” di Ancelotti, ma il fatto che Kakà sia titolare non sorprende già più nessuno. Una volta al posto di Rui Costa, un’altra al posto di Seedorf, più spesso a discapito di Rivaldo, Kakà non esce più dall’undici titolare. Prima si procura la punizione dell’uno a zero, poi mette in rete di testa un pallone ciabattato in mezzo da Gattuso. L’impressione generale è che i difensori dell’inter

.


 

Il primo decisivo gol in Champions arriva a quatto minuti dalla fine contro il Bruges, ed è un’investitura, oltre che uno dei gol più famosi e rivisti di Kakà. È lui ad avviare l’azione e poi tagliare verso la lunetta dell’area di rigore, dove riceve il passaggio di ritorno a mezza altezza. La sua

, forte ma non più del necessario, di misura chirurgica, è l’epitome della sua armonia da calciatore vitruviano.


 




 

Il

che segna da subentrato contro l’Empoli  risolvendo una partita difficilissima una settimana prima della finale di Coppa Intercontinentale, punta addosso a Kakà riflettori che non si limitano a illuminare il calciatore, ma cercano un profilo riconoscibile per creare un personaggio. Le magliette “I belong to Jesus” che Kakà mostra dopo aver fatto gol sono l’appiglio da cui parte l’indagine sulla nuova stella del calcio mondiale.

 

Kakà viene inquadrato nella categoria “antidivo”, il bravo ragazzo come non ce ne sono più, da additare come esempio in contrapposizione ai calciatori materialisti e viziati. Lui dal canto suo non si sottrae a questa narrativa moraleggiante, e ribadisce ogni volta che può di preferire le serate in casa a guardare un film a discoteche e occasioni mondane. I compagni di squadra confermano, e lo indicano in modo unanime come modello di condotta esemplare (anche se pare che nel Milan dei brasiliani risaltare per contrasto da questo punto di vista non fosse difficilissimo). Kakà spiega ai giornalisti che al primo posto nella sua vita c’è Gesù, al secondo la famiglia e soltanto al terzo la carriera. Insomma, fa da solo il lavoro che di solito spetta ai giornalisti per levigare l’immagine dei campioni e metterli sul mercato come modelli di virtù.

 

L’attenzione si sposta verso la sua vita privata, e il correlativo oggettivo della sua immagine di purezza viene identificato in Caroline Celico, diciottenne ex modella con cui Kakà si è fidanzato un anno prima, bella e religiosa al punto di servire come pastore per la stessa congregazione di Kakà. Kakà spiega che è lei quella giusta, perché “la ragazza giusta è quella che sceglie Dio”. La domande pruriginose per ora solo sussurrate (Kakà ne darà conferma pubblicamente, ma solo nel 2007) che costruiscono la narrazione plebea del personaggio riguardano la verginità preservata fino al matrimonio.

 

È l’inizio di un breve momento di notorietà pubblica per il movimento degli “Atleti di Cristo”, e l’evangelismo del precursore Kakà è raccontato con toni che oscillano dalla deferenza al pettegolezzo, dalla curiosità allo scetticismo, in un paese come il nostro che è allo stesso tempo culturalmente intriso di cattolicesimo ma anche estremamente pudico e diffidente rispetto alle forme religiose eccessivamente spontanee e colorite.

 

Per quel poco che dalle interviste si può capire di un aspetto così intimo di un personaggio pubblico, la religiosità di Kakà a questo punto mi sembra soprattutto quella di un ventenne che vuole preservare l’integrità di un mondo infantile, in cui Gesù è una specie di fratello maggiore coi superpoteri, e un braccialetto con scritto Oqjf, “O que Jesus faria”, “Quel che farebbe Gesù (al mio posto)” aiuta ad orientarsi tra il bene e il male. Per tutta la vita, fino ad oggi, Kakà continuerà a ribadire nelle interviste lo stesso concetto: lui

il calciatore ma non

un calciatore, perché quello che lo definisce come individuo non sono i soldi, la fama o il talento, ma la fede. Forse la religione è la membrana che Kakà usa per proteggersi dal mondo deformato e seducente in cui la sua bravura con il pallone lo ha portato, come in quel brano degli Atti degli Apostoli che dice che niente di impuro può entrare negli uomini da fuori, e solo quello che sgorga da dentro di lui può contaminarlo.

 


, ribaltando il risultato. Oltre a segnare due gol si procura anche un rigore.

 

Tornando sulla terra, è interessante ragionare su come il fortissimo impatto tecnico di Kakà sul calcio italiano ed europeo possa essere descritto anche come uno shock culturale. Soprattutto nella stagione 2003/2004, la prima in maglia rossonera, Kakà fa quello che vuole anche perché gli avversari, semplicemente, non sono attrezzati per capire, interpretare e provare a contrastare il suo gioco. Questo spiega anche la sensazione di incredulità che ricordo di aver provato nel vedere domenica dopo domenica a Novantesimo Minuto le sue inesorabili sgroppate, traducibile nel desiderio di gridare ai difensori attraverso lo schermo: “ma santo cielo, non vi accorgete che fa

”. Non era sempre la stessa cosa, erano variazioni su un tema, era l’infinito perfezionamento di un’idea: quello che fanno i grandi artisti.
Un’immagine forse semplicistica ma che secondo me rende bene l’idea è quella di un giocatore che inizia l’azione come un trequartista e la finisce come un attaccante, o che, se preferite,

. Prendiamo il gol che segna nel derby di ritorno:

 

https://www.youtube.com/watch?v=HAGNALDjUHM&nohtml5=False#t=09m35s

 

Quando Kakà riceve palla, pochi metri oltre centrocampo, nella metà campo dell’Inter ci sono soltanto lui e Tomasson (più un terzo compagno irriconoscibile dalle immagini, molto defilato sulla sinistra) contro cinque (cinque!) giocatori dell’Inter, più Toldo. Tomasson taglia bene da sinistra a destra, ma rappresenta l’unica soluzione di passaggio mentre Kakà avanza palla al piede, per cui se Kakà fosse chiunque altro per i difensori dell’Inter sarebbe piuttosto semplice costringerlo a rallentare e imp

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