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San Kakà
03 mag 2016
03 mag 2016
L'ultimo pallone d'oro brasiliano, il campione borghese, l'uomo dalla fede incrollabile.
(articolo)
38 min
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“Ho un rapporto disincantato con il lusso. Forse perché provengo

da una famiglia borghese brasiliana, non ho grandi lacune da colmare.

Penso che siano altre le ricchezze importanti della vita”.

Quella di Ricardo Kakà, l’ultimo Pallone d’oro brasiliano, non è una storia di riscatto e non parte da una favela. Non inizia con un padre ex calciatore dilettante, gli occhi gialli e il ventre gonfio, non con una sfilza di fratelli di cui è difficile ricordare tuttli i nomi, non con una madre seduta all’ombra a riposare le gambe, con ciocche di capelli umidi che cascano sulla fronte.

Se non avesse fatto il calciatore, se la lotteria del talento non gli avesse riservato in sorte uno dei primi premi, o se più semplicemente giocare a calcio gli fosse piaciuto meno che studiare, l’aspetto di Kakà non sarebbe molto diverso. Avrebbe le stesse camicie ben stirate, i pullover stretti e sottili, i denti larghi e bianchi come tasselli di ceramica e l’abbronzatura da velista. Probabilmente guadagnerebbe di meno, ma comunque guadagnerebbe molto sulla scala di quelli che non fanno i calciatori. Magari farebbe l’ingegnere come suo padre Bosco, che ha i capelli radi, gli occhi piccoli dietro le lenti degli occhiali e una vaga somiglianza con Papa Francesco. Oppure avrebbe studiato economia, o legge come tanti giovani brasiliani della sua generazione, e sarebbe finito lo stesso negli Stati Uniti, a lavorare per una firm a Orlando o per qualche multinazionale. Avrebbe perfino la stessa intensa e conciliata religiosità da vincitore, devolverebbe comunque in beneficienza cifre non trascurabili e andrebbe in chiesa a ringraziare per la luce del mondo cosi com’è, nella sua imperfezione, nel peccato e nel disordine.

Kakà è un campione borghese, non soltanto per le origini della sua famiglia ma anche per la linearità e la pulizia del suo talento, e persino per la traiettoria della sua carriera, che si è impennata prestissimo e ha toccato l’apice a 25 anni, per poi proseguire su ritmi più compassati, in un declino lento ma non privo di prestigio: trova una cosa che sai fare bene, impara tutto quello che puoi evitando le complicazioni intellettuali non necessarie, dài tutto da giovanissimo in modo da farti presto una posizione e poi campa di rendita. Non è più o meno quello che ci insegnano nelle migliori università?

Non c’è traccia di conflitto, non c’è notizia di lotta con demoni propri o altrui, non c’è dolore visibile (perché la forza che ammiriamo negli atleti, è bene non dimenticarlo, è una forma estetizzata di resistenza al dolore) quando in una delle sue azioni straordinarie Kakà rovescia il pallone poco prima o poco oltre il centrocampo, tende i muscoli del collo in avanti come un rapace e supera senza sforzo due, tre, quattro avversari prima di prendersi il tempo per guardare bene la porta e spedire il pallone dove il portiere proprio non può arrivare. Viene da pensare che la fede di Kakà sia prima di tutto la gratitudine di un figlio prediletto degli dei, che ha avuto in dono un corpo perfetto e la luce sovrannaturale di chi quasi non conosce distanza tra idea e azione.

“A Gore Vidal manca la ferita” diceva Norman Mailer per accusare il suo carismatico, mondano e brillante rivale di non avere quell’esperienza diretta della sofferenza da cui sola può scaturire il genio artistico. Si direbbe che anche a Kakà manca la ferita, e questo forse è il motivo per cui, anche negli anni in cui faceva cose mai viste prima, non gli è mai riuscito di scatenare nei tifosi neutrali gli entusiasmi e l’identificazione di altri giocatori non necessariamente di maggior livello, ma di più forte narrazione.

La sofferenza è la fonte da cui sgorga la sensualità, per cui la straordinaria grazia e potenza del gioco di Kakà rimangono esperienze in qualche modo fredde, asettiche, e il giudizio nei suoi confronti è sempre stato in qualche modo meno affettuoso che nei confronti di altri. Dei grandi giocatori che soffrono (l’archetipo è Maradona, ma ognuno di noi ne ha in mente a decine) amiamo le tenebre quanto le luci, siamo disposti a perdonare le pause e gli errori come controparte indispensabile del loro riscatto. Da uno come Kakà e dal suo corpo da ginnasta, dalla sua anima liscia, ci aspettiamo sempre il massimo, e appena il suo livello si abbassa lievemente (al Real Madrid, e poi quando torna al Milan) perdiamo interesse e lo spediamo a giocare in Major League.

La sfacciata fortuna di Kakà è una medaglia a due facce, è la ragione del suo destino ma anche della sua caduta precoce. Kakà non è come noi, è sovrumano. La sua grandezza è stata senza limiti ma anche senza riposo, come un meraviglioso giardino senza ombra.

O Anjinho (1982-2003)

“I miei obiettivi erano arrivare nella prima squadra del

San Paolo e giocare almeno una partita in Nazionale.

Li ho raggiunti a 18 e 19 anni. Poi è arrivato tutto il resto”

“Nel 2000 giocavo nelle giovanili del San Paolo. Eravamo nel mezzo del campionato giovanile Paulista quando ricevetti un cartellino giallo e fui squalificato per la partita successiva. Approfittai del fine settimana libero per andare a trovare i miei nonni, che all’epoca vivevano a Caldas Novas. Con loro, i miei genitori e mio fratello andammo in un parco acquatico. Alla fine della discesa da uno scivolo, urtai la testa contro il fondo della piscina. Sentii il collo schioccare. Quando uscii dall’acqua la testa mi faceva malissimo, e mio fratello mi disse che era uscito del sangue. La prima cosa che fecero i miei genitori fu una preghiera. Mia madre disse che era in corso una lotta spirituale”.

All’ospedale di Caldas Novas visitano Kakà e lo rimandano a casa dicendo che non c’è nulla di cui preoccuparsi. La settimana dopo mentre si allena sente delle fitte lancinanti e viene portato di nuovo al pronto soccorso, stavolta a San Paolo. Lì gli fanno una lastra e trovano una frattura alla sesta vertebra cervicale: “I dottori mi dissero che ero stato molto fortunato. Che avrei potuto restare paralizzato e perdere l’abilità di camminare e giocare a calcio. Non credo sia stata fortuna, credo che Dio mi stesse proteggendo”. Le statistiche dicono che la rottura di una vertebra cervicale determina paralisi nel 15% dei casi, e la probabilità è associata alla violenza del trauma, ma Kakà non ha dubbi e ritiene che la sua carriera e la sua intera vita da quel momento siano un dono di Dio, che lo ha protetto.

Nasce nel distretto di Gama il 22 aprile 1982 dall’ingegner Bosco Leite e Simone dos Santos, un’insegnante di matematica molto religiosa con taglio di capelli rigorosamente scalato e tutta l’aria di una perfetta padrona di casa. Il soprannome Cacà (che resterà scritto con la “c” fino alla prima stagione da calciatore professionista) viene affibbiato a Ricardo dal fratellino Rodrigo, che anni dopo con il soprannome di Digão giocherà nel Milan come il fratello, ma con molto minor successo.

Kakà inizia a giocare a 8 anni, dopo essersi trasferito con la famiglia a San Paolo. Il padre diventa socio del tricolor paulista e Ricardo entra nelle giovanili. Fa l’attaccante e segna parecchio, ma attorno ai 12 anni, quando i compagni iniziano a mettere su chili e centimetri, Kakà non cresce. Gli diagnosticano un ritardo di due anni nella crescita ossea, che non recupererà prima dei sedici anni. Le sue prestazioni ne risentono molto, finché un allenatore non gli dice chiaro e tondo che non ha il fisico per reggere il confronto fisico diretto con i difensori, e gli suggerisce di arretrare a centrocampo, in modo da sfruttare al meglio la sua velocità e la sua tecnica in spazi meno angusti. Diventa così trequartista, il ruolo nel quale diventerà il migliore al mondo, eppure quando Kakà racconta di questo riposizionamento forzato, sotto il sorriso è ancora possibile leggergli negli occhi tutto il senso di frustrazione e impotenza di un bambino a cui viene interdetto ciò che sa fare meglio.

Nello stesso periodo viene battezzato entrando a far parte di Renacer em Cristo, una delle congregazioni evangeliche più grandi del paese nata negli anni ottanta dal grande seguito della coppia di predicatori televisivi Estevam e Sônia Hernandes. La liturgia di Renacer è quella - inevitabilmente kitsch dal nostro punto di vista - fatta di canti gospel, microfoni ad archetto e modesti set televisivi da cui Estevam e Sônia illustrano con il sorriso fisso in macchina obblighi ed opportunità derivanti da un solido rapporto di amicizia con l’Altissimo. Kakà però vede ancora oggi nel battesimo il momento decisivo della sua vita, e lo descrive sempre con una scelta di parole interessante: “Quel giorno ho ricevuto la liberazione”. (Interessante e rivelatoria perché, come dirò in seguito, mi sono fatto l’idea che una delle funzioni principali della religione nella vita di Kakà sia quelle di liberarsi, alleggerirsi dal peso di essere - in questo mondo - Kakà)

La carriera nelle giovanili del San Paolo procede fino al livello immediatamente inferiore alla prima squadra, il corrispettivo della nostra primavera, dove Kakà - ecco una prima anomalia rispetto alle storie di quasi tutti gli altri campioni brasiliani - è un diciottenne con abbastanza talento da poter sperare di diventare un professionista, ma non un predestinato o un campione designato. Addirittura, stando a quello che racconta lui stesso, gli avvenimenti che lo portano ad esordire in prima squadra e che in pochi mesi sconvolgeranno in positivo la sua vita sono determinati da una casualità bella e buona (o dalla volontà di Dio, direbbe probabilmente lui).

La rottura della vertebra lo tiene lontano dal campo tra la fine del 2000 e l’inizio del 2001, e quando torna con la squadra giovanile il posto da titolare nel suo ruolo è andato ad un certo Harison. Per la prima partita del Torneio Rio-São Paulo (storica competizione che ogni anno metteva a confronto le migliori squadre pauliste e carioca, oggi scomparsa) alla prima squadra serve un centrocampista per integrare la rosa, e non volendosi privare del titolare Harison l’allenatore delle giovanili manda la riserva: Kakà.

L’1 febbraio 2001, al Morumbi di San Paolo, a dieci minuti dal termine di un San Paolo-Botafogo da lui stesso definita “una partita di incredibile bruttezza”, Kakà fa il suo esordio con la prima squadra del San Paolo. Non ha il tempo di lasciare il segno, ma è sufficiente aspettare 72 ore. Il 4 febbraio entra in campo al ventesimo della ripresa di San Paolo-Santos, facendo il suo esordio anche in campionato.

Pochi minuti dopo una palla che sembra telecomandata disegna una mezzaluna attraverso l’area di rigore e plana alle spalle dei difensori del Santos. All’altezza del vertice dell’area piccola c’è Kakà, solo come se davvero nessun avversario si fosse dato la pena di inseguire quel ragazzino con il collo lungo e il fisico da adolescente. Piega la gamba sinistra facendo impattare il pallone con il piatto del piede e spedendolo all’incrocio dei pali, riuscendo ad inserire una nota di eleganza ad un primo gol da professionista di irrisoria facilità, un vero e proprio regalo della sorte (o un dono di Dio, direbbe lui).

La storia di Kakà assume i contorni della fiaba mitopoietica all’incirca un mese dopo, quando il San Paolo ritrova il Botafogo in finale del Torneio Rio-São Paulo. Kakà entra in campo a mezz’ora con il Botafogo avanti di un gol, ma al settantanovesimo minuto un centrocampista del San Palo alza un pallone a campanile dalla trequarti verso il limite dell’area avversaria. Lì un altro giovane di grandi speranze di nome Luis Fabiano sale in torsione e riesce a girare il pallone di testa verso il dischetto dell’area di rigore, dove c’è un difensore del Botafogo, e dietro di lui Kakà. Il difensore cerca di intervenire senza coordinazione e arriva quasi a contatto con la palla all’altezza dell’inguine, ma in quel momento la punta del piede di Kakà guizza davanti a lui e tocca la palla facendola impennare lungo il corpo del difensore, quasi come sulla schiena di un giocoliere inconsapevole. Prima che il difensore capisca bene quello che sta succedendo la palla lo scavalca e atterra alle sue spalle disegnando un sombrero che lascia Kakà solo con la palla tra i piedi, a guardare negli occhi il portiere. L’appoggio in rete è preciso, glaciale.

Passano altri due minuti, ma siamo in una di quelle bolle emotive in cui la cognizione collettiva del tempo è sospesa e dire due minuti è la stessa cosa che dire due secondi o due mesi. Kakà riceve un altro pallone sulla trequarti sinistra, lo addomestica con l’esterno del piede, punta un difensore avversario cambiando passo tre o quattro volte in dieci metri, poi piega il corpo verso sinistra, barcolla per un attimo e con un’incertezza controllata sposta in qualche modo il pallone verso destra, sistemandoselo per il tiro. Calcia basso verso il secondo palo, imprimendo al pallone l’effetto necessario a farlo passare fuori dalla portata del portiere.

Prima di tutta questa sequenza epica, Kakà si incarta sul pallone tentando un dribbling, come un bambino emozionato.

La terra ha tremato. Due gol in due minuti, dal settantanovesimo all’ottantunesimo, dallo zero a uno al due a uno. Il Brasile scopre Kakà e impara subito un paio di cose su di lui. Prima di tutto, non è un calciatore normale, è uno che a diciott’anni risolve una finale segnando in due minuti due gol talmente belli che basterebbero a nobilitare una stagione intera. E allo stesso tempo si capisce già che è un prodotto atipico rispetto alla tradizione brasiliana. Linearità e una pulizia affilano il suo gioco, in una geometria che sembra attrarlo verso la porta avversaria secondo il tragitto più breve, senza lasciare il tempo per estetismi e giochi di prestigio. Se l’archetipo del talento brasiliano può essere paragonato a un virtuoso delle percussioni - ritmo, tocco, rapidità - questo diciottenne di Gama con le gambe lunghe, il sorriso accattivante coi denti un po’ all’infuori e un’onda di capelli castani che svolazza sulla fronte fa pensare alla grazia e all’ispirazione di un grande pianista.

Non esce più dalla formazione titolare, in un San Paolo che raccoglierà poco e niente in termini di vittorie ma schiera una sfilza di campioni affermati e giovani destinati a vare buone o grandi cose in Europa: insieme a Kakà e al già citato Luis Fabiano ci sono Julio Baptista, Fábio Simplício, Belletti, França, Gustavo Nery e Rogério Ceni, ai quali a stagione in corso andrà ad aggiungersi Leonardo, di ritorno dal Milan per la terza esperienza in maglia tricolor (quest’ultimo non riuscirà ad incidere più di tanto sul campo a causa degli infortuni e della precaria condizione atletica, ma avrà un ruolo decisivo nell’influenzare le future scelte di carriera di Kakà).

In finale di Copa Dos Campeões, unico trofeo stagionale vinto dal San Paolo, Kakà segna forse il gol più bello dell’anno, e uno dei più belli della sua carriera. Tre tocchi con tre parti diverse del piede - interno, esterno, collo - bastano per una giravolta che manda a vuoto il difensore avversario e per un gran tiro all’incrocio dei pali. Sembra un saggio teorico di sintesi calcistica, sembra che Kakà non abbia fatto altro che questo movimento per tutta la vita e che tutta la sua vita sia servita ad arrivare qui, a questo momento

Quello che colpisce nell’esplosione di Kakà - che segnerà 11 gol nel campeonato brasileiro, da settembre a dicembre - è l’incredibile varietà di soluzioni che ha a disposizione, ai limiti del sovrannaturale per un ragazzo di quell’età.

Si posiziona sulla trequarti, e bastano poche partite a chiarire che le flebili speranze di fermarlo per gli avversari sono appese al tentativo di strozzare l’azione sul nascere, prima che Kakà riesca a girarsi verso la porta e partire. Dopo, è come una valanga che guadagna velocità e forza d’impatto a ogni metro. Verrebbe da ridurre la descrizione della sua superiorità a categorie rudimentali: corre più veloce degli avversari, controlla la palla meglio di loro, vede una porzione maggiore di campo, tira più forte e più preciso.

Se volete farvi un’idea più precisa di quello a cui mi riferisco o se semplicemente vi interessa la showreel che tra il 2001 e il 2002 ha messo Kakà in cima alla lista degli osservatori di tutto il mondo, guardatevi la doppietta con l’América, quando prima segna di tacco e poi con un colpo di testa tutt’altro che semplice, riuscendo con la torsione del collo a spedire la palla nell’angolo più lontano come farebbe uno specialista alla Bierhoff o Lewandovski, oppure lo spettacolo che va in scena contro il Corinthians, quando Kakà prima duetta con Leonardo e poi a difesa avversaria schierata supera Dida con una specie di tiro a freccette. Ma forse le immagini più illustrative sono quelle della prova da calciatore totale target="_blank">contro il Mineiro, quando ruba palla alle soglie della propria area di rigore, la consegna a un compagno e poi si fa sessanta metri in corsa libera, per andare a raccogliere il passaggio di ritorno nell’area di rigore opposta e mettere tra le gambe del portiere il pallone del gol del due a zero.

Il 31 gennaio 2002 arriva l’esordio in nazionale nel 6-0 contro la Bolivia e il 6 marzo, in amichevole contro l’Islanda, Kakà segna il suo primo gol in maglia verdeoro per il 3-0 che concorre al 6-1 finale.

Rientra di sinistra, si sistema la palla con l’esterno e poi calcia d’interno. È uno dei suoi gol più tipici, quasi volesse subito presentarsi per quello che è.

I dodici gol segnati dal Brasile in occasione delle prime due convocazioni di Kakà, al netto della modestia degli avversari, danno la misura delle forza di quella squadra e del livello della concorrenza con cui, ancora ventenne, si misura in vista del mondiale 2002.

Eppure a giugno arriva la convocazione di Scolari, e Kakà sale sull’aereo per il Giappone per integrare un reparto offensivo che comprende due ex Palloni d’oro come Rivaldo e Ronaldo (che vincerà di nuovo quell’anno) e un futuro vincitore del premio come Ronaldinho. Il suo soprannome è O Anjinho, “l’angoletto” per la fede in Dio e la faccia da sbarbatello, ma durante la spedizione asiatica Ronaldo lo soprannomina “Kakito”, quasi fosse una mascotte. Difficilmente il fantasista del San Paolo, che si laureerà campione del mondo insieme agli altri giocando soltanto uno scampolo di partita contro il Costa Rica, può immaginare che il quarto pallone d’Oro di quel devastante attacco qualche anno dopo sarà proprio lui. Allo stesso modo, vedendolo entrare in campo contro il Costa Rica al posto di Rivaldo e sentendo il commentatore inglese che lo presenta genericamente come “wonderful young talent”, nessuno prevede che un anno dopo quel ragazzino con le orecchie a sventola, arrivato al Milan, farà accomodare in panchina e sostanzialmente passare di moda proprio Rivaldo.

In occasione di un’amichevole per il centenario del Real Madrid, è forse il giocatore meno noto ad essere invitato nella selezione “Resto del mondo”. Segna un gol bellissimo, tipicamente suo, accentrandosi e poi calciando a giro sul secondo palo. Se siete di quelli a cui piacciono le operazioni nostalgia a tema calcistico, vedere Marc Wilmots che gli passa la palla mentre Nakata taglia verso il centro dell’area vi toccherà il cuore.

Kakà e il cielo (2003-2007)

“Tutto quello che faccio è cercare Dio”

Di ritorno dal mondiale brasiliano Kakà non è più solo un grande talento, ma uno dei più grandi prospetti del calcio mondiale. Non resterà a lungo in Brasile, questo lo pensano tutti, ma sorprendentemente le grandi squadre europee su di lui sembrano meno decise che su altri. Il motivo probabilmente è proprio la singolarità di Kakà rispetto alla tradizione brasiliana e, di conseguenza, la sua mancata corrispondenza con quello che gli osservatori europei si aspettano di trovare da quelle parti. Kakà è già così europeo che si possono immaginare solo esiti estremi per il suo approdo in Europa. O un impatto immediato e devastante o la diluizione di una goccia nel mare.

Si congeda dal pubblico brasiliano con una serie di prestazioni lunari, tra cui vale la pena ricordare la tripletta messa a segno contro l’Atlético Juventus, con un terzo gol segnato a termine di un coast-to-coast che illustra bene l’immagine della valanga che ho usato prima (minuto 0:35 del video qui sotto).

Davvero pochi giocatori nella storia hanno avuto un arsenale sul tiro da fuori paragonabile a quello di Kakà. Il primo gol illustra bene una delle sue specialità, il tiro da lontano rasoterra. Pochissimi hanno la capacità di tenere basso il pallone calciando alla potenza a cui lo fa lui, ancora meno sono quelli che riescono a farlo con la sua precisione e pericolosità

Una delle prime squadre europee a tentare seriamente di prenderlo è l’Inter, ma l’affare non si conclude. Ci prova anche la Juve, ma anche in questo caso il trasferimento sfuma con una celebre battuta da asilo infantile di Luciano Moggi (“Tanto, uno con un nome così…”) Più vicino di tutte ci va il Chelsea appena acquistato da Roman Abramovich, che inoltra al presidente Marcelo Portugal una di quelle offerte con cui il petroliere russo sta ridefinendo gli standard del calciomercato. Portugal però rifiuta, spiegando che è troppo tardi: grazie alla mediazione di Leonardo il ragazzo ha già scelto il Milan, e il San Paolo ha già un accordo sulla parola con i rossoneri sulla base di 8,5 milioni (cifra che poco tempo dopo, alla luce dell’esplosione di Kakà, Berlusconi potrà definire con compiacimento “due spiccioli”. Ma questo Portugal ancora non può saperlo). L’unico effetto dell’offerta di Abramovich è quello di spingere il Milan a formalizzare l’operazione sei mesi prima del previsto.

Il 23 maggio 2003 segna contro il Paranà il suo ultimo gol con la maglia del San Paolo e il Morumbi lo saluta con un’ovazione.

Ricordo bene quel periodo - tra l’altro all’epoca ero molto più impallato di calciomercato di quanto non lo sia adesso - e il profilo molto basso con cui l’arrivo di Kakà venne gestito dal Milan e raccontato dai media. La cifra modesta pagata per il trasferimento, la notorietà limitata di Kakà fuori dai confini nazionali e il fatto che il Milan avesse appena vinto la Champions League - per cui i tifosi rossoneri non avevano ragione di proiettare aspettative eccessive su un giocatore così giovane - fecero sì che Kakà venisse accolto tutt’al più come una stuzzicante incognita. Ricordo anche che c’era l’idea diffusa che il Milan potesse mandarlo in prestito da qualche parte dopo il ritiro, per mandarlo a giocare e liberarlo da una concorrenza oggettivamente proibitiva che sulla trequarti comprende Rivaldo, Rui Costa e Seedorf, senza contare Pirlo che ha da poco iniziato ad arretrare il suo raggio d’azione. (SPOILER: alla fine della stagione, Kakà arriverà davanti a tutti i sopraccitati sia per numero di presenze che di gol).

Quel Milan è insieme ai galacticos del Real Madrid di gran lunga la squadra più forte del mondo. I suoi eroi sono quelli della Champions vinta in finale contro la Juve e hanno nomi già incisi nella memoria calcistica globale, da Sheva a Nesta, da Inzaghi a Maldini. Basta però la prima di campionato con l’Ancona, in cui Kakà nemmeno segna, a far capire a tutti che non è arrivato per fare la comparsa. È lui ad avviare l’azione che porta al 2-0, con un sombrero sulla propria trequarti a cui fa seguito un attimo di studiata esitazione, guardandosi platealmente intorno come ai giardinetti, per poi esplodere in una di quelle accelerazioni che il pubblico rossonero imparerà presto a conoscere.

Il giorno dopo è già “convincente, illuminato, davvero un buon acquisto” e “dopo una sola partita da titolare ha già conquistato l’ambiente rossonero, sia per le qualità tecniche sia per la personalità da grande giocatore”.

Due settimane dopo è il migliore in campo all’esordio in Champions contro l’Ajax, ma la sua vera esplosione è il 5 ottobre quando si prende il proscenio nel derby contro l’Inter. Schierarlo al posto di Rui Costa è la “mossa a sorpresa” di Ancelotti, ma il fatto che Kakà sia titolare non sorprende già più nessuno. Una volta al posto di Rui Costa, un’altra al posto di Seedorf, più spesso a discapito di Rivaldo, Kakà non esce più dall’undici titolare. Prima si procura la punizione dell’uno a zero, poi mette in rete di testa un pallone ciabattato in mezzo da Gattuso. L’impressione generale è che i difensori dell’inter non lo prendano mai.

Il primo decisivo gol in Champions arriva a quatto minuti dalla fine contro il Bruges, ed è un’investitura, oltre che uno dei gol più famosi e rivisti di Kakà. È lui ad avviare l’azione e poi tagliare verso la lunetta dell’area di rigore, dove riceve il passaggio di ritorno a mezza altezza. La sua stoccata di piatto destro, forte ma non più del necessario, di misura chirurgica, è l’epitome della sua armonia da calciatore vitruviano.

Foto di Toru Yamanaka (Getty Images).

Il gol da fantascienza che segna da subentrato contro l’Empoli risolvendo una partita difficilissima una settimana prima della finale di Coppa Intercontinentale, punta addosso a Kakà riflettori che non si limitano a illuminare il calciatore, ma cercano un profilo riconoscibile per creare un personaggio. Le magliette “I belong to Jesus” che Kakà mostra dopo aver fatto gol sono l’appiglio da cui parte l’indagine sulla nuova stella del calcio mondiale.

Kakà viene inquadrato nella categoria “antidivo”, il bravo ragazzo come non ce ne sono più, da additare come esempio in contrapposizione ai calciatori materialisti e viziati. Lui dal canto suo non si sottrae a questa narrativa moraleggiante, e ribadisce ogni volta che può di preferire le serate in casa a guardare un film a discoteche e occasioni mondane. I compagni di squadra confermano, e lo indicano in modo unanime come modello di condotta esemplare (anche se pare che nel Milan dei brasiliani risaltare per contrasto da questo punto di vista non fosse difficilissimo). Kakà spiega ai giornalisti che al primo posto nella sua vita c’è Gesù, al secondo la famiglia e soltanto al terzo la carriera. Insomma, fa da solo il lavoro che di solito spetta ai giornalisti per levigare l’immagine dei campioni e metterli sul mercato come modelli di virtù.

L’attenzione si sposta verso la sua vita privata, e il correlativo oggettivo della sua immagine di purezza viene identificato in Caroline Celico, diciottenne ex modella con cui Kakà si è fidanzato un anno prima, bella e religiosa al punto di servire come pastore per la stessa congregazione di Kakà. Kakà spiega che è lei quella giusta, perché “la ragazza giusta è quella che sceglie Dio”. La domande pruriginose per ora solo sussurrate (Kakà ne darà conferma pubblicamente, ma solo nel 2007) che costruiscono la narrazione plebea del personaggio riguardano la verginità preservata fino al matrimonio.

È l’inizio di un breve momento di notorietà pubblica per il movimento degli “Atleti di Cristo”, e l’evangelismo del precursore Kakà è raccontato con toni che oscillano dalla deferenza al pettegolezzo, dalla curiosità allo scetticismo, in un paese come il nostro che è allo stesso tempo culturalmente intriso di cattolicesimo ma anche estremamente pudico e diffidente rispetto alle forme religiose eccessivamente spontanee e colorite.

Per quel poco che dalle interviste si può capire di un aspetto così intimo di un personaggio pubblico, la religiosità di Kakà a questo punto mi sembra soprattutto quella di un ventenne che vuole preservare l’integrità di un mondo infantile, in cui Gesù è una specie di fratello maggiore coi superpoteri, e un braccialetto con scritto Oqjf, “O que Jesus faria”, “Quel che farebbe Gesù (al mio posto)” aiuta ad orientarsi tra il bene e il male. Per tutta la vita, fino ad oggi, Kakà continuerà a ribadire nelle interviste lo stesso concetto: lui fa il calciatore ma non è un calciatore, perché quello che lo definisce come individuo non sono i soldi, la fama o il talento, ma la fede. Forse la religione è la membrana che Kakà usa per proteggersi dal mondo deformato e seducente in cui la sua bravura con il pallone lo ha portato, come in quel brano degli Atti degli Apostoli che dice che niente di impuro può entrare negli uomini da fuori, e solo quello che sgorga da dentro di lui può contaminarlo.

La prima doppietta italiana contro la Reggina, ribaltando il risultato. Oltre a segnare due gol si procura anche un rigore.

Tornando sulla terra, è interessante ragionare su come il fortissimo impatto tecnico di Kakà sul calcio italiano ed europeo possa essere descritto anche come uno shock culturale. Soprattutto nella stagione 2003/2004, la prima in maglia rossonera, Kakà fa quello che vuole anche perché gli avversari, semplicemente, non sono attrezzati per capire, interpretare e provare a contrastare il suo gioco. Questo spiega anche la sensazione di incredulità che ricordo di aver provato nel vedere domenica dopo domenica a Novantesimo Minuto le sue inesorabili sgroppate, traducibile nel desiderio di gridare ai difensori attraverso lo schermo: “ma santo cielo, non vi accorgete che fa sempre la stessa cosa???”. Non era sempre la stessa cosa, erano variazioni su un tema, era l’infinito perfezionamento di un’idea: quello che fanno i grandi artisti.

Un’immagine forse semplicistica ma che secondo me rende bene l’idea è quella di un giocatore che inizia l’azione come un trequartista e la finisce come un attaccante, o che, se preferite, si lancia da solo. Prendiamo il gol che segna nel derby di ritorno:

Quando Kakà riceve palla, pochi metri oltre centrocampo, nella metà campo dell’Inter ci sono soltanto lui e Tomasson (più un terzo compagno irriconoscibile dalle immagini, molto defilato sulla sinistra) contro cinque (cinque!) giocatori dell’Inter, più Toldo. Tomasson taglia bene da sinistra a destra, ma rappresenta l’unica soluzione di passaggio mentre Kakà avanza palla al piede, per cui se Kakà fosse chiunque altro per i difensori dell’Inter sarebbe piuttosto semplice costringerlo a rallentare e impedirgli le due soluzioni più pericolose: continuare ad accelerare palla al piede o servire Tomasson in profondità. Invece hanno circa due secondi di esitazione che si riveleranno fatali, e l’esitazione deriva dal fatto che 1) Kakà è in grado di correre in pieno controllo del pallone ma senza guardarlo, il che gli consente di aspettare eventuali tackle dei difensori a testa alta, guardandoli più o meno negli occhi, in totale controllo della situazione; 2) sembra che Kakà stia correndo alla massima velocità, ma i difensori, che l’hanno visto giocare tutto l’anno, sanno che non è vero. Se percepisse un tentativo di aggressione scatterebbe in avanti come un’aspide, con quel terrificante movimento oscillatorio della testa che nei momenti di massima accelerazione conferisce alla sua corsa un’aria bestiale e famelica in spiacevole contraddizione con il suo consueto aspetto di personcina a modo, e quindi; c) i difensori non trovano di meglio che corricchiare all’indietro sperando che l’inevitabile riduzione dello spazio a disposizione porti il pallone addosso a uno di loro o costringa Kakà a rallentare, curvare o quantomeno – santiddio! – lo destablilizzi in qualche modo, ma; d) Kakà è anche in grado di tirare e segnare da qualsiasi posizione entro i 35 metri dalla porta o giù di li, e questo è quello che succede proprio un attimo prima che Cordoba ed Helveg gli arrivino addosso da due parti opposte, e anche un attimo primo che Toldo completi l’ultimo passo in avanti necessario a chiudere del tutto lo specchio della porta. (avrete capito che “un attimo prima” è il concetto chiave). Il gol con la Samp è un buon esempio di Kakà che “fa sempre la stessa cosa”, ma gli avversari non hanno idea di come impedirglielo.

Il vertice del suo primo anno in italia è anche il preludio alla prima sconfitta davvero bruciante della sua carriera. Il 3 marzo a San Siro arriva il Deportivo per i quarti di finale di Champions League, il Milan vince 4 a 1 (ma per quello che di vede in campo il risultato avrebbe tranquillamente potuto essere anche più largo) e Kakà segna i primi due gol. Quello dell’uno a zero, segnato allo scadere del primo tempo senza lasciare che la palla tocchi terra, agganciandola con la coscia sinistra per poi calciare di destro dall’alto verso l’angolo basso a destra del portiere, è un saggio di limpidezza tecnica paragonabile a un dritto vincente di Roger Federer.

Non che il secondo gol, al minuto 1:52 del video, invece sia brutto

Due settimane dopo al Riazor, in uno dei ribaltamenti più clamorosi e chiacchierati della storia recente del calcio Europeo, il Deportivo vincerà per quattro a zero e metterà fine al sogno rossonero di una seconda Champions consecutiva, che sembrava davvero a portata.

Lo shock per l’ambiente milanista è fortissimo (anni dopo nella sua autobiografia Andrea Pirlo alluderà apertamente alla sensazione avuta in campo che i giocatori del Deportivo giocassero sotto l’influsso di qualche sostanza illecita) ma viene attutito meno di un mese dopo dalla conquista dello scudetto nello scontro diretto con i diretti inseguitori della Roma. Kakà festeggia il suo primo titolo nazionale servendo a Shevchenko l’assist per il gol decisivo .

Sul trimestrale “Linea Bianca”, uno dei primi tentativi di rivista di letteratura calcistica colta in Italia, nientemeno che Maurizio Cacciari dedica a Kakà un breve saggio, associandolo all’immagine del “puer”: “Il puer – spiega a Repubblica -è quel calciatore solitario, eternamente giovane e geniale. Una sorta di amorino che evoca l' idea di leggerezza e di eleganza. In lui rivedo Rivera (...)Poi ci sono i guerrieri, come Gullit. Non a caso lui è il simbolo del mio Milan più bello. Ci sono i giocatori che fanno le squadre come Platini e Zidane. Invece un puer era anche Baggio (...) Kakà è antitetico quindi anche al suo presidente. Berlusconi incarna l' opposto del puer: è il vir, decisionista, aggressivo. Kakà ha una grandissima classe. Speriamo che regga psicologicamente. Perché in Italia il campionato ha una tensione e una pressione che rendono tutto durissimo. Non è il più bello, ma il più pesante del mondo. Qui si sarebbe rovinato anche Pelè. Un altro puer che aveva bisogno di Didì a proteggerlo. Io spero che Kakà resista, anche se la Spagna sarebbe stata il campionato ideale per lui”. Non sono sicuro che l’interpretazione di Cacciari mi convinca, soprattutto nelle analogie, ma mi pare che questa magniloquente elegia restituisca bene il clima di attesa che nel 2004 si respirava per l’imminente esplosione di Kakà.

Sembra insomma che ci siano tutte le condizione perché nella stagione successiva il “puer” diventi il leader della squadra e uno dei tre o quattro migliori giocatori al mondo, e invece il 2004/2005 è l’anno di una crisi profondissima e apparentemente inspiegabile. Nelle prime uscite stagionali il ragazzo è irriconoscibile, al punto che già a metà settembre Ancelotti avverte la necessità di difenderlo pubblicamente: “non vorrei che il rendimento di Kakà diventasse il tormentone dell’autunno”. L’autunno per la verità non è nemmeno incominciato, a novembre la situazione è abbastanza critica da attirare a Kakà un rimbrotto di Berlusconi in persona: “deve tornare a giocare con più semplicità”.

Io invece, forse per un pregiudizio di conferma rispetto alla sensazione dell’anno precedente che Kakà facesse “sempre la stessa cosa”, mi faccio all’epoca un’idea del tutto opposta delle ragioni della sua crisi; un’idea non troppo lontana da quella che – scopro oggi – Kakà espone in un’intervista in dicembre: “Le difficoltà del secondo anno di Italia sono enormi, sì: mi sono accorto che gli allenatori avversari mi studiano al videoregistratore per spiare i miei movimenti e in campo ho sempre almeno due avversari addosso. Allora ho provato a cambiare il mio modo di stare in campo, cercando altre giocate e movimenti diversi. E ho anche imparato a sopportare le critiche, per due mesi mi sembrava di giocare discretamente ma poi leggevo che segnavo poco... Ma capisco tutto, accetto tutto, il calcio è così: dipende tutto dai risultati e dai gol che si fanno”.

Intanto nonostante la flessione al Milan Kakà è diventato un punto fermo della nazionale. Qui segna un gol decisivo per le qualificazioni mondiali dopo una combinazione da all-star Game con Robinho, Ronaldinho e Ronaldo

All’inizio del girone di ritorno il Milan mette in fila due sconfitte contro Livorno e Bologna, e dopo quest’ultima partita la deposizione simbolica del campioncino brasiliano sembra compiersi nella celebrazione della mossa tattica di Carlo Mazzone, che è riuscito a “cancellarlo dal campo” facendolo marcare a uomo da Colucci. Nei casi estremi il sottotesto del ragionamento è che a fermare Kakà sarebbe stata da sempre sufficiente questa soluzione relativamente banale. E quindi Kakà è stato sopravvalutato fin dall’inizio. Cito da Repubblica: “E Kakà, il giocatore che scardinava tutte le difese accelerando a zig-zag verso la porta, è diventato marcabile: a uomo, come ha fatto proprio Mazzone domenica appiccicandogli Colucci, ma anche a zona, chiudendogli gli spazi. Più dei numeri - 4 gol finora, invece dei 7 segnati a questo punto la scorsa stagione - contano le prestazioni. Il nervosismo del ventitreenne brasiliano, in campo, è evidente quanto la sua minore concretezza sotto porta”. Lo stesso articolo accenna alla possibilità che il Milan si faccia ingolosire dalle offerte del Chelsea e a fine stagione lo lasci partire.

In realtà, Kakà si sta evolvendo. Ha capito che per salire l’ultimo gradino nelle gerarchie calcistiche mondiali gli serve maggiore imprevedibilità e ha deciso di “cambiare il mio modo di stare in campo, cercando altre giocate e movimenti diversi”. In un certo senso, ha preferito avere un calo di rendimento immediato, piuttosto che rischiare di diventare meno efficace in un imprecisato momento futuro, senza poterci fare niente. Non impiega molto tempo a tornare più forte di prima.

La seconda esplosione di Kakà si compie nella competizione più bella di tutte, nella partita più importante dell’anno. In semifinale di Champions un Milan in forma precaria ha bisogno di lui, e Kakà ritorna se stesso. Spazza il campo da una parte all’altra come una tempesta, scalda le mani del portiere da lontanissimo, poi infila una gran palla in profondità per l’uno a zero di Sheva e ancora, a un minuto dalla fine, propizia anche il secondo gol di Tomasson.

Il Milan va in finale contro il Liverpool, e se quella partita non fosse sfuggita ad ogni logica, se la sentenza del tre a zero del primo tempo non fosse stata rovesciata da un incredibile giudizio d’appello, oggi ci ricorderemmo della grande prestazione di Kakà e del perfetto tempismo della sua resurrezione calcistica. Invece tra le tante realtà imminenti spazzate via dal brutto sogno di Istanbul c’è anche questa. Kakà però è tornato, con la motivazione aggiuntiva di rifarsi della seconda consecutiva imponderabile beffa europea.

Il 2006 è un’annata senza vittorie e immalinconita dalla delusione del mondiale di Germania, dove arriva da protagonista annunciato ma non riesce a lasciare il segno al di là di un gran gol contro la Croazia. È comunque un anno memorabile per Kakà, per il rendimento individuale e per quelli che sono ricordati come forse i due gol più belli della sua carriera. Il primo è quello in Champions con il Fenerbahce, quando sembra davvero che l’erba dietro di lui possa prendere fuoco:

Il secondo lo segna con la nazionale in amichevole contro l’Argentina, ed è tanto bello quanto carico di significati simbolici. Il tizio coi capelli lunghi a cui Kakà ruba palla sulla propria tre quarti e che poi prova inutilmente a inseguirlo in un travolgente coast-to-coast è Leo Messi, esploso di recente come miglior prospetto mondiale. Qui Kakà sta dicendo: “per ora il migliore sono io”.

Ha ragione, il migliore è lui, e nel 2007 si prende tutto. Per un Milan che in campionato parte penalizzato di otto punti, senza più Stam e Rui Costa tornati in patria e soprattutto senza più Shevchenko passato al Chelsea, tutte le speranze passano dai suoi piedi. Lo dice anche Sheva stesso andando via: “il Milan ha già un giocatore che può raccogliere la mia eredità: è Kakà”.

Miglior marcatore stagionale della squadra con 18 gol, trascina il Milan da -8 al quarto posto, ma il suo capolavoro lo realizza in Champions League. Raramente prima si era visto un giocatore segnare così tanti gol da cineteca in una sola edizione, raramente si era visto e si vedrà dopo un giocatore così decisivo nel portare alla vittoria finale una squadra che probabilmente, per il resto, era un gradino sotto le più forti d’Europa.

Le vibrazioni sono fortissime già durante il girone, quando Kakà segna quattro gol in due partite al malcapitato Anderlecht, uno su rigore e tre da stropicciarsi gli occhi. In Belgio decide la partita con una saetta da 25 metri, ma a San Siro fa anche di più:

La veronica con cui si libera dell’avversario in occasione del primo gol è frutto di un momento di pura illuminazione, mentre il secondo è un vero “gol alla Del Piero”, di quelli che in realtà Del Piero ha smesso di fare tipo a 23 anni

Le soglie del paranormale vengono però definitivamente varcate agli ottavi contro il Celtic, quando dopo 120 minuti senza gol e a una manciata di secondi dai supplementari Kakà fa questa cosa qui:

Tra le capacità di Kakà a questo punto della carriera ci sono quella di far volare via gli avversari che cercano di contrastarlo come se fosse circondato da uno scudo invisibile di energia, e quella di dribblare qualsiasi oggetto si frapponga tra lui e la porta limitandosi a cambiare lievemente direzione.

E poi ovviamente c’è la la leggendaria doppia semifinale col Manchester United, lo zenit esistenziale dell'andata all’Old Trafford e il gran sinistro a incrociare al ritorno a San Siro, con il primo gol in diagonale di sinistro da un angolo impossibile e soprattutto il secondo, che se non è il suo gol più bello di certo è il più famoso, e in effetti è una grande istantanea della carriera di Kakà e del suo rapporto con il suo talento: gli avversari trafelati che si scontrano e cadono come marionette, Kakà con lo sguardo fisso davanti a sé, sulla linea che parte dai suoi occhi, attraversa il pallone e termina in porta.

“io lo tengo come uno dei gol più belli che ho fatto in tutta la mia carriera”

Kakà e la terra (2007 - oggi)

“Pianto, annaffio, ma il frutto viene da Lui. In questo modo,

vittoria e sconfitta non mi appartengono più”

Il Milan vince la Champions e Kakà vince il Pallone d’Oro. Ai due gradini del podio sotto di lui c’è il binomio che dominerà il calcio mondiale da lì in poi: Cristiano Ronaldo e Messi. Nessuno finora è più riuscito a metterseli dietro entrambi, mai più il premio è stato assegnato ad altri che loro due. Nei due anni successivi al Milan Kakà farà ancora grandi cose, ma lentamente delle crepe inizieranno ad incrinare la superficie liscia e splendente del suo mondo.

Un anno dopo sembrerà vicinissimo a firmare per il Manchester City, ma un happy ending hollywoodiano lo vedrà preferire la maglia del Milan ai miliardi dello sceicco. Farà così in tempo a tentare di arginare il percorso di perdizione del connazionale Pato, ma altri 6 mesi dopo non potrà rifiutare la corte del Real Madrid. Troppo ricca l’offerta al Milan, troppo sostanzioso l’ingaggio offerto a lui, troppo allettante l’ipotesi di misurarsi ancora ventisettenne col peso della camiseta più importante del mondo.

Sarà l’inizio del declino di Kakà. Mentre ancora gioca nel Milan Estevam e Sônia Hernandes di Renacer em Cristo, a cui Kakà è legato da una profonda amicizia oltre che dalla funzione di testimonial e generoso finanziatore, vengono arrestati all’aeroporto di Miami mentre cercano di entrare negli Stati Uniti con le valigie piene di Bibbie. Un funzionario zelante si è accorto che tra le pagine dei sacri testi sono nascosti 56.000 dollari di provenienza misteriosa.

Inizialmente Kakà si dirà pronto a mettere la mano sul fuoco sull’innocenza dei due predicatori, ma gli sviluppi del processo - che comunque si concluderà con l’assoluzione di entrambi gli accusati - lo spingerà nel 2010 a prendere le distanze da Renacer. Nello stesso momento Caroline, diventata sua moglie nel 2005 e poi madre dei suoi due figli, lascerà il ruolo di pastore. Kakà ripete che la delusione provata nei confronti di due persone di cui si fidava non arriva a intaccare la sua fede, più forte che mai. È ancora come negli Atti degli Apostoli: nulla di impuro può entrare nell’uomo da fuori. Nulla.

Nel 2013 Kakà torna al Milan. Non va malissimo come il ritorno di Sheva qualche anno prima, ma nel complesso il saldo della malinconia eccede quello delle soddisfazioni. Un anno dopo, appena trentaduenne, firma per il prepensionamento calcistico all’Orlando City, ma prima chiude il cerchio sentimentale facendosi prestare per sei mesi al San Paolo. A casa l’affetto della gente lo travolge, ma segna solo tre gol in più di venti partite.

Da due anni a questa parte Kakà vive e gioca in Florida, contribuendo a portare sponsor e visibilità a un calcio statunitense in grande crescita. Contro ogni previsione, le sue prestazioni in un campionato di livello modesto sono state così trascinanti da riportarlo nel giro della nazionale. Tre giorni fa il trentaquattrenne Kakà è stato preconvocato dal Brasile per la prossima Copa América.

In America si è preso la maglia numero 10, mai indossata in carriera, e tira pure le punizioni. Su ritmi diversi, non ha perso la capacità di galleggiare sulla trequarti, occupando spazi invisibili a tutti gli altri.

Lo scorso agosto Caroline Celico (la ragazza scelta da Dio. Ma Dio, ripete più di una volta il vangelo di Giovanni, nessuno lo ha mai visto) ha pubblicato su Instragram una foto di famiglia in cui lei, Kakà e i bambini sorridono insieme in un momento di serenità. Nella didascalia sottostante, c’era l’annuncio della separazione tra lei e Kakà: “chiediamo alla stampa e ai fan di non giudicare, di non fare commenti basati solo sulla conoscenza della piccola porzione pubblica della nostra vita privata. (…) Solo io e Kakà conosciamo le nostre divergenze, che dopo molti tentativi abbiamo capito di non poter risolvere (…) La storia che ci ha formato sarà con noi per sempre. Saremo sempre una famiglia”.

È possibile essere una superstar calcistica globale e allo stesso tempo un buon cristiano? La questione mi pare interessante, e non sto parlando soltanto di crune e di aghi. Riformulo: si può essere una delle colonne portanti di quella portentosa industria dell’intrattenimento che è il calcio ed essere allo stesso tempo un buon cristiano?

Se il peccato è l’assenza di Dio, l’inferno è un mondo nel quale il posto di Dio è usurpato da una fonte di luce mondana, che dà speranza e aiuta a dimenticare la paura della morte. A Dio può piacere il calcio, può piacere questa esibizione di corpi sempre giovani, di volti lisci e sazi, di danze pagane? È possibile abitare la suite di questo castello di cristallo, di questo monumento alla vacuità, e allo stesso tempo testimoniare la morte in croce, la resurrezione e la fine del mondo? Può l’uomo pensare a Dio se è occupato a guardare Kakà che consuma il campo verde come la pista d’atterraggio di un Concorde? Può Dio perdonare l’uomo per la sua distrazione? Può perdonare Kakà? Dio ride?

Mi piacerebbe parlare di queste cose con uno come Kakà. Probabilmente avrebbe risposte molto diverse dalle mie, ma non credo sarebbero risposte banali. Magari oggi, con le esperienze che ha vissuto, Kakà mi citerebbe il Vangelo di Giovanni e mi direbbe che, in fondo, Dio nessuno l’ha mai visto.

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