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Mario Maldini
C'era una volta nelle Samoa Americane
22 gen 2024
22 gen 2024
L’arrivo di Thomas Rongen ha cambiato la storia sportiva delle remote isole del Pacifico.
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Mario Maldini
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Al triplice fischio dell’arbitro, Nicky Salapu si accascia sul fianco come se una freccia gli avesse trafitto il cuore. Alle sue spalle, il pallone calciato sotto la traversa dall’australiano Zdrilic è appena ricaduto oltre la linea di porta, ma il portiere delle Samoa Americane non ha nemmeno più la forza di voltarsi. Pietrificato, con lo sguardo perso nel vuoto, Salapu preferirebbe trovarsi ovunque tranne che sul prato dello Stadio Internazionale di Coffs Harbour, sulla costa orientale dell’Australia. È la sera dell’11 aprile 2001 e la sua Nazionale ha appena subito 31 (trentuno) gol dai padroni di casa senza segnarne nemmeno uno.

Quella partita del girone di qualificazione ai mondiali di Corea-Giappone 2002 rimane a oggi la più larga vittoria – o la più pesante sconfitta, a seconda dei punti di vista – in una competizione internazionale; uno spartiacque per la storia sportiva delle Samoa Americane e dell’intera Oceania Football Confederation (OFC). Per minimizzare il rischio di altri risultati “imbarazzanti”, la FIFA ha successivamente introdotto sostanziali modifiche al regolamento – i turni preliminari nella OFC e lo spostamento dell’Australia nella Asian Football Confederation (AFC) – ma a spianare la strada verso la débâcle di Coffs Harbour era stato proprio un intervento della federazione allora presieduta da Sepp Blatter. Ragazzo del territorio Le Samoa Americane – cinque isole principali e due atolli corallini – sono il territorio più a sud degli Stati Uniti e, insieme alla disabitata Isola Jarvis, l’unico a trovarsi al di sotto dell’equatore. A livello amministrativo sono considerate territorio non incorporato e godono di un certo grado di autonomia dal governo centrale di Washington. Ciononostante, alla vigilia del torneo di qualificazione mondiale dell’aprile 2001 in Australia, la FIFA ha preteso che l’allora CT Tonoa Lui convocasse solo calciatori in possesso di regolare passaporto americano. Essendo la maggior parte della popolazione delle Samoa Americane composta da cittadini delle vicine Isole Samoa, solamente un giocatore della Nazionale risultava idoneo alla convocazione: il giovane e acerbo portiere di riserva Nicky Salapu. «Alla fine cercavamo solo di trovare qualcuno che avesse un passaporto americano. Se l’avevi, eri della squadra», ha detto Salapu in un’intervista a FourFourTwo. La maggior parte della selezione under-20, ultima credibile speranza del CT Lui, era impegnata con gli esami scolastici e non poteva partire per l’Australia. I "Boys from the Territory" – nome con cui è conosciuta la Nazionale delle Samoa Americane – affrontavano dunque le prime qualificazioni mondiali della loro storia con una squadra composta da un portiere esordiente, due quindicenni e da altri che non avevano mai giocato una partita intera nella loro vita. «Sapevano a malapena calciare un pallone», ricorda Salapu, che a ogni calcio piazzato a favore era costretto a lasciare la porta e attraversare di corsa tutto il campo. Era l’unico in grado di colpire la palla con abbastanza forza. Come la maggior parte dei suoi conterranei, anche Salapu aveva lasciato le isole prestissimo. Ad appena tre mesi di vita, la nonna e la zia lo avevano portato con loro nelle vicine Isole Samoa, dove sarebbe rimasto fino all’età di 19 anni. È lì che Salapu ha fatto la gavetta da calciatore, e le prime disfatte delle Samoa Americane le ha vissute dalla parte dei carnefici. «Ho giocato per la squadra del mio villaggio, poi per le selezioni Under 12, Under 15 e Under 17 delle Samoa. Affrontare le Samoa Americane significava vittoria assicurata. Non li consideravamo dei veri rivali, era come bullizzare dei bambini». Quale metafora più adatta del bullismo per descrivere il trattamento riservato alle Samoa Americane al torneo di qualificazione australiano nell’aprile 2001? La squadra di Tonoa Lui ha concluso il proprio gruppo all’ultimo posto, segnando 0 gol e subendone 57, consolidando così anche la propria posizione in fondo al ranking FIFA. «Dopo l’Australia ho pensato di smettere e dedicarmi al rugby. Poi però ho realizzato che abbandonare il calcio significava buttare all’aria dieci anni di vita. Dovevo continuare a fare ciò che amavo». Per uno strano scherzo del destino, Salapu ha trascorso i mesi successivi proprio in Australia, tra le file del Palm Beach SC. Alla scadenza del visto si è trasferito a Seattle, nella speranza di trovare posto in qualche squadra americana. «Ho pagato 50$ per due provini con i Seattle Sounders, ma avevano fin troppi tesserati. Per entrare dovevi per forza conoscere qualcuno».

Nicky Salapu ai Giochi del Pacifico 2019 (foto dal sito ufficiale)

Salapu, sorriso bonario incorniciato da un viso arrotondato e rassicurante, è tornato a difendere la porta delle Samoa Americane nel 2002, per le qualificazioni alla OFC Nations Cup, e nel 2004, per cercare di conquistare un posto ai Mondiali di Germania 2006. Com’era lecito aspettarsi, i "Boys" hanno perso tutte le otto partite giocate in quell’infelice triennio. Sarebbe stato oltremodo ingiusto se la carriera in nazionale di Salapu si fosse conclusa con la mancata convocazione ai Giochi del Pacifico 2007 per aver perso una coincidenza nelle Hawaii. Fortunatamente per Nicky e i suoi compagni, un nuovo personaggio stava per fare il suo ingresso in questo tragicomico romanzo isolano. Thomas il viaggiatore Il 6 aprile 2011 all’Estadio Mateo Flores di Città del Guatemala si giocano i quarti di finale del Campionato nordamericano Under 20. La partita più attesa è quella tra la Nazionale ospitante e gli Stati Uniti, finalisti della precedente edizione. Sulla panchina degli USA siede l’olandese Thomas Rongen, che dal suo arrivo nel 2001 ha sempre portato la nazionale a qualificarsi per i Mondiali di categoria. Quell’anno, però, le speranze statunitensi crollano sotto i colpi di Gerson Lima e Henry López, che segna dopo appena tre minuti dal pareggio di Conor Doyle. L’eliminazione dal torneo e la mancata qualificazione ai Mondiali costano a Rongen la panchina, ma sono il proverbiale battito d’ali che scatena un tornado nelle lontane Samoa Americane. «Amo viaggiare, così quando il capo della USSF [United States Soccer Federation, ndr] mi ha detto che alle Samoa Americane serviva aiuto nelle qualificazioni [ai Mondiali, ndr], sono andato da mia moglie e le ho chiesto "Dove sono le Samoa Americane?". "In Polinesia, vicino alle Fiji", mi ha risposto. Non mi serviva sapere altro, ho accettato il lavoro». Le parole di Thomas Rongen al podcast di Zach Lowy ben riassumono il suo approccio alla professione e alla vita: aperto, curioso e caparbio. «Sentivo di poter fare la differenza. Amo le sfide, le novità, poter imparare una nuova lingua [ne parla fluentemente cinque], vedere le cose da un’altra prospettiva». Crescere ad Amsterdam tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio dei ‘70 è stato decisivo per la formazione di Rongen. «La maggioranza dei giocatori dell’Ajax di quel periodo veniva da un quartiere di Amsterdam abitato da artisti, architetti, calciatori, attori e musicisti: persone abituate a pensare fuori dagli schemi (outside-of-the-book), creative, anticonformiste. Penso che questo abbia contribuito parecchio a formare il mio pensiero». Anche se non ha mai indossato la maglia dell’Ajax, grazie alla sua militanza nella squadra olimpica olandese Rongen ha potuto conoscere da vicino due leggende del club e del calcio mondiale: Rinus Michels e Johann Cruijff. È stato Michels a proporre a Rongen di seguirlo in America per giocare nei Los Angeles Aztecs, squadra dell’allora NASL [North American Soccer League, ndr]. Se la prospettiva di essere allenato dal “generale” Michels non fosse bastata a convincere il ventiduenne Thomas, quella di giocare con Johann Cruijff – tesserato dagli Aztecs quello stesso anno – dev’essere stata più che sufficiente.

«Per sei mesi ho vissuto a contatto con la famiglia Cruijff», ricorda Rongen, «Johann non faceva altro che parlare di calcio e di come migliorarlo. In un quaderno aveva iniziato ad appuntarsi, ben prima di firmare per il Barcellona, un progetto per la Masia. In fondo alla prima pagina aveva scritto in olandese: "le dimensioni non contano". Non fosse stato per Michels e Cruijff, forse i vari Xavi, Iniesta e Messi non sarebbero mai finiti nella Masia». Per un allenatore caparbio e cosmopolita, cresciuto a pane e calcio totale come Rongen, la sfida sportiva lanciata dalle Samoa Americane era troppo allettante per lasciarsela scappare. «L’intera storia delle Samoa Americane, una squadra che non vinceva da diciassette anni e aveva subito la più pesante sconfitta nella storia delle qualificazioni mondiali, parla di affrontare le avversità, la perdita e andare avanti nonostante tutto». Ripartire dai fondamentali Prima ancora di dare l’incarico a Thomas Rongen, la federazione delle Samoa Americane aveva concesso a due giovani registi inglesi, Mike Brett e Steve Jamison, di raccogliere materiale sulla vita dei giocatori della Nazionale dentro e fuori dal campo. Inizialmente il progetto era stato accolto con scetticismo: la famigerata sconfitta contro l’Australia aveva attirato sulle isole l’attenzione di molte troupe del cinema e della televisione, non sempre con fini lusinghieri. «Ci hanno detto che tutti volevano prendersi gioco delle loro sconfitte. Noi volevamo celebrare il fatto che stessero continuando a giocare», hanno raccontato Brett e Jamison. Insieme al produttore Kristian Brodie sono rimasti nelle Samoa Americane per sei settimane, guadagnandosi la fiducia dei giocatori e della federazione. Sono poi ritornati sulle isole nel 2011 dopo l’arrivo di Rongen, e hanno continuato le riprese con il benestare dell'allenatore. Alla fine i due registi avevano raccolto più di trecento ore di materiale, dal quale hanno tratto l’acclamato documentario Next Goal Wins, uscito nel 2014.

L’allenamento delle scivolate è tra le sequenze più memorabili del documentario di Brett e Jamison (IMDb).

A bordo del piccolo aereo che sorvola le Samoa Americane, verdi isole vulcaniche che svettano su un mare cristallino, Thomas Rongen prende appunti su un taccuino con le pagine incorniciate dalle linee di un campo da calcio in miniatura. Nell’inquadratura successiva lo ritroviamo in mezzo a un vero campo in erba: maglietta e pantaloncini della Nazionale americana, cronometro al collo, Rongen dirige l’allenamento fischiando e gridando, sbracciandosi come un direttore d'orchestra allucinato. Nel caos di un’esecuzione tutt’altro che impeccabile degli esercizi, qualche volta il pallone gli carambola addosso e Rongen non trattiene qualche colorita imprecazione. La voce è profonda, inasprita da troppe urla o troppe sigarette; le indicazioni sono poche ed essenziali, a tratti criptiche come formule magiche («Three touches! Play green! Dead! Yellow ball!»). Si rivolge ai giocatori col piglio di un padre premuroso ma inflessibile; se le parole non bastano, entra in campo per mostrare loro i movimenti o spostarli fisicamente nella posizione corretta. Come scrive Fabrizio Gabrielli nel suo pezzo dedicato alle imprese africane dell’allenatore francese Hervé Renard, "nella maniera in cui tocca i suoi giocatori, come un amico che se è necessario ti prende a pugni, per il tuo bene, per farti capire dove stai sbagliando, c’è il segreto dell’alchimia che [Renard] instaura con i suoi giocatori. Il suo personalissimo tocco". Per farsi un’idea del livello calcistico delle Samoa Americane prima dell’arrivo di Rongen è sufficiente il montaggio che Next Goal Wins dedica ai Giochi del Pacifico 2011. Una desolante sequenza di errori commessi da giocatori spaesati e disorganizzati. Gli unici, tenui bagliori di agonismo arrivano dalle parate di Salapu, eseguite con l’urgenza e la disperazione di chi non potrebbe proprio sopportare di ricevere un’ennesima umiliazione. Il portiere, ormai veterano della Nazionale, si è da poco riunito alla squadra portando con sé da Seattle un altro figliol prodigo delle isole. Predecessore di Rongen e allenatore (volontario) delle Samoa Americane ai Giochi del 2011, Larry Mana’o è più che altro un motivatore alla ricerca della scossa che possa rianimare un gruppo fiaccato nel corpo e nello spirito dalle ripetute sconfitte. «Quando trovi un animale ferito, cosa fai? Lo accarezzi, lo tratti come un bambino, metti un cerotto sulle sue ferite!? No! Lo uccidi! Lo uccidi e poi lo mangi!», esclama uno spiritato Mana’o al termine della sconfitta per 2-0 contro Guam. Al 58’, poco dopo essere passati in vantaggio, gli avversari erano rimasti in dieci per l’espulsione del difensore Edward Calvo. Il fatto che le Samoa Americane non avessero approfittato della superiorità numerica aveva mandato Mana’o su tutte le furie.

Il capitano delle Samoa Americane, “Jr” Amisone, ascolta basito il suo allenatore (Next Goal Wins).

A giudicare dai primi piani catturati da Brett e Jamison negli spogliatoi, la cruda metafora venatoria dell’allenatore più che scuotere i giocatori dal torpore sembra metterli in serio imbarazzo. Alla fine, né la grinta di Mana’o né le parate di Salapu bastano a evitare alle Samoa Americane l’ennesima disfatta internazionale. I "Boys" chiudono i Giochi del Pacifico 2011 con cinque sconfitte su altrettante partite e con 26 gol subiti.

L’esperienza di Rongen con le squadre giovanili è dunque vitale per un gruppo che deve letteralmente ripartire dai fondamentali. «Ho allenato ragazzine di otto anni, ragazzi delle superiori, universitari: sono abituato a portarmi dietro coni e palloni, e a improvvisare gli esercizi sul momento». In una delle scene più evocative del documentario Rongen chiama a raccolta la squadra mentre infuria un acquazzone tropicale. La pioggia cade fitta e senza sosta, inzuppando il terreno e le persone. Due bambini, parte del giovanissimo gruppo di curiosi che non si perde un allenamento della Nazionale, trasportano a fatica un grande ombrellone verso il centro del campo. Rongen è scalzo, come lo sono i suoi giocatori ai quali sta spiegando che imparare a fare i contrasti è essenziale per evitare il cartellino rosso. Passa poi alla dimostrazione pratica, scivolando per svariati metri nel campo inzuppato fino a togliere il pallone a uno dei suoi assistenti. «Stasera niente sesso, sono stanco morto», esclama rialzandosi tra le risate generali. A tratti, più che un padre Rongen è lo zio molesto di questa Nazionale. Uno alla volta i giocatori provano a contrastare il loro allenatore, mandandolo gambe all’aria in più di un’occasione. La pioggia cade senza sosta e loro, bagnati e infangati dalla testa ai piedi, si divertono come bambini. Fa'afafine Forse il segreto del successo di Rongen sta nell’aver saputo preservare una certa dose di spensieratezza infantile. Vivere a pieno il presente senza preoccuparsi del futuro incerto o del passato doloroso. Live the moment, dice ai suoi giocatori riuniti attorno a una grande tavola allestita a bordo campo. Stretti nelle loro felpe mentre reggono bicchieri di plastica colorata sembrano un gruppo di amici durante una cena di fine estate al chiaro di luna. Qualcuno imbraccia un ukulele mentre altri intonano un canto popolare. Dopo aver lanciato qualche bonaria frecciatina ai giocatori, Rongen racconta la tragica storia di sua figlia Nicole. Anche lei calciatrice, ha perso la vita in un incidente stradale a soli 19 anni, età non troppo diversa da quella dei ragazzi che ora ascoltano rapiti il loro allenatore. «Nella vita vi saranno concesse poche opportunità, quindi cercate di coglierle. Anche le avversità possono diventare occasioni, non devono per forza essere degli ostacoli». Jaiyah Saelua ascolta con attenzione l’accorato discorso del suo allenatore, con cui da subito ha sviluppato un rapporto speciale. «Il primo giorno ho raccolto tutti i passaporti e radunato i giocatori in una stanza», racconta Rongen. «Alle mie spalle c’erano due lavagne con disegnati dei moduli, in una il 4-4-2 e nell’altra il 4-3-3, e chiedevo a tutti di indicarmi il loro posizionamento ideale in ciascuna formazione. Quando ho visto Jaiyah venirmi incontro, con i suoi lunghi capelli lisci, ricordo di aver pensato "Lei dev’essere la massaggiatrice": tipico sarcasmo [sic!] olandese. Poi però l’ho vista puntare il dito sulle lavagne in corrispondenza del centrali di difesa. Visto che il suo passaporto recitava "Johnny Saelua" al primo allenamento le ho chiesto come avrei dovuto chiamarla e ha risposto "Jaiyah". Poi ha aggiunto: "Mister, sei il primo Pālagi ["uomo bianco" in lingua samoana, ndr] da cui mi sento accettata"».

Jaiyah Saelua palleggia nel Pago Park Soccer Stadium di Pago Pago. Nella sua storia, la nazionale delle Samoa Americane non ha mai disputato una partita ufficiale nel campo di casa (Sports Gazette).

Saelua è una “fa'afafine”, che in lingua samoana significa "essere donna". «Più che un’identità [di genere], è uno stile di vita», spiega Saelua. Nelle Samoa si identificano come “fa'afafine” uomini omosessuali, donne trans e persone non binarie. «I samoani guardano nell’intimo delle persone, non quello che indossano o cos’hanno in mezzo alle gambe», racconta Jaiyah. «Culturalmente noi “fa'afafine” rivestiamo un ruolo importante, svolgendo compiti maschili e femminili quando la famiglia lo richiede». Per questo loro ruolo le “fa'afafine” sono ritenute più vicine a Dio. «In alcune famiglie non è così facile essere accettate», ammette Saelua, «soprattutto per questa idea occidentale che dovremmo crescere facendo ‘cose da uomini’. Durante le partite contro le Isole Cook e Tahiti sentivo gli avversari fare commenti sgradevoli; immagino fosse una strategia per scoraggiarmi, ma serviva solo a farmi giocare più duro». Nonostante sia approdata al calcio internazionale ad appena quattordici anni, più che diventare una calciatrice professionista Jaiyah sognava di unirsi a una compagnia di danza («Qualcosa di moderno, jazz, magari anche un po’ di balletto») ed esibirsi in giro per il mondo. Da qui la scelta di frequentare il corso di arti performative all’Università delle Hawaii. Per non rinunciare del tutto alla sua passione per il calcio, Saelua ha cercato di entrare nella squadra universitaria. Nel ripensare al giorno del provino, un velo di tristezza ricopre i suoi grandi occhi color nocciola: «A un certo punto l’allenatore mi ha presa da parte: ha detto che non voleva mettere i suoi giocatori in una situazione spiacevole e mi ha mandata a casa. Più che arrabbiata, ero triste per non aver avuto l’occasione di dimostrare il mio valore». Qualche anno più tardi, leggendo il proprio nome tra i titolari della prima partita delle qualificazioni mondiali, Jaiyah realizza che la sua occasione è finalmente arrivata. Durezza mentale Durante una visita ad Apia, capitale delle Samoa, l’allora presidente FIFA Joseph Blatter è stato insignito del titolo onorifico di “Toleafoa” e il centro sportivo della città ribattezzato in suo onore Toleafoa Joseph Sepp Blatter Football Fields. In seguito agli scandali che hanno coinvolto Blatter il centro è tornato all’originale – e meno compromettente – denominazione di Tuanimato Sports Complex, ma quando ha ospitato il primo turno delle qualificazioni OFC per Brasile 2014 lo ha fatto sotto l’egida del controverso presidente svizzero. Per accedere al secondo turno le Samoa Americane di Thomas Rongen devono piazzarsi al primo posto di un girone all'italiana composto dai padroni di casa delle Samoa, da Tonga e dalle Isole Cook. Un’impresa non da poco, se si considera che le Samoa Americane nei precedenti incontri con queste Nazionali non sono riuscite a segnare nemmeno un gol. «Ho sacrificato alcuni aspetti tecnici in favore di una maggiore durezza fisica e mentale», racconta Rongen in Next Goal Wins. L’allenatore olandese sa bene che il tarlo del 31-0 ancora si fa strada nei ricordi dei suoi giocatori, ma sa anche che se saranno perfettamente concentrati sulla partita i frutti degli allenamenti non tarderanno a diventare maturi. «Mi sarei tagliato il p**e per giocare una qualificazione mondiale», confessa Rongen alla squadra con la schiettezza che lo contraddistingue. «Avete l’opportunità di rappresentare il vostro Paese nel più grande evento sportivo del mondo: è piuttosto figo, se ci pensate». Il sogno di un bambino cresciuto giocando a calcio nelle strade di Amsterdam si è sposato con la voglia di riscatto della Nazionale di una piccola isola nel cuore del Pacifico. Benedetta da questa straordinaria comunione di intenti, la nazionale delle Samoa Americane si prepara ad affrontare Tonga nella prima partita del girone. Siva Tau A fine novembre nell’emisfero australe è primavera inoltrata, e il tempo incerto durante Tonga-Samoa Americane sembra calzare a pennello con la stagione. Grandi banchi di nuvole sfrecciano nel cielo e le loro ombre si rincorrono sul campo più veloci dei giocatori. Davanti ai piccoli baldacchini marchiati FIFA che riparano le due panchine dal sole e dal vento, Rongen passeggia nervosamente. Difficile dire se sia più preoccupato di quello che succede in campo o delle brutte sorprese che potrebbe riservare il meteo. Indossa un cappello, appartenuto alla figlia Nicole, che nasconde la folta chioma bianca e gran parte di quel viso rugoso così poco in linea con il fisico ancora atletico e giovanile. La sua voce roca è il tappeto sonoro dell’intera partita e le grida di incitamento dei centocinquanta tifosi presenti devono faticare per imporsi all’attenzione dei giocatori. La partita procede senza grandi sussulti finché “Rambo” Tapui, saltando per raggiungere il lancio di Ramin Ott, non viene contrastato a gamba tesa dal difensore tongano Samisoni. A incaricarsi della punizione dal limite è lo stesso Ott. È il giocatore più talentuoso delle Samoa Americane, ma è solo grazie alla chiamata di Rongen se indossa la divisa della Nazionale e non l’uniforme dell’Esercito degli Stati Uniti. «L’esercito è il sogno di ogni famiglia dell’isola», racconta Salapu. «O finisci la scuola e vai a lavorare nei conservifici di tonno, oppure ti mandano ad arruolarti nell’Esercito». Le Samoa Americane hanno il più alto tasso di arruolamento di qualsiasi altro stato o territorio degli USA, soprattutto per via delle scarse opportunità lavorative offerte dalle isole agli oltre 16mila ragazzi e ragazze che si diplomano ogni anno. Così, accade che molti dei prospetti calcistici più interessanti si trasferiscano negli Stati Uniti, finendo fuori dall’orbita di una Nazionale già alquanto povera di talento. La punizione a giro di Ott è ben calciata e colpisce in pieno l’incrocio dei pali; il quasi gol scuote i giocatori di Tonga che partono in contropiede arrivando fin davanti alla porta delle Samoa Americane. Il tongano Malakai Savieti è lasciato libero di calciare di prima dal dischetto con il piatto sinistro: il tiro è centrale ma forte e serve tutta l’esperienza di Salapu per evitare il gol.

Nicky Salapu, salvatore della patria (Next Goal Wins)

Al 43’ Ott riceve spalle alla porta, poco oltre il cerchio di centrocampo, un passaggio di Saelua. Con il primo controllo si gira, usa il secondo tocco per allargarsi leggermente verso destra, poi lascia andare un tiro a tutta gamba che sorprende il suo marcatore. Il portiere Felela indovina la traiettoria, ma viene sorpreso dal rimbalzo del pallone davanti all’area piccola e se lo fa scivolare dalle mani. Ott corre verso la panchina, seguito a ruota dai compagni; dall’inquadratura sembra che Rongen li stia aspettando a braccia aperte, ma i suoi palmi sono rivolti all'indietro e sta facendo segno alla panchina di non entrare in campo. Anche Ott ferma la sua corsa a pochi centimetri dall’allenatore, finendo sommerso dai corpi dei compagni in delirio. Rimane però ancora un intero tempo da giocare e le Samoa Americane non possono accontentarsi dell’1-0. All’intervallo le attenzioni di Rongen sono tutte per il reparto difensivo: «Voi quattro dovrete farvi il c**o. Se al 70’ o all’80’ sarete esausti, vi sostituiamo. Non è il momento di prendere in giro voi stessi e i vostri compagni. Quarantacinque minuti, eh? Faremo la storia. Dai che ne facciamo un altro». Lo dice poggiando una mano sulla testa di uno dei suoi giocatori, come un padre che rassicura il figlio spazientito dicendogli che il lungo viaggio in macchina sta per finire. «Una figlia mi è stata tolta, poi di figli ne ho trovati 23», dirà in seguito Rongen.

“Oh Capitano, mio Capitano” (Next Goal Wins).

Il gol di Ott arriva dopo un digiuno che durava da 37 partite ufficiali in 38 anni, ma alle Samoa Americane basta appena mezz’ora di gioco per metterne a segno un altro. Un rinvio del portiere di Tonga coglie di sorpresa un compagno che interviene maldestramente con la nuca. Sulla seconda palla si avventa il difensore samoano Justin Mana’o – nessuna parentela con il già citato Larry – che la controlla con il destro e, con il sinistro, alza un preciso pallonetto sulla corsa di Shalom Luani. Luani, oggi giocatore di football americano, lascia rimbalzare il pallone all’altezza dell’area di rigore, poi anticipa l’uscita del portiere con un pallonetto ancora più delicato di quello di Mana’o. Il Go, Shalom, go! di Rongen accompagna il pallone fin dentro la porta: le Samoa Americane ora conducono per 2-0. Al 88’ Tonga accorcia le distanze con Feao, mentre i giocatori delle Samoa Americane sembrano prostrati dai crampi. Rongen, che ha appena esaurito le sostituzioni, grida verso i suoi giocatori come per mantenerli aggrappati alla vita. Con pochi secondi rimasti sul cronometro Salapu tenta un’uscita disperata su Moala, ma il rimpallo carambola sui piedi di un altro giocatore di Tonga che tenta l’ultimo, disperato tiro in porta. La conclusione è tutt’altro che impeccabile, ma il pallone rimbalza svogliatamente verso la porta samoana. Jaiyah Saelua ha accompagnato Moala fino alla collisione con Salapu, poi l’istinto del difensore le ha suggerito di proseguire la sua corsa per andare a coprire la porta. Mentre tutti i samoani tremavano al pensiero dell’ennesima tragedia sportiva, Jaiyah pensava all’allenamento di Rongen sotto la tempesta e con una perfetta scivolata scagliava il pallone il più lontano possibile. L’arbitro fischia la fine della partita, i "Boys" hanno vinto la loro prima partita ufficiale. «Questo farà parte della storia del calcio, proprio come il 31-0 contro l’Australia». Rongen è visibilmente commosso mentre si rivolge al manipolo di giornalisti entrati in campo. Intorno a lui risuonano le grida, i pianti e gli abbracci dei giocatori samoani: i suoi ragazzi. Gli stessi che poco dopo sono schierati a metà campo per eseguire la Siva Tau – la danza di guerra samoana – davanti al loro condottiero olandese ritto come una statua: una forma di rispetto, quella di Rongen, ma forse anche un modo per non farsi travolgere dall’emozione.

«Guerrieri di Samoa, possa la vostra missione essere di successo!» (Next Goal Wins).

Undici anni dopo Oggi Nicky Salapu ha 42 anni, è un tecnico di allarmi antincendio e vive a Seattle con la moglie e il figlio Dylan, che a gennaio di quest’anno ha debuttato con la selezione Under 17 delle Samoa Americane ai campionati OFC. «Lavoro molto [quindi] gioco a calcio quando posso, per i Forty and over in una coppa qui a Seattle; ogni tanto in un campionato ispanico [The Hispanic League, ndr]. A volte mi alleno anche con la squadra di mio figlio», ha raccontato Salapu in una recente intervista ad ABC Pacific. Il ritiro forzato delle Samoa Americane dalle qualificazioni per i mondiali in Qatar, dovuto alle restrizioni ai viaggi in tempo di pandemia, ha privato Salapu della possibilità di giocarsi – forse per l’ultima volta – la partecipazione alla Coppa del Mondo, ma la leggenda samoana non ha rimpianti. Alla vigilia della partita contro Tonga lo aveva detto con grande chiarezza: «Se riuscirò a vincere una partita, morirò da persona felice». Jaiyah Saelua ha 35 anni e nonostante il suo impegno a tempo pieno come ambasciatrice per i diritti LGBT nel Pacifico

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