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(di)
Gianni Montieri
Saltavamo anche noi
15 ott 2021
15 ott 2021
Il salto, gesto sportivo per eccellenza, ma anche felicità dei bambini.
(di)
Gianni Montieri
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Uno dei primi pomeriggi di agosto, a metà della abituale passeggiata con le mie canette, lungo la scalinata della chiesa della Salute vedo tre bambini (avranno dai cinque ai sette anni) saltare. Balzano dal terzo gradino, uno azzarda dal quarto, saltano lungo, scomposto, saltano felici, ridono. La scena mi commuove, è strano, sarà successo migliaia di volte, avrò visto bambini saltare da lì, da sempre, da ovunque, eppure mi commuovo in questo pomeriggio, guardando tre bimbi, che nel frattempo ho scoperto essere francesi. Le emozioni sono così, non ti avvisano, non spiegano, ma colpiscono, arrivano da un punto, ne toccano un altro. Le emozioni sono oscure, magiche, fanno ciò che vogliono, a volte come qui, oggi, alle spalle del museo di Punta della Dogana, trovano dei brandelli di memoria, prima che li riconosca. Saltare, penso, è una delle cose più felici che siamo in grado di fare.

 

Saltavamo anche noi. Saltavamo sui letti, dai letti. Saltavamo dai tavoli, porto ancora un piccolo segno sotto il mento di un mio inesorabile precipitare. Ero salito in piedi sul tavolo della cucina, laggiù tra il televisore e il pavimento c’era (non avevo dubbi su questo) la tigre della Malesia, e io ero un Sandokan di quattro anni che saltava nel vuoto domestico per ammazzarla. Andavamo al mare, lo stabilimento si chiamava

– dubito adesso ma non allora che lungo il litorale Domitio potesse mai palesarsi un airone – avremo avuto dieci anni, saltavamo. Al bar di fianco al jukebox c’era un muretto, ci issavamo lassù e urlando come ossessi ci lanciavamo verso la sabbia. Saltavamo tra le onde, quei tuffi scomposti da ragazzini non erano altro che salti nell’acqua. Saltavamo alternando i piedi per giocare a campana. Saltavamo sull’amico piegato in avanti, ripetendo quella filastrocca che in ogni regione cambia, che suona diversa in ogni dialetto ma che conserva ovunque l’elemento del gioco, del divertimento semplice, e anche dello sfottò. Ti prendevano in giro se sbagliavi il salto, e prendevi in giro chi restava sotto troppo a lungo. Saltare, che bello, per ore. Per imparare a staccare di testa il più possibile, prendevamo lo slancio sullo scivolo dei garage di casa delle mie zie. Era una discesa di una decina di metri. Uno stava in porta, in basso, davanti all’entrata dei box, uno in fondo pronto a crossare, e ciascuno di noi a turno, in cima allo scivolo pronto a saltare. La palla partiva, uno o due passi di corsa per lo slancio, poi il salto, lo stacco, il pallone impattato di testa, il fermo immagine di te che restavi in alto sospeso a un’altezza non ancora (e forse mai più) raggiungibile. Il tuo amico parava? La palla entrava? E a chi importava. Contava il salto riuscito, il vuoto sotto i piedi, gli istanti prima che le ginocchia si piegassero mentre il corpo toccava di nuovo terra. Saltare.

 

Qualche tempo fa alla Casa dei Tre Oci, qui a Venezia, c’è stata una mostra molto bella di Jacques Henry Lartigue, l’esposizione si intitolava “L’invenzione della felicità”, constava di 120 fotografie di cui 55 mai viste. Lartigue è un fotografo arrivato al successo abbastanza tardi, quasi settantenne, ma che ha cominciato a scattare quasi da bambino ed è impressionante il numero di fotografie che colgono istanti felici della vita borghese parigina, anche nei periodi di guerra, attimi fermati in un salto. Salto come leggerezza, come liberatorio, come momento di felicità estrema. Un cugino di Lartigue che salta nella foresta di Rambouillet; una bimba che sembra sospesa in volo; un conte che salta per colpire la palla durante la finale dei Mondiali di tennis di Parigi nel 1914; un ragazzo che salta da un muro e che -  se si cambia la il punto di vista – pare ascendere; un bimbo che salta altissimo sulla sabbia con il mare alle spalle; una donna che salta dai gradini di una scala, sembra che voli, guarda in macchina, è felice; un bambino salta sorridendo di gioia davanti a un cane finto, perfino la sua ombra al suolo sembra felice; tre uomini elegantissimi danzano e saltano con stile su una pista di ghiaccio, quello in fondo secondo me ride; una ragazzina e un cane vicino lungo una riva, tutti e due in salto, che leggerezza, che felicità. E, infine, qualche anno dopo, nel 1966 Lartigue fotografa Richard Avedon che salta con la macchina in mano. Lo scatto è bellissimo, Avedon appare leggero ed euforico. Quando ho visto la mostra ho pensato che quegli scatti, quei salti sarebbero rimasti con me a lungo, e così è stato.

 


Foto tratta dal sito della Casa dei Tre Oci_uso stampa


 

Lartigue ferma un attimo e io mi sono fermato, trattenendo il fiato, durante la finale di salto triplo femminile delle ultime Olimpiadi di Tokyo. Ho davvero gioito tutte le volte in cui ho visto Yulimar Rojas staccarsi da terra e saltare. Ho tifato per lei da subito, per la mimica mostrata prima di ogni salto, e per quel suo essere dinoccolata e armonica allo stesso tempo. Rojas quando salta è potente ma è fluida, spicca il volo tre volte e pare restare sospesa, dando l’impressione di non toccare più terra dopo aver sollevato i piedi per la prima volta. Rojas quella sera ha raggiunto la misura di 15 e 67 stabilendo al sesto e ultimo salto il nuovo record del mondo. Aveva già vinto l’oro, indirizzando la finale fin dal primo salto, ma il record era nell’aria, proprio come lei. Rojas quando salta è felice, e lo è anche dopo, quando impazzisce letteralmente di gioia. La sua felicità (e quella di chi osserva) si compie però durante il salto, nulla è più puro e lieve di quella gioia. Una figura che si stacca da terra, mostrando per poche, pochissime, frazioni di secondo il senso armonioso delle cose cui tutti aspiriamo. Chissà Lartigue come l’avrebbe fotografata.

 

Un’estate di molti anni fa, era il 1984, al Golden Gala di Roma si è disputata la gara di salto con l’asta più incredibile di sempre, Vigneron e il giovane astro Bubka la affrontarono a colpi di record del mondo. La gara si svolgeva fino a tarda sera e in molti hanno raccontato di come le principali testate sportive rinviavano la chiusura del giornale di dieci minuti in dieci minuti, che forse un altro record sarebbe arrivato. Un altro centimetro superato. Avevo tredici anni, all’epoca il Golden Gala di Roma aveva forse più fascino di adesso, si aspettava per vedere le gare in tv, era il 31 agosto. Il record era stato migliorato quattro volte in pochi mesi: Vigneron 5.83 (settembre 1983), e Bubka tre volte tra maggio e luglio del 1984, portandolo a 5.90. A Roma, Vigneron saltò 5.91 nuovo record, Bubka poco dopo fece 5,94 mentre Vigneron guardava fumando una Gauloise, seduto non troppo lontano dalla zona di atterraggio. Aveva fumato anche prima del suo record, allora si poteva.

 

Un tredicenne, e torniamo alla felicità, guarda questi due uomini che spostano la loro ascesa di un centimetro dopo l’altro (Bubka tentò anche i 6.00 metri quella sera, fallendo, li ha raggiunti l’anno dopo) e si domanda come sia possibile. Di più, il tredicenne si domanda perché, come si stia lassù, cosa c’è. Il salto con l’asta, l’arrampicarsi sulla pertica, la leva che ti spinge in su è qualcosa di molto vicino, almeno figurativamente a quello che scrive Rilke, circa la felicità. «E noi che pensiamo la felicità/ come un’ascesa, avremmo l’emozione/ che quasi ci smarrisce di quando cosa ch’è felice, cade», così Rilke in chiusura delle Elegie Duinesi. Sì, noi la felicità la pensiamo come un’ascesa, ma Rilke ci mostra la meraviglia di chi è colto felice nell’atto del cadere. Allora, il tredicenne del 1984, senza capire e senza aver ancora letto Rilke, sente che la felicità di Vigneron e di Bubka si realizza nello stacco, salto e ascesa ma pure nella caduta, discesa, rimbalzo. È lo sport, bellezza, e pure la poesia.

 

https://youtu.be/RH_TN-73rTg

 

Abbiamo detto della foto di Lartigue con il tennista sospeso in volo prima di colpire la pallina con la racchetta, fermo là dal 1914. I tennisti saltano, anche se non ci facciamo caso. Il salto del tennista è, contemporaneamente, di sospensione e di spinta, ma se dovessimo fare un elenco dei movimenti che fa il tennista con il corpo non penseremmo al salto. Eppure, io quando vado con la mente al mio tennista preferito, Roger Federer, vedo questo ragazzo sempre a qualche centimetro da terra, sempre in volo, così – come scriveva Foster Wallace – come la pallina che per lui (grazie alla sua grazia e al suo anticipo) resta sospesa nell’aria qualche istante più del consentito dalla legge: «La palla che si avvicina rimane sospesa, per lui, una frazione di secondo in più di quanto dovrebbe»; Federer, staccato da terra, impatta di diritto la pallina che si era fermata ad aspettarlo e fa punto un po’ per sempre.

 


Foto tratta dal sito della Casa dei Tre Oci_uso stampa


 

Il salto di Michael Jordan, o tutti i suoi salti, quanto duravano? O meglio quanto tempo restava lassù? Nessuno lo sa, ma dall’alto dominava, saltavamo con lui, andavamo a canestro, eravamo felici. Il salto, la sospensione, la schiacciata, il tempo che sparisce, il boato del pubblico che si fa silenzio. Jordan che salta è una cosa felice ma non si allontana di troppo dal balzo del bambino sulla scalinata della Salute. La gioia comincia appena ti stacchi da terra, il suolo ferma, blocca, l’aria accelera, ti dispone in movimenti non consueti, ti libera.

 

Sara Simeoni all’indietro, regale, fino a Tamberi. Il colpo di testa di Hateley nel derby di Milano, quegli stacchi inverosimili di Cristiano Ronaldo. Cannavaro che nella semifinale del 2006 rinvia e poi va di testa, altissimo, per primo, a riprendere il suo stesso rinvio e a lanciare il contropiede per il gol di Del Piero. Il colpo di testa in tuffo (in volo) di van Persie alla Spagna. La mano di Dio arriva dopo il salto di un piccoletto, che sale là dove non è previsto, tra gli inglesi, sopra Shilton, imbroglia (ma forse no) e poi corre felice, saltando di nuovo. Maradona saltava, van Basten saltava prima di calciare i rigori e fino all’impatto con il pallone non toccava terra, non la toccava più. E dopo, quando fece il secondo gol all’Inghilterra, Maradona l’erba la toccava o si manteneva qualche millimetro sopra? Koulibaly per quel gol alla Juve fino a dove si era innalzato? E ogni volta che vediamo un portiere balzare siamo felici o no? Lui lo è di sicuro perché fa ciò che agli altri non è concesso: vola.

 

Nel 1884 Étienne Dinette dipinge un quadro “Bambini che saltano”, la bambina al centro del dipinto salta sulla corda e ride, ride di leggerezza, di slancio e il suo sorriso ricorda da vicino quello di Paola Egonu quando tocca terra dopo aver volato, dopo aver schiacciato la palla dall’alto dei cieli al suolo, a velocità impensabile.

 

Il salto poi è un esercizio solitario, ma che impatta sul collettivo, sulla squadra. Dobbiamo abbandonare le cose e abbandonarci «dobbiamo osare il grande salto nel cosmo», scrive Etty Hillesum. Dobbiamo procedere per balzi come facevamo da bambini e perciò non sentirci troppo distanti da ogni fuoriclasse che ammiriamo, che abbiamo ammirato. Continuiamo a saltare, mettiamoci in giardino e inventiamoci gli ostacoli che affrontava Edwin Moses e fermiamoci solo dopo essere diventati Karsten Warholm, anzi neppure allora, continuiamo a balzare come i nostri cani che cercano un biscotto, come quando eravamo bambini e avremmo dato tutto per colpire di testa elevandoci più in alto di tutti.

 

 

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