
La partita d’andata contro la Sampdoria non è stato il momento in cui ci siamo accorti che tutto era rotto. Quello lo sapevamo da tempo. È stata solo l’ennesima radiografia di controllo. L’ennesima conferma clinica di un paziente che da mesi non respira più, ma a cui continuiamo a mettere il saturimetro sperando che sia cambiato qualcosa. Un 2-0 che non ha sorpreso nessuno, perché non c’era niente da scoprire: c’era solo da prendere atto, ancora una volta, che la Salernitana non è una squadra. È una diagnosi in forma di tabellino.
Ora bisogna compiere un miracolo. Non una semplice rimonta: un atto di fede calcistica al limite del surreale. Perché la Sampdoria ha in mano tutto: punteggio, fiducia, vento in poppa. Perché la Salernitana, invece, ha solo la disperazione e un briciolo di dignità da salvare. Ma nel calcio – e a Salerno più che altrove – la disperazione è una miccia. Non basta, certo. Ma è da lì che nascono le imprese.
Il punto è che in ballo non c’è solo la salvezza e la Serie B. In ballo c’è anche il tentativo di evitare il naufragio definitivo di un progetto sportivo e tecnico - con velleità identitarie o, come si disse all’inizio di questa storia: sinallagmatiche fra squadra e città - che da due anni sbanda, sbaglia e affonda senza più nemmeno fingere di voler reagire. La Salernitana è diventata una nave che imbarca acqua da ogni parte. Nessuno è salito sul ponte a prendere il timone. Nessuno ha saputo fare scelte forti, dire la verità, guardare in faccia la tempesta.
Questa partita di ritorno è una resa dei conti. O forse, più semplicemente, un appello. All’orgoglio. Alla memoria. Alla città. Perché, se c’è qualcosa che può ancora tenerci a galla, è il legame che a Salerno esiste tra il calcio e la vita. Tra la maglia granata e il senso di appartenenza.
Non è un discorso da bar, né una metafora forzata. È sociologia emotiva, antropologia urbana, storia. La Salernitana non è un passatempo: è un codice simbolico. Un campo semantico dentro cui i salernitani leggono se stessi. E allora non si può affrontare la partita di ritorno come una questione di tattica o di moduli. Va affrontarla come un atto ultimo di resistenza, ammesso che questa consapevolezza occupi il campo di coscienza di chi va in campo. Un atto magico e disperato, in stile sudamericano.
Soriano avrebbe detto: “Una squadra si ama quando perde, altrimenti non è amore: è moda”. Eppure anche l’amore, se maltrattato a lungo, produce dolore. Nessuno ha preteso lo scudetto. Ma almeno un po’ di verità sì. Invece ci hanno consegnato due stagioni identiche nei loro errori, nella loro retorica, nel loro disastro. Ed è qui che questa ultima partita, con la curva che urla e il sudore che sa di malinconia, deve ricordare a tutti – soprattutto a chi comanda – che a Salerno il calcio è una cosa serissima. E se dovessimo affondare, che almeno sia dopo aver sparato cartucce vere. Senza scuse, senza alibi. Con la faccia sporca e lo sguardo alto.
Avevo detto che non l’avrei vista. E in effetti, non l’ho guardata nel senso tradizionale del termine. Niente stadio, niente divano, niente cronaca. L’ho subita. Con lo sguardo laterale, come si guarda un funerale di cui si conosce la causa della morte. Come chi passa davanti a un incidente e, per quanto non voglia, si ferma.
Non è stata una partita di calcio. È stato un esperimento di anestesia collettiva. Novanta minuti senza un tiro in porta. Novanta minuti in cui ogni possesso palla sembrava una dichiarazione di resa, ogni scelta un atto mancato. Un primo tempo in cui la Salernitana ha passato la palla più volte ai propri difensori che al destino. Un secondo tempo che è sembrato una replica del primo, ma più lenta, più stanca, più rassegnata.
Nessuna reazione dopo il gol della Sampdoria, nessuna idea prima del secondo. Solo una squadra che camminava, forse aspettava, forse si nascondeva. I calciatori hanno guardato il pallone come se non sapessero più che farci. La Sampdoria lo voleva, loro no. È sembrata una partita giocata da chi voleva salvarsi contro chi voleva solo che tutto finisse.
E dire che questa squadra, almeno sulla carta, avrebbe avuto gli uomini per giocarsela. Ma non ha avuto l’anima. È scesa in campo come se si fosse presentata a un duello senza spada. Il centrocampo evaporato, gli esterni spaesati, l’attacco solitario, spezzato, muto. La sensazione – netta, ineluttabile – è che la Salernitana non sia costruita per giocare partite del genere. Non le regge psicologicamente. Non le sente. Non le capisce.
Il punto non è il risultato. Il punto è il vuoto. Il punto è che nessuno, a fine gara, ha avuto la sensazione che si fosse lottato, sbagliato, caduto con onore. È sembrato tutto scritto in anticipo, come un copione letto male, senza convinzione. La Salernitana non ha perso: si è ritirata in silenzio.
Questa partita è lo specchio della stagione. Una sintesi impietosa ma fedele. Una squadra che non sa cosa fare del pallone, che si rifugia in passaggi inutili, che non alza mai lo sguardo. Che non azzarda. Che non osa. Che non sente la pressione come adrenalina, ma come condanna. E che, quando va sotto, non ha la rabbia di reagire. Solo smarrimento. Solo inadeguatezza.
Ma perché siamo arrivati fin qui? Perché, dopo essere retrocessi l’anno scorso con la peggior prestazione nella storia della Serie A a venti squadre, ci siamo ritrovati a rischiare un doppio salto all’indietro?
Perché nulla è stato corretto, nulla è stato imparato, nulla è stato cambiato. Stesse mancanze, stessi errori, stesso vuoto.
Una società assente, autoreferenziale, che ha vissuto nel mito della facciata e ha dimenticato la sostanza. Una dirigenza più preoccupata dei comunicati e dei pranzi in tribuna vip che dei contrasti a centrocampo. Un ambiente tecnico in balia di se stesso. E una squadra che, partita dopo partita, ha perso tutto: idee, forza, fame, rispetto.
La partita di Genova, con i suoi palloni innocui e i suoi silenzi assordanti, è stata l’ultimo atto di una lunga rinuncia. È la cartolina esatta di come si arriva alla rovina quando si preferisce salvare la forma invece che ricostruire la sostanza. Quando si passa il pallone indietro invece di provare ad andare avanti.
Fra tutti i pericoli che circondano la Salernitana in questi giorni – la classifica, l’inerzia, la paura – ce n’è uno meno visibile eppure più subdolo: il vittimismo. Non il sacrosanto dolore del tifoso, ma la tentazione di spiegare la sconfitta come frutto d’un complotto, d’una mano nera, d’un calendario truccato. È un riflesso antico, tipico dei popoli di mare: quando la barca affonda, si impreca contro le correnti invece di controllare lo scafo. Ed è quello in cui si rischia di scivolare dolcemente tutti. Società, squadra, istituzioni, perfino noi.
Tutto quello che ha riguardato questo playout poteva essere una riflessione societaria, sociale, collettiva sull’autocritica. Non deve diventare la prova provata che “ce l’hanno con noi”. Citiamo a memoria i ricorsi pendenti, le decisioni della Lega, le esultanze sampdoriane, l’arbitro, i telecronisti di DAZN. Invece questo 2-0, questa radiografia di un malato cronico, dimostra che il problema non abita nei palazzi del potere, ma nei corridoi vuoti di casa nostra: due anni di errori tecnici, di gestione narcisistica, di promesse fuori scala.
Il vittimismo è seducente perché assolve. Trasforma il tifoso in vittima sacrificale e solleva la dirigenza dal peso delle scelte fatte (o non fatte). È la stessa scorciatoia logica di chi ancora giura che nel ’90 l’Italia perse con l’Argentina perché Napoli stava con Maradona: attribuzione esterna di responsabilità, ieri come oggi.
Ma a Salerno questo alibi è doppiamente pericoloso. Perché qui il calcio è identità collettiva, carne viva: se ci raccontiamo che la colpa è dell’arbitro o della Federazione, finiamo per curare la frattura con un analgesico anziché con il gesso. E la frattura, intanto, peggiora, si infetta. Non è stato il palazzo a costruire una rosa fragile, a cambiare allenatori come figurine, a promettere premi-salvezza mentre la barca imbarcava acqua. Non è stato il designatore a farci passare il pallone indietro per novanta minuti.
Il vero antidoto, dunque, è uno sguardo onesto allo specchio: riconoscere che siamo al bivio non per malafede altrui, ma per incapacità nostra. Se falliremo il ritorno, sarà per errori reiterati; se lo vinceremo, sarà perché avremo trovato il coraggio di assumerci la responsabilità di cambiare rotta. In entrambi i casi, il primo passo è uscire dal racconto della persecuzione. Perché il vittimismo conforta, ma non salva; consola, ma non ricostruisce; e soprattutto allontana da quella fonte di speranza ostinata che rende la Salernitana, per i salernitani, più grande di qualsiasi categoria.
Chi conosce Salerno sa che la squadra non è una società sportiva. È una voce collettiva che attraversa il tempo e i corpi. È il pensiero che sale mentre pranzi in famiglia, mentre cammini per il corso, mentre senti un urlo in lontananza e capisci che ha segnato o ha preso un gol. La Salernitana è, a modo suo, la nostra forma più quotidiana di sacro.
In città il calcio non è contorno, è centro. Non è passatempo, è geografia emotiva. Non è intrattenimento, è memoria. Non c’è un quartiere, un condominio, una famiglia, una piazza, dove non si possa ascoltare, a fine partita, un giudizio che sa di poesia storta, di biografia popolare. Le urla, le mani tra i capelli, le lacrime trattenute, sono il modo che abbiamo per dire chi siamo. Perché in questa città la Salernitana è un arto collettivo, è un dolore condiviso. Per questo ogni caduta della squadra è anche una frattura della città. Ogni retrocessione è un’ulcera simbolica che fa sanguinare i ricordi. Ogni salvezza, anche la più rabberciata, è una forma di rinascita, di riconciliazione, di tregua. Non c’è tifoso che non abbia pianto almeno una volta, non per un gol, ma per quello che quel gol rappresentava: padri che non ci sono più, amori finiti, amicizie perse, strade cambiate. Per questo, anche adesso, sull’orlo del burrone, la maglia dice più di un comunicato: racconta chi siamo, cosa abbiamo perso e cosa, ossessivamente, non vogliamo smettere di sperare.
Tuttavia, il contesto attuale impone uno sguardo più largo. Perché questo playout, così come è stato concepito e imposto, è uno dei momenti più grotteschi della recente storia sportiva italiana. Non per la storia della “Sampdoria da salvare a tutti i costi” – che pure ha i suoi zelanti sostenitori – ma per qualcosa di più profondo, di più pericoloso: l’insipienza.
La corruzione, in fondo, la conosciamo. La riconosciamo. È brutale ma netta. Se uno paga per avere un vantaggio, è corrotto. È un reato, è una responsabilità personale e morale. Succede nello sport come in politica, nella sanità come nell’urbanistica. Ma l’insipienza è un’altra cosa. È più sottile. Più viscida. È la superficialità travestita da burocrazia, l’incompetenza elevata a stile di governo. È l’assenza di visione. È lasciare che le situazioni degenerino per inerzia, per incapacità. Se uno ruba e compra una partita, è colpevole. Ma se chi deve garantire il rispetto delle regole lascia che tutto vada in malora, allora la colpa è più grave. Perché crea un sistema in cui non si vince solo per bravura o per astuzia, ma per vuoto istituzionale.
In questo playout, più che l’ombra di un disegno, si sente il tanfo di una farsa: partite giocate un mese dopo la fine del campionato, squadre diverse da quelle che si dovevano affrontate, pressioni psicologiche distribuite in modo asimmetrico. Una farsa in cui prevale, comunque, una sorta di dovere del tifoso di vegliare. Tutto fuori tempo, tutto fuori luogo. E anche il finale sembra uscito da un romanzo di spionaggio scritto male: metà squadra ha passato la notte in ospedale per un’intossicazione alimentare, dopo una cena al sacco consumata sulla strada che, da Genova, riportava a Salerno. Questa è l’immagine che ci accompagnerà fino al ritorno: calciatori abbracciati alle flebo, come figurine dimenticate in infermeria, mentre fuori la città trattiene il respiro.
Eppure l’Arechi sarà pieno. Non per adesione al teatrino ma per resistenza emotiva. Salerno è fatta così: non rimuove, non nega, non dimentica. Resiste. Non ignora la verità, la affronta con il dolore necessario.
Forse non basterà. Forse la Serie C, la Lega pro, o come cavolo si chiama, ci aspetta, come una punizione e una possibilità. Ma finché un ragazzino chiederà la maglia granata, finché un vecchio tifoso si metterà a dormire sognando il Vestuti, finché anche uno solo continuerà a crederci – nel modo irrazionale, sbagliato e bellissimo che abbiamo – la Salernitana non sarà mai davvero sconfitta.
Che arrivi presto, dunque, questo ritorno. Non c’è più nulla da proteggere, nulla da illudersi. La situazione, paradossalmente, rende tutti più veri. Niente alibi. Niente filtri. Solo i tifosi, la maglia, e il tempo che guarda tutti.
Amare così non è esattamente un lusso. È un destino. È il modo di abitare il mondo che hanno i salernitani.