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Foto di Chloe Knott - Danehouse/Getty Images
Premier League Tommaso Giagni 7 novembre 2019 9'

Mané Mané

Ritratto dell’attaccante del Liverpool.

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Suo zio rideva di lui, quando da bambino prometteva che avrebbe giocato in una grande squadra francese. D’altronde il posto in cui Sadio Mané è cresciuto, Bambali, sulle rive del fiume Casamance, è lontano dal calcio europeo e isolato anche dalla gran parte del Senegal. Duemila abitanti, un’economia che ruota intorno alla pesca e alle piantagioni di banane, uno Stato altro (il Gambia) a frapporsi tra Bambali e la capitale Dakar.

 

Sadio tifava per la squadra professionistica più vicina, il Casa Sports, che ha sede a Ziguinchor, tradizionale avamposto commerciale e tuttora importante porto fluviale. Tutti i ragazzini della zona che sognavano un futuro da calciatori spendevano i loro tentativi riversandosi lì. Lui aveva un altro piano.

 

Parla poco, solo quando ne ha voglia, anche nello spogliatoio. Riservato, se non schivo, la modestia del suo carattere lo rende benvoluto da tutti. È il tipo che mentre fa la spesa al supermercato accetta di fermarsi e prendere un bambino in braccio perché il padre possa fotografarli. Con la stessa disponibilità, accettò di spostarsi sul fronte offensivo sinistro dei Reds, per lasciare al neoacquisto Salah il destro e l’aura di stella.

 

«Sono una persona discreta che voleva essere un calciatore, non un divo» ha detto Mané. Il disinteresse per il tendone circense che incornicia il calcio del ventunesimo secolo si estende alle simulazioni che rappresentano il gioco: non dev’essere un caso, se non ha mai provato a giocare alla Playstation.

 

Proprio a Salah hanno chiesto chi fosse il miglior amico di Mané nella squadra. Ha risposto: «Nessuno. Sadio vive da solo, cammina da solo, mangia e beve da solo».

 

Nel dicembre 2016, Sadio Mané aveva un’eccellente padronanza dell’inglese ma preferiva farsi intervistare in francese. Secondo il giornalista Oliver Holt, passava all’inglese solo a tratti, cioè «quando dimentica[va] di non fidarsi abbastanza di sé stesso in rapporto alla lingua». Non è insicurezza, ma perfezionismo. E va insieme al mangiare sano, all’andare a dormire presto, all’ascoltare se il proprio corpo cede qualcosa, anche un calo minimo: un’ossessione, che lui non nasconde, per la rotondità del 100%.

 

Tutti i gol della stagione scorsa.

 

La sera del 25 maggio 2005, il tredicenne Sadio Mané è a Bambali e insieme a un amico guarda in tv la finale di Champions tra Liverpool e Milan. Tifano per i Reds. Sul parziale di 3-0 per il Milan, il suo amico è arrabbiato e decide di andarsene. Torna solo quando il Liverpool ha già compiuto la rimonta e sta sollevando la coppa.

 

La sera del 26 maggio 2018, a Bambali di fronte alla tv c’è quell’amico e Sadio Mané ha ventisei anni (il doppio esatto dell’altra volta) e sta giocando la finale di Champions con il Liverpool. Il Real sta vincendo 1-0, Mané realizza il gol del pareggio – un pareggio momentaneo, la coppa l’avrebbero alzata i Blancos. Nel paese, in molti indossano una maglia rossa.

 

«Faccio parte di questo ambiente, ma ne diffido un po’. Torno il più spesso possibile al paese, per restare coi piedi per terra». E ogni volta che torna, spiegano a Bambali, gira in calzoncini corti come gli altri e non si presenta agghindato per ostentare.

 

Il contatto coi suoi luoghi si direbbe essere un pensiero fisso. Sembra che per lui il successo passi per una continua restituzione alla comunità, più ancora che alla famiglia che vive ancora lì: «Una delle cose che mi ha spinto nella vita, già quando ero giovanissimo, è stato il desiderio di dare qualcosa indietro alla mia regione». Pagò, a cavallo tra Southampton e Liverpool, la ristrutturazione della più grande moschea di Bambali e l’edificazione di una nuova moschea. Garantisce a oggi una specie di sussidio (70 euro mensili) agli abitanti dell’area. L’anno scorso ha poi finanziato la costruzione di una scuola superiore nel paese. E in occasione di quella finale del 2018 contribuì a colorare di rosso il paese, spedendo trecento maglie del Liverpool.

 

«Perché dovrei volere dieci Ferrari, venti orologi di diamanti o due aeroplani? Cosa fanno questi oggetti per me e per il mondo?» ha dichiarato a metà ottobre: «Preferisco che la mia gente riceva un po’ di quello che la vita ha dato a me».

 

A Dakar ridevano di lui, durante i provini per l’ammissione alle giovanili dei club professionistici. Intorno c’erano duecento, trecento ragazzi con lo stesso obiettivo. Aveva quindici anni (è nato il 10 aprile 1992), si era formato giocando per strada, indossava dei calzoni che non erano certo pantaloncini da calcio e ai piedi aveva degli scarpini mezzi rotti che si era ricucito da solo. Sadio aveva mentito ai suoi genitori, per essere lì.

 

Mane-Southampton

Foto di Glyn Kirk / AFP via Getty Images

 

Il padre è l’imam della moschea più grande in un paese abitato per il 90% da musulmani. Sadio Mané è stato da sempre tanto zelante nella pratica religiosa, quanto avvezzo a frequentare fedeli di altri culti – il suo migliore amico, per esempio, è cristiano e fin da piccoli hanno frequentato l’uno la casa e le abitudini dell’altro.

 

Il padre gli vietava di diventare un calciatore, perché voleva proseguisse gli studi. La madre lo inseguiva ogni volta che lo scopriva a giocare a pallone. «Dovevo allontanarmi dall’ombra dell’arbre à palabres [il grande albero sotto il quale ci si riunisce socialmente negli ambienti rurali africani] e stare in pieno sole» spiega lui: «Era dura, perché mi sentivo un po’ solo. Non capivo perché non mi autorizzassero a vivere il mio sogno».

 

Fu contro questi divieti, che una sera dei suoi quindici anni Sadio nascose nell’erba alta un borsone, e poi il mattino seguente si alzò alle sei, e camminò a lungo prima di raggiungere un amico che gli prestò i soldi per l’autobus, e infine arrivò a Dakar senza che i genitori ne avessero idea.

 

 

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Eid mubarak! Qu’Allah ❤️accepte nos prières et pardonne nos pêchés! 🙏☝️Love! God blesseveryone!!

Un post condiviso da Sadio Mane (@sadiomaneofficiel) in data: 12 Set 2016 alle ore 7:24 PDT

 

L’inadeguatezza dell’abbigliamento non nascondeva le sue doti. La lotta per imporre il suo desiderio alla famiglia, finì per pagare. Sadio riuscì a entrare nell’Académie Génération Foot di Dakar: una realtà prestigiosa che da sempre ha un rapporto privilegiato con l’FC Metz, da dove erano sbocciati e avrebbero continuato a sbocciare talenti: Papiss Cissé, Diafra Sakho e Ismaïla Sarr – tutti passati anche per il club francese. A quel punto, non ci volle molto perché i Grenats lorenesi si accorgessero di Sadio Mané.

 

Nell’inverno 2011, Sadio lascia l’Africa e arriva in un territorio (la Lorena) simbolo dell’Europa del secolo precedente, in una città di confine – francese e tedesca insieme. Un’importante e antica sede vescovile, e questo tornerà nel suo percorso.

 

Un anno di giovanili, poi l’esordio da professionista (14 gennaio 2012) in Ligue 2. Sei mesi dopo, il Metz retrocede nel terzo livello del calcio francese e Sadio Mané ha già debuttato in nazionale maggiore. Viene venduto per 4 milioni di euro: è la terza cessione più cara nella storia del club, dopo quelle di Robert Pires e Miralem Pjanic.

 

L’arcidiocesi di Salisburgo è tanto importante da guadagnare a chi la regge il titolo di legato nato, perciò poter vestire gli abiti cardinalizi anche senza la nomina da cardinale. Il rosso è nello stemma arcivescovile, in quello della città, nei colori sociali del club locale, e anche nel futuro di Sadio Mané.

 

Con il Red Bull Salzburg, il ragazzo si impone come crack di livello europeo. Oltre a una coppa nazionale, il club vince il campionato in entrambe le stagioni. Lui colleziona 45 reti e 32 assist in 87 gare.

 

Mane-Salisburgo

Salisburgo, marzo 2014. Con la mascotte della squadra e Valon Berisha (Foto di Christof Stache /AFP via Getty Images).

 

Nel novembre del 2018, contro la Guinea Equatoriale per le qualificazioni alla coppa d’Africa, Mané sbaglia una buona occasione. I tifosi senegalesi accorsi in trasferta lo fischiano e insultano per tutto il resto della gara. A partita conclusa, lui si butta a terra e scoppia a piangere – i compagni devono portarlo di peso fuori dal campo. La nazionale, l’approvazione del suo Paese, sono troppo importanti.

 

L’esordio, a vent’anni appena compiuti (25 maggio 2012), era stato impreziosito da un assist. La prima volta in casa, davanti ai sessantamila del Léopold Sédar Senghor di Dakar, addirittura segnò una rete.

 

Da allora, ha partecipato a due brutte eliminazioni dalla coppa d’Africa (girone nel 2015, Quarti nel 2017 – suo l’errore decisivo ai rigori) e a una deludente fase finale del Mondiale (2018). Soprattutto, lo scorso luglio ha trascinato il Senegal alla finale di coppa d’Africa, conclusa con una bruciante sconfitta per 1-0.

 

A partire dall’estate 2018, quand’è assente capitan Kouyaté, è lui a indossare la fascia.

 

Fu proprio con la nazionale, che rubò l’occhio a Jürgen Klopp. In occasione delle Olimpiadi 2012, quando il Senegal arrivò ai quarti e venne eliminato ai supplementari dal Messico (poi medaglia d’oro). Il tecnico allenava il Borussia Dortmund e non era convintissimo che le caratteristiche di Mané fossero adatte alla Bundesliga.

 

Piombò così Ronald Koeman, appena nominato manager del Southampton.

 

Mane-Olimpiadi-2012

Giochi olimpici del 2012, abbattuto durante la gara col Messico. (Foto di Ezra Shaw / Getty Images).

 

Il valore di Mané nel frattempo è schizzato: il club inglese sborsa circa 23 milioni di euro per averlo. Ecco così una città portuale – un altro luogo di transito, e di confine in un certo senso. Un club che nacque da un’associazione parrocchiale cattolica, da cui proviene il soprannome di “Saints”.

 

Nelle due stagioni che seguiranno, il Southampton sarà una brillante combinazione di estro e solidità, una squadra giovane e piena di talento (oltre a Mané, emergeranno Tadić, Wanyama, Clyne, Alderweireld, van Dijk). Si classificherà rispettivamente al sesto e al quinto posto – migliori risultati del club da trent’anni a quella parte.

 

Arriva l’estate 2016, e stavolta Klopp è del tutto convinto. Il Liverpool investe sul ragazzo oltre quaranta milioni di euro («Varrà ogni sterlina» promette il manager al direttore sportivo). Nessun calciatore africano è stato pagato così caro, fino a quel momento, nella storia del calcio.

 

Nell’ultima stagione, con la maglia dei Saints, in 3 gare Mané aveva realizzato 4 gol contro i Reds. In quella precedente, aveva strappato il record della tripletta più veloce in Premier (2 minuti e 56 secondi) a una leggenda del club come Robbie Fowler.

 

Si può dire che la città sulla Mersey sia una sintesi dei luoghi della sua vita. Un importante centro portuale, la sede di un’importante arcidiocesi – riferimento per un territorio segnato dall’immigrazione irlandese cattolica. Non manca un’antica e importante moschea, Al-Rahma, che Sadio Mané prenderà a frequentare spesso.

 

Con un rendimento dalla brillantezza costante, il suo apporto ha determinato la crescita del Liverpool. I numeri sono impressionanti: 135 presenze, 67 gol, 24 assist. Da quando è arrivato, cioè da oltre tre anni, la squadra non ha mai perso gare casalinghe di Premier con lui in campo.

 

La scorsa stagione, insieme alla Champions League, è arrivata anche una grossa gratificazione individuale – il titolo di capocannoniere del campionato (22 reti).

 

Mane-Klopp

Gli hanno chiesto cos’avesse Klopp, di diverso dagli altri? «The human touch» ha risposto Mané (Foto di Laurence Griffiths / Getty Images).

 

Da bambino, Mané sosteneva che l’impegno per diventare un calciatore gli impedisse anche di sacrificare del tempo per lavarsi: «Mi farò una doccia, quando avrò i soldi per permettermelo».

 

Il 3 settembre 2018, gioca novanta minuti contro il Leicester in campionato, segna un gol decisivo. È il lunch match, così quando Mané esce dall’impianto è ancora pomeriggio. Va nella moschea di Al-Rahma, prega, poi si ferma ad aiutare a pulire i bagni e la zona adibita alla piccola abluzione (wudu’).

 

La quarta stagione con la stessa maglia: non gli era mai successo, di fermarsi così a lungo. A vederla da questa prospettiva, Mané non si è solo spostato in città europee man mano sempre più popolose, ma questa dinamica progressiva ha riguardato anche la stabilizzazione (un anno e mezzo a Metz, due a Salisburgo e Southampton).

 

Gli manca una Premier League e questo potrebbe essere l’anno buono, ma in ogni caso fin qui ha vinto parecchio e i ragazzini a Bambali corrono, e continueranno a farlo per generazioni, appresso al pallone ripetendo: «Sono Sadio Mané».

 

Il sogno più pazzo, come lo chiama lui, è vincere una coppa d’Africa con il Senegal. Si dice disposto a barattarla con una Champions League. «Sta a noi riuscire in qualcosa di grandioso» aggiunge, e non si capisce se stia parlando del suo Paese o dell’essere umano.

 

Tags : liverpoolsadio mané

Tommaso Giagni (Roma, 1985) ha pubblicato da Einaudi i romanzi L'estraneo (2012) e Prima di perderti (2016). Tra le antologie a cui ha partecipato: Voi siete qui (minimum fax, 2007) e La caduta dei campioni (Einaudi, 2020). Scrive per «L'Espresso», «Avvenire» e «l'Ultimo Uomo». Il suo ultimo romanzo è I tuoni (Ponte alle Grazie, 2021).

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