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Dario Vismara
I Sacramento Kings sono usciti a rivedere le stelle
31 mar 2023
31 mar 2023
Dopo 17 anni di inferno, i Kings torneranno finalmente ai playoff.
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Dario Vismara
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IMAGO / USA TODAY Network
(foto) IMAGO / USA TODAY Network
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Se Dante Alighieri fosse vissuto nel 2023 probabilmente avrebbe dedicato l’ultimo verso della Divina Commedia — “E quindi uscimmo a riveder le stelle” — all’epopea degli ultimi 17 anni dei Sacramento Kings. Dopo la più lunga assenza dai playoff nella storia dello sport professionistico americano (quindi coinvolgendo anche football, baseball e hockey), con la vittoria ai danni dei Portland Trail Blazers la squadra di coach Mike Brown si è matematicamente guadagnata la qualificazione alla post-season, la prima da quando è stato commercializzato l’iPhone o da quando esistono i social per come li conosciamo.L’ultima volta che i Sacramento Kings hanno preso parte alla post-season c’erano in campo una versione già crepuscolare di Mike Bibby, una coppia di esterni formata da Bonzi Well e Ron Artest (che non si chiamava ancora Metta World Peace), e una coppia di lunghi formata da onesti mestieranti come Kenny Thomas e Brad Miller, oltre a un giovane Kevin Martin e i suoi tiri tutti storti in uscita dalla panchina. Da quella stagione in poi, non casualmente l’ultima con Rick Adelman in panchina, i Kings come franchigia si sono davvero imbarcati in un viaggio degno dell’Inferno dantesco: dodici allenatori diversi, cinque General Manager differenti e soprattutto un cambio di proprietà dai fratelli Maloof a Vivek Ranadive che da una parte ha salvato la franchigia dal trasferimento e dall’altra ha reso, se possibile, ancora di più i Kings la barzelletta della NBA, specialmente dopo che gli L.A. Clippers hanno trovato la loro rispettabilità.

Tra i tanti momenti (in)dimenticabili di questi 17 anni, come togliersi dalla mente la faccia del GM Pete D’Alessandro quando al Draft la sua decisione su chi scegliere viene scavalcata dall’inserimento del proprietario? E il momento cringe del coro tutti assieme “NIK ROCKS”? (Ovviamente l’esperienza di Nik Stauskas a Sacramento è durata un anno, segnando meno di 5 punti di media con il 32% da tre punti).

Diciassette anni senza playoff in una lega che ammette alla post-season più della metà delle sue squadre ogni stagione (e dall’introduzione del torneo play-in si sale a venti squadre su 30) è un record difficilmente battibile anche se a prendere le decisioni fosse stata ChatGPT. Anzi, con l’intelligenza artificiale a prendere certe scelte probabilmente avrebbero vinto anche delle serie di playoff, cosa che non accade dal 2004. La lista degli errori commessi dai Kings è troppo lunga anche per questo articolo, ma difficilmente non si può partire dall’assurda decisione di preferire Marvin Bagley III a Luka Doncic nel Draft del 2018, dando vita all’immortale barra “The baffling Kings took Bagley over Luka”. Per chi vuole farsi un lungo giro nel viale dei ricordi, invece, qui ci sonoi 50 migliori giocatori passati dai Kings a non aver mai raggiunto i playoff. I mille protagonisti del ritorno ai playoffSi può dire che il segreto che ha permesso ai Kings di tornare alla post-season è aver cominciato a prendere decisioni normali, per quanto non prive di rischi. Hanno assunto un General Manager competente come Monte McNair, uno degli esponenti della scuola analitica derivante da Daryl Morey, e gli hanno permesso di prendersi dei rischi, come ad esempio la decisione di cedere Tyrese Haliburton (preso alla 11 del Draft 2020 dopo che in molti non ci hanno creduto) pur di arrivare a Domantas Sabonis. Una mossa di mercato non banale e che rischia ancora di provocare dei dolori a lungo termine, visto che Haliburton è diventato un All-Star agli Indiana Pacers e promette di continuare a essere élite quando Sabonis sarà in calando, ma che ha raggiunto il suo obiettivo immediato anche a discapito di quello a lungo termine. I Kings non sarebbero mai arrivati ai playoff quest’anno senza Sabonis, e probabilmente anche la miglior versione possibile di Haliburton non avrebbe avuto lo stesso effetto moltiplicatore per i compagni che ha avuto il lituano, di gran lunga il miglior bloccante di questa stagione NBA e il sole attorno al quale ruota tutto il sistema offensivo dei Kings.De’Aaron Fox, per dirne uno, certamente non avrebbe avuto la stagione che ha avuto se non ci fosse stato Sabonis. Anzi, per certi versi l’arrivo del lituano gli ha cambiato la carriera: uno dei motivi per cui i Kings hanno dovuto cedere Haliburton è anche perché Fox era considerato radioattivo non più tardi di un anno fa, complice un inizio di 2021-22 decisamente negativo (21 punti e 5.2 assist di media con il 25% da tre punti fino a gennaio) alla prima di cinque stagioni di un contratto al massimo salariale dato quasi sulla fiducia dai Kings, che per non intoccarne la leadership hanno rinunciato anche a Doncic. Insieme a Sabonis invece Fox è rifiorito diventando il giocatore più clutch della lega, impreziosendo la sua stagione di quarti quarti dominanti e percentuali stellari nei momenti decisivi delle partite, prendendo margine sulla concorrenza per il Jerry West Trophy che verrà assegnato a fine anno.

Il meglio del miglior giocatore “in the clutch” della NBA.

La differenza rispetto alla passata stagione, però, sta in quello che i Kings sono riusciti a mettere attorno a Fox e Sabonis, frutto di una campagna estiva particolarmente illuminata. Si comincia dalla scelta di Keegan Murray con la scelta numero 4 al Draft, una decisione che ora appare scontata ma che non lo era per nulla a fine giugno dello scorso anno, quando in molti pensavano che il quarto miglior giocatore del Draft (e forse anche qualcosa in più) fosse Jaden Ivey da Purdue, ora impantanato ai Detroit Pistons. Magati tra cinque anni Ivey sarà un giocatore migliore di Murray, ma è indiscutibile che il giocatore di Iowa fosse quello che i Kings avevano bisogno in questo preciso momento: le 188 triple segnate in stagione lo rendono il rookie più prolifico dalla lunga distanza nella storia della NBA, frutto di un eccellente 41% da tre punti che diventa 44% se si considerano solo le conclusioni dagli angoli.Sempre in angolo è piazzato anche Harrison Barnes, unico giocatore con esperienza da titolo nel roster insieme a Matthew Dellavedova, e utile collante per tutto quello che i Kings vogliono fare nelle due metà campo. È lui a prendersi carico del miglior esterno avversario in difesa ed è lui a punire sugli scarichi quando le difese lo lasciano libero per aiutare su Fox e Sabonis. Dopo un 2022 da 30% da tre punti, una volta cominciato il nuovo anno anche lui è salito enormemente di livello segnano dall’arco con il 42%, a cui unisce anche una particolare propensione nel procurarsi viaggi in lunetta con frequenza mai vista prima nella sua carriera (53% di FT Rate). In una NBA in cui trovare giocatori solidi che sappiano giocare entrambe le metà campo è merce rara, non è bisogna nemmeno sottovalutare il fatto che non abbia ancora saltato una partita quest’anno.A completare un quintetto equilibratissimo ci sono poi i movimenti senza palla di Kevin Huerter, scartato un po’ di fretta dagli Atlanta Hawks e sbocciato definitivamente a Sacramento, dove ha trovato un’intesa telepatica con Sabonis per fare uscire di testa le difese avversarie, andando per la prima volta in carriera sopra io 40% da tre punti e segnalandosi come uno dei migliori tiratori da passaggi consegnati di tutta la NBA. Messi assieme questi cinque elementi tutti al loro massimo splendore in carriera e una panchina che, per quanto non profondissima, ha trovato protagonisti diversi sera dopo sera, il risultato è non solo il miglior attacco della lega per efficienza offensiva (118.8, il dato più alto mai registrato seppur inflazionato dall’altissimo rendimento offensivo di questa stagione), ma anche l’esperienza estetica più appagante di questa regular season sera dopo sera.È difficile che una partita dei Kings sia noiosa, un po’ perché in attacco sono proprio belli da vedere (oltre il 57% di percentuale effettiva, dietro solo ai Denver Nuggets) e un po’ perché le loro partite sono quasi sempre tiratissime (sono sesti in NBA per minuti “clutch”, quindi con punteggio in bilico a fine gara), complice una difesa della quale si possono ripetere le stesse cose dette per l’attacco ma al contrario. Nel calcio si direbbe che Sacramento “gioca e lascia giocare”: i Kings sono 24esimi per rendimento difensivo e nessuna delle squadre che stanno sotto di loro faranno i playoff, presentandosi quindi alla post-season con un bersaglio grosso così piazzato sulla schiena. La speranza interna alla squadra è che alcuni dei dati “outlier” di questa stagione si normalizzino ai playoff: gli avversari dei Kings tirano con altissime percentuali praticamente da ogni parte del campo, in particolare nella zona dei floater dove sfiorano il 47% (solo Miami concede percentuali più alte). Certamente queste percentuali — le quarte peggiori della NBA col 56.6% effettivo concesso — sono dovute allo scarso talento difensivo della squadra, pressoché inevitabile quando i tuoi due leader tecnici sono due difensori sotto la media come Fox e Sabonis, anche perché ci sono momenti in cui i Kings non sembrano in grado di produrre uno stop difensivo neanche se la loro vita dipendesse da quel possesso. Un difetto che potrebbe costargli caro ai playoff, ma anche i loro avversari devono entrare nell’ottica di idee che in serate normali anche segnare 120 punti potrebbe non bastare per battere Sacramento.Il ritorno di un nuovo e rinnovato Mike BrownTutto questo non sarebbe stato possibile senza l’assunzione di Mike Brown, forse la singola storia più incredibile di questa cavalcata dei Kings. Dopo essere stato licenziato nelle sue tre precedenti esperienze in panchina a Cleveland (due volte, di cui l’ultima dopo appena un anno dal suo ritorno) e Los Angeles sponda Lakers (dopo sole cinque partite della stagione 2012-13), l’ex allenatore dell’anno del 2009 ha dovuto passare da anni di purgatorio, passandone un paio lontano dalla NBA e poi sei stagioni consecutive al fianco di Steve Kerr come assistente di spicco ai Golden State Warriors. Noto soprattutto per essere uno specialista della difesa dal carattere anche intransigente, fervido credente della disciplina Spursiana di Gregg Popovich, il Brown che si è presentato a Sacramento ha mostrato aspetti del suo carattere e del suo talento come allenatore che non conoscevamo. Fin da subito è stato comunicativo, coinvolgente, impegnato (ha passato buona parte di Eurobasket in giro per il Vecchio Continente per rimanere vicino ai suoi giocatori, anche venendo a Milano per parlare con Alex Len impegnato con l’Ucraina) e in generale con un atteggiamento più positivo nei confronti di giocatori e media, anche regalando dei momenti esilaranti.

Lo sprint a tutto campo e l’urlo “Turn the fucking jets on!” ai suoi giocatori durante il training camp ha fatto giustamente il giro del web.

Brown è riuscito a conquistarsi la fiducia della squadra non solo con le sue idee tattiche, ma anche con trovate motivazionali che da fuori sembreranno sciocche, ma che vengono utilizzate sempre di più in NBA. Una di queste durante il training camp era una campana installata a bordo campo con la quale l’assistente allenatore Jay Triano segnalava le migliori azioni durante gli allenamenti, che fosse uno sfondamento, una buona verticalità contestando un tiro al ferro o una conclusione costruita dopo aver mosso il pallone. Un altro è stato introdurre una collana dorata pacchianissima con il logo dei Kings da consegnare al miglior difensore della partita dopo ogni vittoria, creando anche una sorta di competizione interna per guadagnarsi quel riconoscimento (lo fanno in tanti: anche i Cleveland Cavaliers hanno la loro versione della collana).La leggenda istantanea del “Beam Team”Nulla però batte la trovata della squadra con la quale questo gruppo passerà alla storia dei Kings, vale a dire il “Light the Beam”. Sin dalla pre-season, quando ancora non si sapeva che la squadra sarebbe andata così bene, dopo ogni vittoria un fascio di luce viola formato da quattro fari viene sparato in cielo sopra il Golden 1 Center, azionato dai giocatori della squadra con un pulsantone gigante posto vicino al tavolo segnapunti. Il raggio rimane lì tutta la notte a segnalare all’intera città (“e anche agli alieni, voglio che lo vedano anche loro” secondo le parole del proprietario Ranadive) che i Kings hanno vinto. Una trovata semplice e geniale che ha già contrassegnato questa stagione, facendo diventare e probabilmente passare alla storia questa versione dei Kings come il “Beam Team” con cui ricorderemo questo gruppo capace di spezzare una maledizione che sembrava inscalfibile.

“Light the Beam” non è diventato solamente il coro che accompagna ogni partita dei Kings anche in trasferta, ma ha anche ispirato questa cover diventata di culto e che, una volta ascoltata, non vi uscirà più dalla testa.

Arrivati a questo punto uno sceneggiatore di Hollywood chiuderebbe il suo computer e si riterrebbe soddisfatto. I Kings dopo anni e anni di ignominia sono tornati ad avere una squadra rispettabile e divertente, cancellando 16 stagioni perdenti consecutive e coinvolgendo un’intera città (Sacramento non ha altre squadre professionistiche da tifare) e una tifoseria che non aspettava altro che un gruppo del genere per il quale perdere la testa, specialmente dopo aver dovuto lottare con le unghie e con i denti per tenere la squadra in città non più tardi di sette anni fa, rendendo questa stagione ancora più speciale per chi c’è stato fin dal primo giorno. Ce n’è abbastanza per riempirci un film intero.Ma non è finita qui, anzi. Nessuno davvero potrebbe rinfacciare qualcosa ai Kings anche se uscissero al primo turno di playoff, come sarebbe anche comprensibile nel caso in cui dovessero incrociare i Golden State Warriors campioni in carica al primo turno a Ovest, ma quello che hanno costruito sembra sostenibile sul lungo periodo. Questa Sacramento non è estemporanea, non è una “Suicide Squad” infarcita di veterani e contratti in scadenza per raggiungere i playoff un anno giusto per spezzare la maledizione e poi tornare nell’infamia delle ultime posizioni della NBA per altri 17 anni. Ma è un gruppo solido e affiatato, guidato da un allenatore competente e un GM che ha dimostrato di non aver paura di prendersi dei rischi (anche con un contratto in scadenza, prima della meritata estensione arrivata a gennaio). Ma sopratutto i Kings danno l’impressione di sapere benissimo che giocare assieme in una certa maniera — muovendo uomini e palla, alzando il ritmo ad ogni occasione, condividendo le responsabilità ma anche mettendo il pallone nelle mani dei loro migliori giocatori senza iniziative estemporanee — è l’unico modo per darsi una chance contro squadre più profonde, più talentuose e probabilmente più forti.Con una tifoseria caldissima alle spalle, il miglior attacco della lega e due giocatori come Fox e Sabonis certamente da quintetti All-NBA, secondo alcuni questi Kings hanno tutto quello che serve per fare strada nei playoff della Western Conference, specialmente evitando la parte del tabellone con Denver e Phoenix. Servirà una bella dose di fortuna, alte percentuali dalla lunga distanza e una difesa che forse, potendosi concentrare solo su un avversario alla volta, può permettere a Mike Brown di escogitare strategie difensive in grado di garantirsi un minimo di sopravvivenza. Ma intanto l’Inferno è alle spalle, e i Kings possono tornare a riveder le stelle — pardon, il fascio di luce viola che spacca in due la notte di Sacramento ogni volta che vincono una partita.

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