
Da una finestra vedo Trecastelli, dall'altra Ostra Vetere, borghi di pietra adagiati sulla sommità di un riposante paesaggio collinare. Tutto intorno il verde. Un fianco del poggio su cui sorge l'appartamento che ho affittato per una decina di giorni è coperto di paulownie allineate in file ordinate. Il proprietario di casa mi ha detto che gli hanno consigliato di piantare quel tipo di albero perché in una decina d'anni ripagheranno bene, quando rivenderà il legno alle cartiere. Mi ha fatto riflettere: non sono mai stato capace di immaginare il mio futuro tra dieci anni. Mi sembra impossibile programmare qualcosa con tanto anticipo, ma se vivi di agricoltura credo ci siano poche alternative. Il tempo, per chi lavora la campagna, ha una materialità diversa.
Qua e là ci sono enormi spazi coltivati a girasole, ma il cielo è un po' coperto e i fiori non hanno l'aria gloriosa delle giornate più luminose. Se ne stanno lì con l'aria stanca, tanto che se fossero persone li definirei “emaciati”. Magari hanno più bisogno di pioggia che di sole, ma anche così sono mille volte meglio dei capannoni industriali che coprono ogni spazio libero dalle mie parti. Per chi arriva dalla Pianura Padana questa parte delle Marche, l'entroterra di Senigallia, è un mondo preindustriale. Case sparse vs case su case, come diceva Celentano. Coltivazioni vs grossi scatoloni di latta. Quiete vs velocità. Quasi troppa quiete, per noi figli del capitalismo.
Decido di uscire a fare una corsetta, anche se sicuramente nel mezzo di uno di quei saliscendi mi stancherò e comincerò a guardarmi in giro con le mani sui fianchi. Proverò a far finta di riprendermi un po' del mio tempo, in uno di quei classici momenti di sospensione dell'incredulità delle vacanze. Come previsto la corsa è breve, ma non c'entra la pigrizia. Risalendo la collina, purtroppo su strada asfaltata perché non ho idea di come potrei attraversare altrimenti tutti quei coltivi, vado a sbattere su una transenna sormontata da un cartello metallico: “Strada interrotta per torneo di ruzzola”. O qualcosa del genere.
Non ho registrato con precisione il messaggio perché sono rapito da quella parola mai sentita prima: ruzzola. Direi che anche il praticante più appassionato convenga con me che quel termine strappa facilmente un sorriso, di sicuro incuriosisce. Mi avvicino con fare da umarèll, circospetto e vigile come scavalcassi la cancellata di uno stadio. Anche se il clima sembra quello di un torneo di briscola. Indosso pantaloncini da corsa vagamente aderenti e una maglia del Milan anni Novanta e in genere quando sono conciato così tendo a sfuggire agli sguardi. Per fortuna vengo ignorato.
Una trentina di persone di età variabile, ma in media abbastanza avanzata, parlotta concitata ai bordi della via, mentre un uomo che indossa quella che ha tutta l'aria d'essere una divisa sociale, con tanto di stemma e sponsor, briga tenendo in mano una sorta di caciotta. I commenti nel dialetto cantilenato dei marchigiani risuonano nel generale silenzio della campagna, poi l'attenzione si focalizza. Se adesso domandassi che cosa sta succedendo farei la figura di quelli che durante i rigori di una partita di calcio ti chiedono di spiegargli il fuorigioco.
Sto in disparte e confido nelle mie doti di comprensione, ma per quanto mi sforzi a cercare associazioni d'idee, quello che sto vedendo è un inedito. L'uomo lancia la caciottina tenendola per un lungo cordino, come fosse uno yo-yo, quella atterra producendo uno stock! ben poco alimentare e rotola via. È partito con una sorta di rincorsa conclusa con un saltino di slancio e ha mosso il braccio come si fa nel bowling. Emozionati per il bel gesto, alcuni lanciano urla di apprezzamento. Il cordino rimane tra le mani del lanciatore e la caciottina risale per una decina di metri la strada scoscesa, superando la curva con una parabola perfetta. Sembrano tutti molto soddisfatti di ciò che hanno appena visto e il silenzio che aveva accompagnato l'istante del tiro è ora sostituito da commenti ammirati. Prima che qualcuno si rivolga a me, trovandomi grossolanamente fuori posto, scelgo di riprendere la corsetta. Tornerò dopo aver studiato le regole della ruzzola.
Dal regolamento pubblicato sul sito Figest, la Federazione italiana giochi e sport tradizionali, apprendo che la ruzzola o rotola o ruzica o rota si pratica in tutte le regioni italiane, anche se nel mio piccolo non l'avevo mai vista da nessun'altra parte. È uno sport che si svolge sempre all'aperto su strade di campagna, e questo lo avevo intuito. Si può giocare in singolo, in coppia o addirittura a squadre. La “ruzzola” propriamente detta, fatta di legno e assolutamente da non dipingere, su questo punto sono davvero molto rigorosi, è quella che a me sembrava una caciottina. Il suo peso deve essere di circa sette etti e mezzo. Si può lanciare a mano libera o usando uno spago o fettuccia e l'obiettivo del gioco è, cito: “Lanciare la ruzzola il più lontano possibile con un numero prefissato di lanci per ogni gioco”. Vincono la squadra o il singolo che nei lanci previsti riescono a percorrere la distanza maggiore.
In breve: si prende la rincorsa partendo da un punto prestabilito, si lancia la ruzzola con o senza fettuccia ma facendo in modo che rotoli il più possibile e quindi la si lancia di nuovo.
«È una cosa che pratico da quarant'anni. Ho iniziato da bambino seguendo l'esempio di mio papà e mio fratello, che aveva tredici anni più di me. Anche io ho giocato a calcio ma questo gioco 'strano' mi affascinava di più e oltre a piacermi mi dava tante soddisfazioni. I giovani erano ben accetti e quando la domenica pomeriggio scendevo in strada a giocare mi sentivo sempre al centro dell'attenzione», racconta Adriano Spadoni, ruzzolatore da più di quarant'anni e presidente federale del lancio del rulletto (una ruzzola più grande).
Negli ultimi anni la ruzzola e quelle che Spadoni definisce le “discipline che rotolano” si sono date uno statuto e si sono affiliate in una federazione, sotto l'ombrello del CONI.
Passatempi antichissimi, tanto che alcuni ne hanno individuato le prime tracce nella Tomba dell’Olimpiade di Tarquinia, di epoca etrusca, le discipline che rotolano hanno un legame molto stretto con la vita rurale: «Non perché ci giocavano solo i contadini, ma perché si praticavano su strade di campagna» precisa Spadoni, che forse nei suoi quarant'anni di pratica ha dovuto scontrarsi con qualche pregiudizio di classe.
In passato si lanciava soprattutto il formaggio, che diventava anche il premio per chi vinceva la gara. Un incentivo non da poco nell'Italia pre boom economico, che non di rado in campagna soffriva la fame. Oggi si può assistere al lancio del formaggio soprattutto nelle celebrazioni tradizionali, come nel caso di Pontelandolfo nel beneventano, o nelle rievocazioni storiche, durante carnevali o feste patronali.
Come spiegato alla Gazzetta da Giorgio Concetti, presidente federale della disciplina, il lancio del formaggio «richiede un meticoloso lavoro sull’equilibrio e sul controllo della postura per garantire un’idonea propulsione». Tuttavia, la variante commestibile della ruzzola ha alcuni difetti importanti: oltre alla sua rapida deperibilità nelle giornate di sole e al peso notevole delle forme, che possono raggiungere anche venti chilogrammi, il formaggio è fragile. Se colpisce un sasso, uno spigolo o più in generale un ostacolo duro si spacca e tocca mangiare i pezzi sparpagliati sulla via.
Proprio per evitare questi inconvenienti con il tempo si è preferito utilizzare strumenti di legno, mentre per i premi e addirittura le scommesse è cominciato a circolare il denaro. Che come ovvio non è mai un incentivo a prendere le cose con maggiore serenità. Da qui il fiorire di divieti e limitazioni da parte delle autorità pubbliche ed ecclesiastiche, che non approvavano tanta animosità da parte dei contadini. Il clero disincentivava la ruzzola anche perché tradizione vuole che si si giochi la domenica mattina, spingendo i praticanti a saltare la messa. Un sacrilegio nei territori dello Stato pontificio, dove questo sport spopolava.
C'era anche chi lo riteneva un gioco pericoloso, perché poteva capitare di essere colpiti da una ruzzola – o peggio, da un pesante formaggio – e non era così raro che chi abitava intorno a un percorso si trovasse una finestra rotta. Le polemiche classiche di chi non approva i bambini che giocano a palla in cortile.
Gioco d'azzardo, messe saltate e danneggiamenti a parte, ciò che infastidiva e infastidisce ancora oggi maggiormente quelli che non praticano la ruzzola è l'intralcio della viabilità. I blocchi stradali non sono mai piaciuti a nessuno. Io stesso, dopo il mio primo incontro con la ruzzola, passando in auto avevo dovuto interrompere un gruppo di giocatori nel mezzo di un allenamento. Capita spesso a chi abita nella zona. Fermarsi e attendere la fine del gioco è improbabile, perché questi eventi, così come le partite, possono durare qualche ora. Mi avvicinavo lentamente alla transenna, la superavo con una sterzata avvisando con qualche colpetto di clacson e poi facevo la mia sfilata della vergogna tra due ali di folla infastidita. Occhi di biasimo mi scrutavano oltre il finestrino dell'auto.
Gabriele d'Annunzio ha raccontato nel Libro segreto che a dieci anni era “ruzzolante su la strada di Chieti; e sapevo legarmi al braccio lo spago e avvolgerlo intorno al cacio e prendere la rincorsa e tirare, entrando in furia se la mia gente rideva di me”.
A giudicare dall'intervista a GualdoNews del campione di ruzzola Mauro Sabatini, oggi gli animi sono decisamente più distesi. «Praticare questo sport, individualmente e in squadra, mi permette di passare ore all’aria aperta, in compagnia e divertendomi molto». Ma ci sarà pure un buon motivo se la Figest ha dovuto inserire nel regolamento ufficiale che le bestemmie sono proibite.
Anche Spadoni, parolacce o meno, esprime solo positività nei confronti della ruzzola: «Una volta ci si sfidava tra paesi vicini o, in quelli un po' più grandini, tra rioni o vie. Lungo le strade capitano infortuni e qualcuno prende ruzzolate molto dolorose, ma negli anni grazie alla ruzzola ho conosciuto una miriade di persone. Ogni volta che le ritrovo prima del risultato sportivo ci si abbraccia, felici perché ci si rivede».
Come ha spiegato al Resto del Carlino Luigi Mencarelli, responsabile Area Giochi Uisp Marche, la ruzzola «è rimasto uno sport rustico, fatto di battute e sfottò, di risate e di arrabbiature… che passano immediatamente davanti a un piatto di pasta e un bicchiere di vino».
Ci sono diverse modalità di gioco: individuale, a coppie e a squadre. Di solito a squadre vince chi raggiunge per primo cinque punti, chiamati “spunti”, che si ottengono ognuno arrivando più avanti degli avversari con tre tiri consecutivi. In alcuni casi è ammesso il pareggio 4-4.
I tornei individuali o a coppie, invece, si disputano su nove o dieci lanci e i giocatori “duellano” tra loro in batterie che inizialmente ne contano una settantina, con numeri che diminuiscono via via che si avanza da un turno a quello successivo. La finalissima è di norma tra i dieci migliori.
«Non ci sono limiti di età. Abbiamo diverse categorie così che ognuno possa confrontarsi con sportivi di livello simile. Un'organizzazione senza categorie suddivise in base all'età sarebbe impari, perché serve un grosso slancio nei tre o quattro metri di rincorsa, o scorza. Ci vuole abilità ma anche una certa potenza fisica», precisa Spadoni, spiegandomi che un buon tiro può percorrere anche centocinquanta metri.
Si può lanciare la ruzzola su percorsi piani, campi agricoli dall'erba ben curata con il terreno di gioco delimitato da paletti e bandierine, oppure sulle strade collinari che caratterizzano molti dei paesi dove si gioca con più assiduità. Come nelle Marche. Un'attività collaterale che porta via moltissimo tempo ai partecipanti è cercare le ruzzole finite nei fossati, in mezzo ai boschetti o tra rovi e cespugli.
Gustavo Buratti, che ha dedicato la vita allo studio di minoranze linguistiche e autonomie locali, nella sua ricerca degli sport “sommersi” del 1984, tratta l'argomento dei “lanciatori di formaggio” assieme a passatempi altrettanto antichi come lippa o cornichon. Lo definisce un gioco di “origine pastorale” diffuso sino all'Alto parmense, che ancora negli anni Ottanta ha un grande seguito e grande entusiasmo di pubblico, per poi declinare nell'Italia dell'inurbamento. In molte zone della bassa Toscana pare ad esempio che si sia smesso di giocare a ruzzola negli anni Settanta. «Sono davvero pochi i giovani che si avvicinano spontaneamente a questo sport», si lamenta ancora Ricciatti sul Resto del Carlino. Secondo Spadoni, al contrario, la ruzzola sta avendo una grandissima crescita e dai «numeri irrisori» di qualche tempo fa si è passati ai «cinque o seimila» iscritti attuali. «All'inizio gli extra provinciali erano solo nelle Marche, in Umbria, in Toscana e qualcosina in Abruzzo», mentre oggi «mi è capitato di giocare a Reggio Emilia e addirittura in Calabria». Dove si è stupito per l'attenzione riservata dal pubblico a lui e ai suoi colleghi ruzzolatori: «Bisognava fermarli per evitare che finissero troppo a ridosso del lanciatore».
Le province di Ancona e Macerata, osservando l'albo d'oro delle varie competizioni, sembrano spadroneggiare, con i perugini unici in grado di mettere a repentaglio questo vero e proprio dominio marchigiano. Camerino, Escanatoglia, Mondolfo, San Costanzo, Trecastelli, Arcevia, la ruzzola è una buona occasione per tanti piccoli paesi di farsi notare anche oltre i confini della Provincia.
Pure la ruzzola, oggi che l'iperspecializzazione è entrata in ogni dinamica sociale, ha assunto una struttura molto più professionale che in passato, ma la sua natura di gioco antico e popolare per definizione la salva dall'esasperazione tecnocratica subita da altri sport. Il calendario, però, è serratissimo e si gioca otto o nove mesi all'anno, sempre di domenica ma a volte pure di sabato pomeriggio. Cedendo come la Serie A di calcio allo spezzatino.
In città, pure nelle vicine Ancona e Senigallia, è facile trovare chi come me a sentire la parola ruzzola aggrotta la fronte: «E questa che roba è?». Le discipline rotolanti, però, non hanno voglia di cedere il passo alla modernità.