
Il botta e risposta tra Thomas Shelby e la sua governante, uno dei più apprezzati delle sei stagioni di Peaky Blinders, grazie alla pagina Instagram chefaticalavitadarunner è anche un meme a tema corsa in cui Thomas è un runner pronto all’allenamento della domenica mattina. Uno di tanti meme, pensati per tanti runner, a testimoniare come negli ultimi anni la corsa sia uscita dalla sua nicchia di cultori e appassionati e abbia conquistato sempre più spazio nel mainstream. Difficile parlare di un fenomeno di massa, ma chiunque abbia un profilo social può facilmente notare come i prodotti virali a tema corsa negli ultimi anni si siano moltiplicati. Così come ben poche persone non hanno, nel giro dei propri affetti, almeno due o tre aspiranti maratoneti.
UN FENOMENO IN CRESCITA?
I numeri delle gare non parlano di un boom di praticanti. In Italia i finisher delle maratone sono saliti dai 47.800 del 2014 ai 54.696 del 2024, +14%. Ma già nel 2017 erano oltre 52mila, prima del crollo dovuto al Covid. Non ci sono dati che confermino in maniera univoca una crescita dei runner. Un elemento a favore è rappresentato dall’andamento del mercato delle scarpe da corsa, atteso in crescita per tutto questo decennio.
Ma il termometro più affidabile, probabilmente, è empirico. In strada, nei parchi, sui lungargini si vedono più runner rispetto a dieci anni fa. Il numero di persone che chiedono agli appassionati quanti chilometri sia lunga una maratona è in calo. Influencer, youtuber, podcaster, tecnici che raccontano le loro maratone o le loro metodologie di allenamento sono aumentati. E così via. Gli addetti ai lavori non hanno dubbi: i praticanti sono cresciuti. Ma sono diversi dai loro predecessori.
Ne è convinto Stefano Baldini, oro olimpico di Atene 2004, il più grande maratoneta italiano degli ultimi trent’anni abbondanti, oggi allenatore di diversi professionisti e amatori: «Dal periodo del Covid è una certezza: si sono messi a correre in tanti». Il boom però non si traduce in una crescita delle gare su strada. «In Italia l’aumento dei maratoneti è derivato dalla possibilità, per gli stranieri, di accedere alle maratone italiane con meno balzelli. Qui la legge prevede che ci sia una visita di idoneità agonistica, che in giro per il mondo si traduce in un’autocertificazione con cui ognuno si prende la responsabilità del proprio sforzo. Ciò fa sì che all’estero gareggiare sia molto più facile che in Italia. La validazione delle visite mediche di idoneità straniere ha permesso agli atleti che vengono da fuori di accedere più facilmente alle maratone italiane. È l’unica ragione che ha fatto aumentare i finisher delle maratone più importanti. Questo continuerà nei prossimi anni, mentre il numero di italiani è lo stesso di sempre».
Fuori dalle gare ufficiali, però, il discorso cambia. «Sta crescendo tanto tutto ciò che è al di là della competizione», osserva Carlotta Montanera, allenatrice, blogger, giornalista e influencer, più nota come Running Charlotte. «Nella settimana della maratona di Milano viene organizzata un’infinità di eventi a corollario, come se fosse la Design Week. C'è l'expo, ma non solo. Ogni marchio fa la corsa del mattino, l’evento yoga con respirazione per la corsa, il test delle scarpe: che sia un brand, una società sportiva, un gruppo a scopo benefico, c’è una serie di iniziative intorno alla gara che allargano tantissimo il bacino».
Ma spesso chi corre non gareggia. «C’è tanta gente che corre e a cui delle gare non interessa nulla», nota Fulvio Massini, direttore tecnico della Firenze Marathon, allenatore di maratoneti di tutti i livelli e autore di numerosi libri sulla corsa. Cinquant’anni di esperienza alle spalle, Massini guarda alla crescita del movimento sul lungo periodo: «Il boom della corsa su strada nacque nel 1973 con l’austerity: sabato e domenica la gente non poteva prendere la macchina e si fu costretti ad andare a piedi. E, sull’onda dell’America, nacquero le corse podistiche». Non è solo un fatto di macchine ferme in garage: «Era in corso anche un cambiamento sociale. Si veniva dal dopoguerra, dagli anni del boom economico. In quegli anni ci fu la ricerca dello star bene e del riappropriarsi della propria vita». Insomma «sembra che ci sia stato un boom negli ultimi vent’anni, ma in realtà c’è stata una crescita costante. La gente che si avvicina alla corsa c’è sempre stata. Dopo il Covid ce n’è di più».
Il boom è recente e incontestabile in una giovane branca della corsa: il trail running, la corsa sui sentieri, con distanze e dislivelli variegati a seconda dell’allenamento o della competizione, in cui il cronometro non conta nulla. Anche per questo i numeri delle gare su strada non hanno subito scossoni: «Gli interessi si sono spostati sul mondo fuori strada, sul trail e sulle attività non cronometrate», nota Baldini.

Lo conferma uno dei professionisti più noti del panorama italiano, Francesco Puppi, atleta sponsorizzato dal brand Hoka e autore del podcast Any Surface Available: «Dopo il Covid il trail è cresciuto in maniera esponenziale perché è esplosa la popolarità degli sport outdoor. La gente ha avuto più voglia di uscire, la corsa è diventata un’attività molto di moda e così la gente ha scoperto anche il trail». La corsa su sterrato ha alcuni punti di forza per i nuovi praticanti: «Maratona e atletica classica richiedono una preparazione verticale, mentre il trail permette a tanti atleti con background diversi di approcciarsi alla disciplina – spiega Puppi -. Quindi chi cammina in montagna, fa scialpinismo o va in bici trova il trail una disciplina più approcciabile e più interessante rispetto alla corsa su strada o all’atletica su pista, dove è difficile che tu vada a trent’anni se non ci sei nato».
UNO SPORT DEMOCRATICO
Il fatto che l’aumento dei praticanti abbia riguardato soprattutto il mondo extra-gare, o comunque le gare in cui il cronometro non conta, spiega almeno in parte un’altra tendenza: «In questi anni c’è molta più gente che corre piano. Chi si avvicinava alla corsa negli anni ‘70 mirava sempre all’agonismo. Oggi c’è anche la signora Maria - nota Massini - Alle persone non importa tanto del tempo: corrono perché gli piace, per stare in compagnia. L’approccio è cambiato. Una volta erano guai a non fare le ripetute, oggi alleno gente che non le fa mai».
Non è per forza un male. «È positivo perché vuol dire che tutti possono porsi un obiettivo ambizioso come correre una maratona nella propria vita, o farlo più volte», riflette Baldini. Sul crollo delle prestazioni incidono anche gli stili di vita diversi dal passato: «Il nostro tempo libero si è diversificato – ricorda l’olimpionico di Atene - Nel secolo scorso l’attività sportiva era l’hobby principale di tante persone, oggi gli hobby si sono diversificati in così tante ramificazioni che l’attività sportiva è diventata fitness e non prestazione. Ma se vuoi correre in due ore e mezza una maratona, devi allenarti tutti i giorni anche se lavori».
Sembra una questione secondaria, ma è un cambiamento culturale che ha emancipato la corsa: non più pratica da asceti ma sport per tutti, da condividere anche coi propri amici. «Vent’anni fa correvi solo se eri forte. Andare a correre significava allenarsi, avere un piano d'allenamento, iscriversi alle gare, finire sul podio, per cui chi praticava quello che si chiamava jogging non era considerato un runner. Oggi non c'è più questa distinzione», ricorda Montanera. «C'è una pubblicità che New Balance ha lanciato l'anno scorso, Run Your Way. Vedi queste immagini di persone, prese nella stessa prospettiva ma molto diverse tra loro. Il percepito fino a qualche anno fa era che chi andava piano odiava quelli che andavano forte e si allenavano perché erano degli invasati, mentre chi andava forte e si allenava odiava quelli che andavano piano perché erano degli sfigati. Oggi non c'è più una distinzione».
E questo ha portato a una popolarità che il running inteso come hobby non ha mai avuto: «La corsa da sport per sfigati adesso è percepita come cool e quindi tutti vogliono correre – osserva Puppi -. Ci sono un sacco di community, di modi per partecipare e per correre con qualcuno, per condividere quello che si fa. Questo ha facilitato molto l’accesso. E poi si è ridotta la barriera d’accesso che una volta era molto alta, perché la corsa era percepita come uno sport competitivo in cui se non ti allenavi un certo numero di ore, un certo numero di chilometri, se facevi certi tempi non eri degno di essere un atleta. Adesso la gente mediamente se ne frega dei tempi che fai e di quanto corri durante la settimana. Tutti possono essere atleti e iscriversi alle gare. C’è stata una forte liberalizzazione che ha portato a una maggiore facilità di accesso, cosa che per me è molto positiva».
È cambiata la percezione di questo sport, perché è cambiato anche il mondo intorno. «Quando io avevo 20 anni andavo a correre e la gente mi guardava come a dire: ‘ma perché non fai qualcosa di divertente? Sei una sfigata perché non bevi alcolici, non fumi e non ti droghi. Oggi non è più così», afferma Montanera. Non solo: «Una cosa è di moda e trendy anche quando è esteticamente bella. Quando io ho iniziato a correre non c'erano neanche le cose da donna, a partire dai pantaloni. Se ti vestivi bene per andare a correre eri un po' deriso dal mondo del running. Oggi è tutto molto più fluido, più aperto, più democratico. Va bene tutto».
UNO SPORT INDIVIDUALE E COLLETTIVA
Tra i paradossi di quest’epoca d’oro della corsa, il più evidente forse riguarda la nascita di numerose community intorno a uno sport individuale. «Rispetto ad altre attività che non sono per niente sociali come la palestra, o la bici dove non ti puoi parlare, qui ne hai una che puoi sì praticare da solo quando e come vuoi, ma poi guardi gli appuntamenti in settimana e quando vuoi vai a correre con gli amici. E nel frattempo parli. Adesso ci sono tante offerte per poter correre in compagnia», nota Montanera. E così nascono vari tipi di community: «Stanno spuntando tante crew di runner che organizzano eventi che sono anche di allenamento, ma che vanno a sostituire l’aperitivo o la serata con il DJ set. Sono occasioni sociali basate sulla corsa: si va a correre tutti insieme, ma la realtà è che ci vai per socializzare». Nelle città proliferano i Run Club. A Milano il Pizza Run Club una volta al mese organizza una seduta di corsa a cui fa seguito una mangiata collettiva di pizza. Il Rome Running Club rifocilla i suoi runner con un aperitivo post allenamento. L’Oel Run Club dà appuntamento davanti a un negozio a Bologna ogni martedì sera. I club sono spesso legati a collaborazioni con marchi di abbigliamento e calzature sportive. Ma il risultato è che correre, almeno per gli amatori, non è un’attività solitaria. «Ogni città ha il suo, poi hanno nomi ed espedienti per incontrarsi: c'è quello in cui corri e bevi il caffè, corri e mangi la pizza, corri e balli, corri e fai yoga. Non hanno nessuna base, puoi iscriverti chiunque tu sia», sintetizza Montanera.
Non è un fenomeno inedito: «A inizio anni ’10 facevamo Firenze corre, ci trovavamo tutti i mercoledì sera alle 8», ricorda Massini, secondo cui la nascita delle community attraverso i social «è una cosa positiva. La gente si ritrova a livello virtuale e social, ma è anche ritornata a frequentare le società sportive. L’uomo è nato per stare in compagnia. E in un mondo in cui la gente è assoggettata ai social l’associazionismo attraverso le squadre è di fondamentale importanza, perché così la gente si ritrova. È anche un aspetto di salute mentale».
Sono esplosi anche gli spazi online per parlare di running. Blog, pagine Instagram, podcast di atleti professionisti come il già citato Any Surface Available, di tecnici come Runner 451, di appassionati come Sterrato.
RIVOLUZIONE SOCIAL
Social e piattaforme di allenamento hanno contribuito in maniera inequivocabile ai successi del running. A partire da Strava, una piattaforma su cui gli atleti di endurance condividono allenamenti e prestazioni con amici e follower, in cambio di kudos (i like). Esiste una già ampia letteratura che ne evidenzia gli inevitabili aspetti negativi a partire dall’ansia da prestazione (per un approfondimento è utile questo articolo della newsletter A cosa penso quando corro), ma l’influenza che ha avuto sulla crescita della corsa e sulla sua socializzazione è evidente.
A fianco c’è il lavoro dei brand, attivi su due tendenze. Da un lato, la ricerca della prestazione estrema: il Breaking2 di Eliud Kipchoge, con cui Nike lanciò la rincorsa al muro delle due ore in maratona, o il Breaking4 con cui la stessa multinazionale ha sperato di portare Faith Kipyegon a scendere, prima donna nella storia, sotto i quattro minuti nel miglio. Non ci è riuscita nonostante una gran prova. Iniziative che hanno sfruttato la potenza delle immagini, ancora più evidente nel trail: «I social network hanno avuto un enorme peso nello sviluppo del trail: è uno sport legato anche all'ambiente, alla natura, alla montagna e uno sport in cui la parte estetica ha un ruolo rilevante. E all'inizio la narrazione è passata tanto tramite social network», osserva Puppi. L’esempio principe è il lungo sodalizio tra Salomon e il fuoriclasse catalano Kilian Jornet: «Salomon ha inventato quello che per me è il racconto del trail running, attraverso le prime serie YouTube con Kilian, con tanto lavoro sui social media. Di conseguenza gli altri si sono adattati a quello». Ma nelle campagne di comunicazione, più o meno elaborate, il protagonista è spesso il runner qualunque, immortalato per esempio da New Balance. E ancora, sempre più spesso sono gli influencer, spesso atleti o allenatori di livello discreto, magari con un passato da professionisti o subito sotto, a collaborare con i brand.

Tutte facce della stessa medaglia: «Qualsiasi cosa promuova e comunichi ciò che fanno le persone rende popolare un’attività: le piattaforme che monitorano il movimento e lo comunicano, l’attività di alto livello, quella che si fa direttamente nel parco della città, la prova di una scarpa fanno il bene del commercio. Ma anche delle persone, invitate e stimolate a fare del movimento», commenta Baldini.
Questo ha avuto un impatto nell’approccio alla corsa. «Oggi il runner è più tecnologico di prima. Negli anni ’70 andavamo a misurare i percorsi in bici o in macchina, o coi misuratori che ci davano i geometri. A Firenze, ognuno andava al parco delle Cascine e metteva il suo segno. Oggi col Gps è tutto più semplice, poi Strava è stato rivoluzionario», riflette Massini.
«Oggi il runner è molto più autonomo, in grado di avere informazioni sull’attività quotidiana di allenamento, di avere un’autovalutazione da diverse piattaforme online. Una volta c’era un rapporto uno a uno: allenatore-atleta o allenatore-gruppo», insiste Baldini. Per l’olimpionico, ciò comporta aspetti positivi e negativi: «C’è più accessibilità al nostro movimento, ma meno precisione sulle cose da fare. Nell’attività che fa un allenatore, un gruppo, una persona, c’è un lavoro individuale e di contatto che si è perso. Io sono sempre per il contatto umano, non gestisco nessuna piattaforma di allenamento ma lavoro con 25 atleti sul campo ed è la cosa che preferisco: dà più risultati non solo dal punto di vista sportivo, ma anche umano».
Social e piattaforme hanno permesso a Montanera di fare della propria passione un lavoro: «Senza una piattaforma di coaching online non saprei come allenare le persone a distanza, né saprei come comunicare per trovare i clienti. Io trovo i clienti che non conosco personalmente perché mi contattano sui social. Se non avessi aperto quel blog nel 2012, oggi sarei la direttrice tecnica della mia società sportiva (la Podistica Torino, ndr), ma finirebbe lì».
UN'IMPRESA PER TANTI
L’innovazione è intervenuta anche su abbigliamento e alimentazione. Ed è stata un’altra rivoluzione. Lo dimostra il fatto che i record mondiali maschili e femminili, su tutte le distanze classiche della strada a partire da mezza maratona e maratona, in dieci anni siano stati sbriciolati. A spingere le prestazioni sono state innanzitutto le scarpe con piastra in carbonio, arrivate quasi dieci anni fa, che hanno concesso agli atleti un netto miglioramento dell’economia di corsa. Ma è stata stravolta anche l’alimentazione. Oggi i gel che permettono agli amatori di assumere, mentre corrono, 60 grammi all’ora di carboidrati. Una cosa impensabile nel passato, anche recente.
«Solo 25 anni fa questo non esisteva – nota Baldini - Noi usavamo miscele soprattutto di sali minerali per reintegrare dal punto di vista dell’idratazione, oggi ci sono carboidrati a basso indice glicemico in formato gel o liquido. Questo ha prodotto la possibilità per tutti di accedere alla distanza di 42 chilometri e 195 metri».
Della stessa idea Massini: «Oggi il livello di supplementazione è eccezionale. C’è stato un investimento notevole da parte delle aziende e questo ha portato a un cambiamento dello stile nutrizionale di chi pratica lo sport». E così le maratone «sono diventate più accessibili. Mentre prima era un discorso elitario, oggi anche le ultramaratone sono più rivolte alle masse».
C’è il rischio di banalizzare l’impresa di Filippide? Baldini pensa di no: «Resta una cosa non da tutti. Vuol dire essere in salute e preparati. Decine di migliaia di italiani possono farlo, tanti altri no. Rimane un obiettivo molto sfidante ed esclusivo, che necessita di un percorso molto impegnativo. Per tante persone resta un sogno troppo lontano, ma non lo è. Serve per alimentare il fuoco della nostra quotidianità: lo sport ci deve portare a sfidarci per alimentare quel fuoco dell’agonismo che non è solo sportivo, ma anche della nostra attività lavorativa, della nostra quotidianità. È un ottimo allenamento anche per il resto della nostra vita».
Inevitabile chiedere a chi visse la propria carriera alla vigilia di questi cambiamenti se un po’ invidi gli atleti di oggi. Baldini nega: «Ogni epoca ha la sua evoluzione tecnologica. Quello che ci rimane sono i risultati e le medaglie. Una medaglia d’oro in una certa epoca vale come la medaglia d’oro di oggi, l’aver tagliato il traguardo di una maratona in una certa epoca vale come l’averlo fatto oggi».
Per le superscarpe c’è un elemento di riflessione ulteriore: «Io non sono contro le modernità, l’importante è che ci portino a un’evoluzione positiva nella vita di tutti i giorni. Se le piastre di carbonio domani finissero nelle scarpe da lavoro di tanti italiani che arrivano a sera meno stanchi rispetto all’aver usato una scarpa da lavoro modello 1999, ne sarei molto felice».
IL RUNNER DEL 2025
Al netto delle novità, gli elementi di continuità della corsa con ciò che era venti, trenta o cinquant’anni fa sono molti di più. L’attività è la stessa da quando l’uomo si è messo su due gambe e non è cambiato il fatto che questo sia uno sport faticoso e individuale, in cui il divertimento e la socialità esistono ma rappresentano un contorno e un arricchimento rispetto alla pratica in sé.A cambiare è stato soprattutto il runner, che evolvendosi ha cambiato l’immagine della corsa. E quindi, chi è il runner oggi? Difficile una risposta univoca.

Innanzitutto, è qualcuno che corre per stare bene. «All’inizio l’approccio era abbastanza agonistico: la gente pensava a far le gare – ricorda Massini -. Poi ha iniziato a pensare alla corsa per la salute. Ha iniziato a vivere la corsa in modo più salutare: è cambiato l’approccio da parte dei medici, che col tempo hanno iniziato a promuovere l’attività fisica. Oggi siamo arrivati al punto in cui l’attività fisica è diventata una medicina».
E poi sta cambiando la carta d’identità: «Si avvicinano tantissimi giovani. E le donne – nota Massini -. Quando cominciai io, se una donna andava a correre la prendevano in giro. Con me la gente si affacciava dalla macchina e mi diceva: vai a lavorare. Le lascio immaginare cosa dicevano alle donne». Se all’estero ormai capita che le maratonete siano la maggioranza, anche in Italia il trend è evidente. Lo conferma Montanera, che sul suo blog ha una sezione specificamente dedicata alla corsa femminile: «Non c'è nessun motivo fisiologico per cui una donna debba correre la maratona più lentamente di un uomo. È pieno di donne che vanno più forte degli uomini. Ma in passato si diceva che la donna dal punto di vista fisiologico non può resistere alla maratona». E però restano altri fattori a remare contro: «Spesso la donna, soprattutto quando si sposa e ha figli, nel momento in cui pratica sport in modo assiduo viene criticata in quanto perde tempo, diventa egoista. L’uomo no. Se io lascio mio figlio dai nonni per andare a correre, sono egoista e un uomo no. Se pratico sport in gravidanza o mentre allatto, sono un’incosciente. Se non sono florida, perché ho poca massa grassa, sono brutta. Per fortuna questa questione culturale si sta appianando. Purtroppo però ci sono ancora situazioni in cui le donne non corrono in calzoncini corti o coi pantaloni aderenti. E non parlo di religioni diverse. Io una volta sono stata fermata da una signora anziana perché correvo in calzoncini e top, in piena estate, con 40 gradi. Mi ha fermata per strada dicendomi: "Si vada a rivestire, non siamo in spiaggia. Le donne non vanno in giro così”». La crescita però resta: nel 2015 a Milano le donne erano l’11,6% dei finisher, 466 in numeri assoluti, mentre ad aprile di quest’anno sono state 1.695, il 20,4%.
Oltre al fattore di genere, Montanera guarda con una punta di invidia agonistica a quello anagrafico: «Ci sono tantissimi giovani di 18-20-25 anni. Il mondo del running, tradizionalmente, è un po' vecchio, va dai 30 ai 50 anni: prima metti su famiglia, il lavoro, ti fai una carriera, ti metti a posto e poi dopo un po’ ti guardi, scopri che hai la pancetta e ti metti a correre. Era questo l’iter, fino a ieri». I giovani «sono molto liberi, non sono etichettati. A volte corrono pure forte, perché hanno vent’anni e non quaranta come me. Io non vado piano, ma mi ammazzo di allenamenti, vado dal fisioterapista e seguo un'alimentazione rigorosa: questi bevono la birra. Mangiano la brioche prima di fare una maratona in 2 ore e 50».
Puppi, per tracciare un profilo di chi corre i trail, cita due ricerche. La prima, The State of Trail Running Report, è a cura di Tom Matlack e Mikey Yablong e si concentra sugli Stati Uniti. È basata su un sondaggio condotto su oltre 2.000 partecipanti e interviste con esperti del settore. Ne emerge una comunità di 14,8 milioni di praticanti americani, equamente divisi tra uomini (50%) e donne (49%) con una piccola percentuale di partecipanti non binari. Oltre metà di loro ha fra i 35 e i 54 anni e mediamente sono benestanti: più del 40% guadagna da 100mila dollari in su all’anno. Quelli in possesso di una laurea sono i due terzi del totale.
È un identikit sufficiente ed esaustivo? No. Puppi, insieme a Outdoor Wall e lavorando sui dati di Pietro Maistri, ha prodotto un altro progetto di ricerca, Il trail runner italiano. Nelle conclusioni, si capisce la difficoltà di etichettare il mondo di chi corre: “Potremmo dire che è un uomo sulla quarantina, probabilmente laureato e con una condizione economica soddisfacente, che vive al Nord, gode di una buona salute mentale, indossa delle Hoka, si allena quattro volte alla settimana e completa cinque o sei gare all'anno, sognando Utmb, di cui magari ha buttato un occhio qualche volta sul live stream o di cui ha intercettato un video ispirazionale sui social. Avrebbe senso? Probabilmente no. La fotografia - in fondo, di noi stessi - che risulta da questo lavoro è più complessa, variegata e interessante rispetto all'ipotetico trail runner quadratico medio che nella realtà nemmeno esiste. Avessimo davvero voluto conoscere il trail runner italiano, sarebbe bastato andare ad una delle tante gare che vengono organizzate sui nostri sentieri, sederci con qualcuno a bere una birra dopo il traguardo, e ci saremmo fatti una discreta idea”.
Ugualmente interessante, e ugualmente difficile da sintetizzare, è indagare che cosa spinga una persona a correre. O, prendendola da un altro verso, che cosa dia narrabilità a uno sport faticoso e poco divertente. Montanera ha un’idea precisa: «L'immagine del traguardo. Ognuno di noi punta su qualcosa. C’è chi punta sull'aspetto fisico, sulla motivazione, sul well-being della corsa, sulla socialità, ma secondo me quello che ci stimola è l'immagine del traguardo. Che sia una 5 chilometri non competitiva o la maratona di New York, che tu vinca o non vinca, passare sotto quel traguardo è come ricevere un attestato: posso essere riconosciuto, etichettato, come la persona che è passata sotto quel traguardo. Che tu voglia correre una maratona per raccogliere fondi, o perché hai perso una persona cara, perché vuoi raggiungere un crono particolare o per qualsiasi motivo, nel momento in cui passi lì sotto puoi tornare il giorno dopo in ufficio e dire: ‘io sono quello che è passato sotto quel traguardo. Io sono quello che ha fatto la maratona di New York, o che ha fatto la 10 km in meno di 40 minuti’. Poi io sono più emozionata quando inizio a preparare una maratona che quando passo sotto il traguardo, il viaggio è stupendo: ma non lo fai per il viaggio».
Puppi elenca più ragioni: «La gente corre per star bene. Un po’ per mettersi alla prova, mettendosi in situazioni complicate da cui cerca di uscire bene. E tanto per quel senso di attività molto legata alla natura, all’outdoor, alla montagna, fuori dagli schemi che è il trail. Questo secondo me, anche a livello comunicativo, ha un fortissimo appeal. E ha un forte appeal quella narrazione un po’ incentrata sull’eroismo, sulla lunga distanza, l’essere un po' eroi della propria storia. Non mi fa impazzire perché non ci vedo nessun tipo di eroismo dietro questa cosa. C’è gente che effettivamente arriva a fare cose impensabili, però io vedo altrove il motivo per cui uno dovrebbe correre. Così sembra quasi più per una validazione esterna che per una reale passione in quello che si fa». C’è poi l’aspetto di vedere i progressi sul campo, testimoniati dal cronometro: «la gente, afferma Puppi, corre anche per la sensazione anche di processo, di allenamento, di miglioramento. Dà soddisfazione vedere che il lavoro messo in allenamento porta dei risultati, la gente lo nota ed è appagante».
Infine c’è anche chi, dopo una carriera passata ai piani più alti, a 54 anni corre in un’altra dimensione: «Sono iscritto alla maratona di New York – racconta Baldini -. Non faccio una gara da sei anni, il mio obiettivo non è cronometrico ma di tagliare il traguardo divertendomi». Le ragioni sono diverse: «Devo essere in forma se voglio allenare atleti che cercano l’alta qualificazione e l’alta professionalità. D’altra parte mi è sempre piaciuto correre, quindi continuo a tenere questo hobby. Vedo tutto il giorno gente che corre, è chiaro che qualche volta alla settimana cerco a mia volta di praticare».
I LATI OSCURI DEL BOOM
La crescita dell’interesse attorno alla corsa comporta anche diverse criticità. I tecnici vedono molta improvvisazione: «A volte si tende a copiare troppo ciò che fanno gli atleti top. L’amatore non ha nulla a che vedere con l’atleta, sono diversi – nota Massini -. Gli amatori dovrebbero rivolgersi a professionisti seri che pensano ad allenare uno che corre per divertirsi, ha famiglia e non fa l’atleta di lavoro».
Per Baldini il problema principale è «l’improvvisazione. Da zero si passa a fare cose che non sono alla portata delle proprie potenzialità. Serve gradualità per godersela un po'».

Puppi ha la prospettiva di chi pratica uno sport che, delle sue differenze con la corsa su pista e su strada, ha fatto la propria forza anche narrativa: «Tante persone hanno paura che il trail delle origini venga snaturato, che la disciplina che loro apprezzavano non sia più quella. Ma secondo me c’è spazio per diversi approcci». Inoltre «c’è il tema dell'impatto ambientale, soprattutto a livello di produzione di materiali, di attrezzatura, di eventi. Essendo uno sport outdoor, la coscienza ambientale dei partecipanti mediamente è più alta rispetto a tante altre discipline». In ogni caso «io vedo anche tanti aspetti positivi: più gente corre, più gente si muove, più lo sport diventa popolare e per un maggior numero di atleti di alto livello è possibile fare del professionismo».
C’è poi un nodo di costi. Da un lato, se Baldini e Massini ricordano come l’attrezzatura sia mediamente meno cara rispetto a quella di altri sport e non siano obbligatorie scarpe da 300 euro, Puppi guarda al contorno: «Non basta un paio di scarpe e andar fuori, anche se te lo raccontano così. Le aziende tentano di venderti qualsiasi cosa e si creano anche necessità che non sono propriamente reali: si potrebbe andare a correre con molto meno. Il Gps non per forza serve. Ma è vero che se vuoi fare un certo tipo di attività i costi non sono banali».
L’impatto economico emerge soprattutto quando si vogliono correre le maratone. Montanera non ci gira attorno: «Stiamo assistendo a una crescita spropositata dei prezzi, non solo delle gare, ma di tutto di tutto l’indotto. È diventato improponibile per una persona normale partecipare a una grande maratona. Per correre a Londra, un impiegato deve rinunciare alle vacanze estive. Trovare il pettorale è difficilissimo. Se lo trovi si parla di 250 euro. I voli in quel periodo sono proibitivi. E gli hotel: non parlo di New York, ma di Valencia. Io quest’anno ho il pettorale gratis, ma ho guardato i prezzi adesso per dicembre e penso che rinuncerò al pettorale, perché per andare a correre spendo 800 euro». Con evidenti disparità, se non vere e proprie ingiustizie: «Chi è ricco magari non prepara nemmeno la maratona, la fa camminando ma può farla. Ma io ho gente di sessant’anni, che fa i turni in fabbrica da 40, sta andando in pensione e mi dice: non posso permettermi di andare a Berlino». Insomma, non c’è da stupirsi che in Italia i maratoneti siano rimasti quelli di dieci o vent’anni fa.
Su questo, per Montanera, si può iniziare a lavorare dai campi di allenamento: «Bisognerebbe fare un po’ di cultura sul valore della gara. È una cosa che passa anche da noi allenatori. Le maratone sono tutte lunghe 42 chilometri e 195 metri. Non è meno bello andare a Torino. Spetta agli organizzatori delle gare che non fanno parte dei grandi circuiti promuovere al meglio le loro manifestazioni e soprattutto non ragionare da provinciali». Per esempio? «Arrivata alla fine della maratona di Milano, mi hanno dato la maglietta da maschio. A Torino c’era la possibilità di avere i ristori personalizzati, li ho chiesti e me li hanno rubati sui banchetti. Poi i percorsi non chiusi al traffico: chiudiamo le città quando c'è la maratona, perché è una festa per tutti».
IL FUTURO DELLA CORSA
Insomma, il boom della corsa in questi anni, con le sue luci e le sue ombre, è assodato, anche se in forme diverse da quelle che si sarebbe portati a pensare. Le gare su strada non hanno goduto, se non in maniera marginale, di questa crescita, mentre è esploso il trail running e sono aumentati esponenzialmente gli amatori poco interessati a mettersi un pettorale sulla canotta. L’incognita è sulla crescita futura dello sport. Baldini non ha dubbi: «Il movimento in Italia c’è, ci sarà e continuerà ad aumentare». Ma, avverte, «va organizzato. Ci vuole il club, il negozio che organizza delle attività per creare socialità intorno a un fenomeno del fitness che attrae tantissime persone. Perché tutti vogliono stare bene, fare movimento ed essere in forma. E la corsa è il mezzo più facile, appetibile e di minore impatto che permette di stare bene».
Per Montanera «sicuramente è destinato a evolvere. Dipende, a mio avviso, da cosa prendiamo come fenomeno del running. Penso che ci sia un enorme potenziale in tutto ciò che è ultra, che sia la 100 chilometri del Passatore o l’ultratrail».
Margini sembrano esserci soprattutto nel trail running: «Siamo ancora in crescita – assicura Puppi -. Quanto, è difficile dirlo. Anche perché questo è uno sport che non si può fare dappertutto». Eppure, alcuni elementi fanno pensare che per ora si sia grattata solo la superficie: «È ancora uno sport molto europeo e nordamericano, molto per persone bianche e anche molto per uomini. Più si allungano le distanze più la partecipazione femminile è ridotta».
L'ASCESA DEL TRAIL RUNNING
«Intanto, il trail negli Stati Uniti è ormai un’industria. Per il già citato The State of Trail Running Report, solo negli Usa si parla di 14,8 milioni di praticanti e di un giro d’affari da 14-20 miliardi di dollari all’anno tra eventi (119-157 milioni all’anno), scarpe (2,4-4,5 miliardi), abbigliamento (4,1-4,8 miliardi), attrezzatura (4-5 miliardi), tecnologia (482-776 milioni), servizi di coaching (668-1,2 miliardi), nutrizione specifica (2,1-3,4 miliardi), abbonamenti ai media specializzati (106-186 milioni), spese di viaggio per gli eventi e per il cibo durante gli stessi.

Introiti che permettono lo sviluppo del professionismo. Rispetto al passato recente è un mondo stravolto: «C'è molta più informazione e a livello mondiale si sono creati circuiti molto affermati – nota Puppi -. Dieci anni fa le federazioni non avevano alcun controllo sullo sport: era slegato da ogni logica di tipo federale e pochissimo regolamentato. Adesso lo è molto di più, non solo grazie alle federazioni, ma anche grazie ai circuiti che cercano di imporsi, di attrarre partecipazione e interesse». Puppi ne cita quattro: Utmb World Series, quello più grosso e affermato. Poi Golden Trail Series, rivolto agli atleti più di brevi distanze, partito sette anni fa. Quindi Skyrunner World Series: gare corte, su percorsi molto più alpinistici e tecnici. E infine un circuito nuovo, World Trail Majors, che ha due distanze principali: una lunga, attorno solitamente alle 100 miglia, e da quest'anno una distanza più breve, attorno ai 50 chilometri.
Tanti eventi concorrenti comportano delle criticità: «Con le concomitanze di calendario c’è una diminuzione di quello che potrebbe essere il livello competitivo di certe gare. Non esiste un circuito in cui tutti i migliori sono sulla stessa linea di partenza, quindi si prendono più spazio quegli eventi e quegli atleti che riescono a comunicare meglio. E anche questo influenza parecchio la direzione dello sport».
Sport che ha visto l’arrivo del professionismo anche in Italia, benché in forme diverse a quelle tipiche del nostro Paese: «I gruppi militari non ci prendono in considerazione perché non siamo una disciplina olimpica e secondo me è anche un bene per il nostro sport. Così il professionismo di fatto è permesso dagli sponsor, dai brand che investono». In ogni caso quello del trail runner a tempo pieno, esclusi Puppi e pochi altri, è ancora un lavoro agli albori: «Tanti hanno un contratto, però hanno anche un lavoro. A livello mondiale, secondo me, parliamo di una cinquantina di atleti che lo fanno full time, con contratti anche buoni».
Tra i temi sul tavolo, un eventuale futuro alle Olimpiadi. Su cui Puppi, che con altri atleti ha fondato la Pro Trail Runner Association, di fatto un sindacato degli atleti, è prudente: «Dipende che cosa vuol dire. Se è un formato molto artificiale come quello dell’arrampicata, o come lo scialpinismo che andrà a Milano-Cortina e non è per niente rappresentativo della disciplina, preferisco di no. Se invece è qualcosa che veramente rappresenta lo sport che faccio, che è di interesse per gli atleti e che può portare anche a un livello superiore la disciplina, allora perché no?».