Roque Santa Cruz, o della bellezza invisibile
Dieci gol, e altrettanti insegnamenti, dell’attaccante paraguaiano che ha dato l’addio alla Nazionale.
Supernova
Quando arriva ai Rovers, Roque ha lo stesso mood di chi si lascia dopo dieci anni di una convivenza bellissima ma gradualmente svuotata di significato: l’ansia da prestazione lo divora, non si pente del tempo perso ma sente l’obbligo morale di dover dimostrare che la sua carriera poteva essere tutt’altro.
Nella sua biografia Robbie Savage descrive così l’arrivo di Roque, che lui stesso soprannomina «Gorgeous»: «Era così grosso, così forte, così veloce che faceva sembrare Chrissy Samba uno scolaretto. Non potevo credere che ce l’avessimo noi. Che acquisto, e che bel ragazzo: forse il più bel ragazzo che abbia mai visto».
Solo tre tocchi di palla separano il suo esordio dal suo primo gol: due sono colpi di testa.
Oltre a essersi preso la grande responsabilità di indossare un numero discretamente pesante dalle parti di Blackburn, il 9 che era stato sulle spalle di Shearer, Roque comincia a fare cose che non gli avevamo mai visto fare: contro il Wigan segna con questa sciabolata dal limite dopo uno stop di petto a seguire che sfida le leggi della fisica attraversando il corpo del difensore. Ci stavamo perdendo tutto questo splendore?
Nella stessa partita segnerà anche in sforbiciata e di testa, una tripletta che passerà alla storia per essere una delle poche triplette segnate in occasione di una sconfitta, ma non è questo il punto: Roque Santa Cruz, a 26 anni, diventa finalmente un centravanti di caratura europea. Sir Alex Ferguson lo segue, lui inanella capolavori di coordinazione, cavalcate trionfali, incornate maestose.
Nella classifica dei marcatori di quella Premier, nei primi dieci posti, ci sono Cristiano Ronaldo, Adebayor, Torres, Berbatov, Robbie Keane, Mwaruwari, Yakubu, Tévez e Carew. In quale schiera astrale dovremmo mettere Roque? In quella delle comete brillanti o in quella delle meteore destinate a non scavare crateri?
Il fatto che il Manchester City, il primo dell’era Abu Dhabi Group, decida di puntare su di lui e sull’Adebayor visto all’Arsenal è eloquente della risposta che istintivamente era lecito darsi in quei giorni.
Fracasos
Roque Santa Cruz, per un certo periodo, ha detenuto due record significativi.
Il primo: è stato il tesseramento più caro nella storia del Manchester City (e l’unica cosa che Noel Gallagher conoscesse del Paraguay). Sarebbero giunti altri tempi, altre cifre, altri campioni, nel capoluogo mancuniano, questo è ovvio: la straordinarietà del prezzo pagato è tutta in relazione al rendimento successivo. Al City Roque ha giocato una miseria di 20 partite in due anni, nonostante le aspettative fossero altissime, ed è tornato a sentire cos’è che si prova quando gli infortuni ti tartassano e nessun allenatore, per quanto possa essere affezionato a te tipo Mark Hughes, abbia voglia di rischiare il suo posto per insistere sulla tua redenzione.
Il secondo: è stato il calciatore più pagato della Liga Bancomer MX, più di Ronaldinho quando Ronaldinho giocava in Messico, nonostante il suo transito per il Cruz Azul sia ricordato come il più grande fallimento della sua carriera: 611 minuti totali per 2 milioni e mezzo di dollari, cioé 4mila dollari al minuto; o se preferite, 650mila dollari per gol. E questa doppietta contro il Tigres, per quanto, importante, non sembra rispettare i crismi delle celebri partita da un milione di dollari (1,3Milioni, per la precisione).
Sceicco ≠ Nababbo
In narrativa, per quanto il genere possa influenzare la trama, non si arriverà mai ad avere due romanzi che parlino esattamente della stessa cosa. Il peregrinare di Roque Santa Cruz per gli avamposti emiratini d’Europa, alla stessa maniera, per quanto abbia seguito dinamiche che partivano dagli stessi presupposti (ricerca di gloria imperitura) non è finito per avere i medesimi risultati. Forse perché a Santa Cruz la gloria imperitura interessava il giusto, meno che agli emiri.
Al Thani, emiro del Qatar, è legato a Bin Zayd (proprietario dell’Abu Dhabi Group) da un rapporto di parentela (sono cugini), ed entrambi hanno «posseduto» Roque Santa Cruz: il secondo al Manchester City, il primo in quel progetto folle ed estemporaneo che è stato il Malaga di inizio anni Dieci.
Nel Malaga del 2012 oltre a RSC c’erano Saviola, Julio Baptista, Demichelis e Isco. Forse è stata una delle squadre più divertenti nelle quali Roque abbia giocato, anche perché incarnava il contesto a lui più confacente: un club ambizioso senza essere pretenzioso, in una città in cui potesse sembrare normale girare interviste all’interno di librerie assolate.
La prima stagione andalusa di Roque è stata la seconda migliore della sua carriera: quindici gol, alcuni anche pesanti come quello contro il Porto che facilitò l’accesso dei malagueñi ai quarti di Champions League.
Santa Cruz si troverà così bene a Malaga da spingere per tornarci dopo il semestre disastroso con il Cruz Azul, tre anni più tardi. In quell’ultimo spezzone di stagione, l’ultima in Europa, l’ultima ad alto livello, dimostra di avere ancora la coordinazione, il fiuto e la pericolosità di – no, non dei vecchi tempi: di sempre.
Quando il Tata Martino, che lo ha allenato con la Nazionale, andrà a sedersi sulla panchina del Barcellona spingerà per portarlo a vestire i colori culé. Ma a Roque non deve essere sembrata una possibilità di realizzazione, non a quel punto della sua carriera: cosa altro aveva, da chiedere a se stesso? Il suo rifiuto al Barça, un misto di difficoltà e scarsa volontà di fuoriuscire per l’ennesima volta dalla comfort zone, è forse la più sincera decrittazione del mistero RSC.
Oggi, diciassette anni dopo essere emigrato in Europa, è tornato a vestire i colori dell’Olimpia: è tornato con il doppio dell’età e una tonnellata di esperienza in più, con una storia da raccontare che non somiglia a una favola, ma a un’epopea ben narrata.
Questo è il primo gol della sua ultima parentesi di vita, che Roque ha voluto – e ottenuto – somigliasse al brodo primordiale in cui tutto è iniziato.
Forse l’eccessiva arrendevolezza dei difensori avversari sminuisce lo dello stop, il destro a incrociare, e lo fa sembrare, con l’esultanza che segue, un momento da partita di addio.
Non lo so se è un bel gol: però è di Roque Santa Cruz.
Magari no, non lo è, non nel senso assoluto di bellezza: ma non chiedetelo a me, o a lui. Come volete che vi risponda, se non come il rospo di Voltaire.