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Il gol che mi ha mostrato l'eccezionalità di Ronaldo
29 apr 2020
29 apr 2020
Come il gol del Fenomeno allo Spartak Mosca ha venduto l'idea che la potenza è nulla senza controllo.
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Foto di Gary M. Prior / Allsport
(copertina) Foto di Gary M. Prior / Allsport
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Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta Mosca. Victor Trenin, esperto del Centro Meteorologico Nazionale Russo, avrebbe detto che una situazione simile «si era verificata solo tre volte in 120 anni e l’ultima era stata il 17 aprile del 1910». Il 13 aprile 1998 una tempesta di neve fuori stagione mise in ginocchio la capitale russa a poco più di 24 ore dal fischio d’inizio del ritorno della semifinale di Coppa Uefa tra Inter e Spartak Mosca. Nevicava dal giorno prima, ma fino a quell’improvvisa tormenta la situazione sembrava sotto controllo, come dimostrano le foto di un sorridente Ronaldo con in testa il colbacco dell’Armata Rossa, acquistato davanti alla cattedrale di San Basilio da tutta la squadra dopo una trattativa tra Taribo West e uno dei venditori delle tante bancarelle che vendono cimeli ai turisti nostalgici del Socialismo reale.

Giocare nel fango

Lo stadio della Dinamo, che deve ospitare la partita vista l’indisponibilità di quello dello Spartak, ne esce coperto da oltre 40 centimetri di neve. Secondo il direttore dell’impianto, il problema non è tanto il campo sparito sotto la neve, che può essere riportato alla luce dagli spalatori dell’esercito in quattro ore, ma gli spalti, con i seggiolini bloccati da pesanti lastre di ghiaccio che creano un notevole problema di ordine pubblico. È previsto un sopralluogo dell’arbitro Dallas e del delegato Uefa De Maio la mattina successiva, ma l’ipotesi più probabile è che la partita slitti di 24 o 48 ore, neve permettendo.

L’alacre organizzazione russa riesce però a risolvere la situazione nel giro di una notte, anche grazie alla clemenza del cielo, che risparmia altre tormente. Il lavoro di oltre 500 persone rende agibile gli spalti nel giro di poche ore e come preannunciato il campo, non coperto da teloni, ma riscaldato da serpentine sotterranee, viene liberato dalla neve e tamponato con la segatura. La volontà dello Spartak è quella di giocare il prima possibile, anche forse per la sensazione di essere favoriti da un campo così infame. «Il campo favorisce noi, che siamo più abituati dell'Inter a giocare in queste condizioni», dice l’allenatore Romantsev, «Forse non permetterà agli italiani, che sono più tecnici di noi, di esprimersi al meglio».

Anche per l’Inter la preoccupazione è una e una sola: come funziona per il giocatore più forte del mondo su un campo di fango e ghiaccio? «Un campione sa adattarsi alle circostanze ambientali, ma non so se ha mai giocato in terreni così brutti» risponde Simoni interrogato, «Questa pessima situazione ambientale ci impedirà di azionare nei dovuti modi il nostro Ronaldo» chiosa Bergomi. Lui cincischia, ricorda a tutti che - comunque - non ti chiamano "Il Fenomeno" per caso e questo è il 1998: «Sono in buone condizioni fisiche e morali, penso di poter segnare anche qui». Impossibilitata ad allenarsi all’esterno, l’Inter si era preparata alla partita su un campo sintetico al coperto, dove secondo le ricostruzioni dall’interno il brasiliano aveva brillato più del solito, tanto da chiedersi perché non fosse possibile disputare la semifinale lì (viene da chiedersi cosa potesse essere accaduto su quel campo alla periferia di Mosca).

L’idea che stuzzica lo Spartak è quella di portarle Ronaldo su un terreno sconosciuto, dove non possa esprimere quello che - nella primavera del 1998 - è un calcio che non gioca nessun altro al mondo. In quel momento non è solo il migliore di tutti, è un’altra cosa. Nelle settimane precedenti il suo status viene descritto bene da due pubblicità che rimarranno nella storia: nella prima è con i suoi compagni del Brasile in un aeroporto, spunta un pallone, parte una samba e il resto probabilmente lo conoscete; nella seconda lo si vede di spalle nelle vesti del Cristo Corcovado di Rio, indosso la numero 10 dell’Inter, il piede sinistro alzato a mostrare la texture di un pneumatico Pirelli, sopra la testa la scritta “La potenza è nulla senza controllo”.

Lo Spartak deve aver pensato che su un campo di fango e lacrime, potenza e controllo potevano venire meno. Un errore che pagheranno molto caro.

La partita

Questo è il momento in cui questa storia, come ogni storia, diventa personale. Tra il 1994 e il 1998 il calcio fa un grande balzo in avanti, come dimostrerà il successo planetario del Mondiale francese disputato qualche mese dopo questa partita. Arrivano i soldi delle televisioni private, la Champions League si allarga includendo anche le seconde classificate dei principali campionati, gli sponsor investono con maggiore convinzione. Sono gli anni che hanno formato la passione sportiva di una generazione che oggi ha superato i trent'anni e che mentre l’economia andava a scatafascio ha continuato a guardare partite su partite, forse perché all’epoca era molto più difficile seguire il calcio. Si potevano vedere le partite delle italiane in Europa, la Uefa sulla Rai o su TMC, la Champions sui canali Mediaset; ma il resto sono giornali spizzati nei bar d’estate, corse dalle case dei nonni per arrivare in tempo per 90esimo minuto e Domenica Sprint la sera davanti a un toast riscaldato. I campionati esteri erano una chimera.

Una partita trasmessa in televisione alle 17:30 di martedì diventava allora una specie di festa. Spartak Mosca - Inter era infatti prevista per le 19:30 locali, che grazie alle due ore di fuso orario diventava pieno pomeriggio italiano, un momento vacuo e vuoto della giornata di un undicenne che non poteva essere riempito meglio che con 90 minuti di squadra di Ronaldo contro una avversaria esotica. Io non tifavo Inter, ma ricordo che già in quel momento il brasiliano era sopra il meschino gioco delle parti, ogni sua partita in quei mesi era una anticipazione dei mix di YouTube con le migliori giocate di un campione. Credo sia questa percezione che mi ha inchiodato davanti al divano quel 14 aprile. Ho vaghi ricordi della mia capacità di seguire una partita al tempo, ma questa me la ricordo bene e i motivi sono due: Ronaldo e il campo.

Il campo

Dalle immagini della Rai Inter e Spartak non sembrano trovarsi neanche lungo la mia stessa linea temporale. Si stanno affrontando in un futuro apocalittico dove l'erba è scomparsa, sostituita da campi brulli sopra i quali al marrone scuro del fango si alternano venature ocra spento di natura radioattiva. In confronto i campi di pozzolana dove mi alleno sono un lusso. C’è una luce naturale sullo sfondo, ma giallognola e acquosa che sembra fermare il tempo. A creare un immaginario da fantascienza contribuiscono anche le linee squadrate di uno stadio sovietico, la neve sporca ai bordi del campo e le divise grigie e nere che l'Inter ha adottato per quella Coppa Uefa.

Come si muove Ronaldo in quella realtà? Indossa una fascia nera in testa per proteggere le orecchie dal freddo pungente della steppa - che si toglie dopo pochi minuti - e nei primi due minuti tocca due palloni e subisce due falli (il secondo non fischiato), poi scompare. Lo Spartak non sarà forse la squadra più tecnica tra le due, ma mentre l’Inter deve capire come si può giocare a pallone su una superficie di fango e ghiaccio, i russi più che mostrarsi abituati, sembrano giocare su un normale campo d’erba. Dominano non vincendo duelli fisici su palloni alzati a campanile come si poteva ipotizzare, ma mostrando un calcio fresco e moderno fatto di combinazioni veloci e movimenti continui, che inspiegabilmente riescono a gestire anche su un campo impossibile. Trovano il gol che ribalta il 2 a 1 dell’andata dopo appena dieci minuti e per altri dieci sembra inevitabile il secondo. Lentamente l’Inter si aggiusta dietro, lo Spartak si ricorda che è teoricamente in finale se non prende gol e il campo, calpestato da 22 persone, se possibile peggiora ulteriormente. Allora arriva Ronaldo. Nell’ultimo momento utile del primo tempo approfitta di un rimpallo favorevole del campo e segna il primo gol della sua partita, di rapina.

La panchina dell’Inter.

Ronaldo

Nel secondo tempo è l’ultimo a rientrare. Pizzul ironizza: «Da buon brasiliano Ronaldo soffre il freddo e cerca di stare nel calduccio degli spogliatoi il più a lungo possibile» dice mentre gli altri 21 lo aspettano. Abbiamo imparato ad apprezzarlo come numero 9 per eccellenza, ma nella partita contro lo Spartak Mosca, Simoni opta per un 4-4-2 in linea, con Moriero preferito a Djorkaeff e dirottato sull’esterno. Se Zamorano funge come riferimento avanzato, anche per la sua abilità nei duelli aerei, il brasiliano gioca praticamente da trequartista, come suggerisce il 10 indossato in quella stagione, con il compito di cucire la manovra, in una partita in cui qualunque abbozzo di manovra interista è più simile a uno scarabocchio di Cy Twombly che non a un affresco di Giotto. Ronaldo interpreta la sua posizione in maniera volenterosa, torna a dare una mano alla difesa, si abbassa per ricevere tra le linee, si allarga a sinistra per dare fastidio al trentasettenne terzino Gorlukovich che gioca con una calzamaglia rossa e dei guanti bianchi e si colloca all'esatto opposto di Ronaldo in un ideale spettro di come dovrebbero sembrare degli atleti professionisti.

Gorlukovich e Ronaldo.

Nel secondo tempo lo Spartak con difficoltà riprende il controllo del gioco, arrivando sempre più spesso davanti l’area dell’Inter, dove però entrare è davvero difficile, l’Inter di Simoni è una squadra che sa difendersi bene. La situazione è quasi surreale: fare due metri con il pallone tra i piedi è sempre più difficile, i russi continuano un palleggio ordinato fino al limite dell’area di rigore, ma tirare da fuori diventa un’operazione complicatissima, che richiede uno sforzo di concentrazione troppo elevato. In pochi minuti si contano almeno 5-6 tiri da fuori dello Spartak che escono fuori sbilenchi, strozzati, inutili. Pagliuca lascia i rinvii a Bergomi, più a suo agio.

Ronaldo tocca pochissimi palloni, qualche guizzo, qualche fallo subito. Dopotutto non può essere una partita di grandi prestazioni, non lo permette la geologia, ma una partita di momenti sì e, nella storia del calcio, sono in due o tre ad aver avuto momenti come quelli di Ronaldo. Il suo arriva al minuto 76 e come spesso accade con i migliori è del tutto inatteso. Su un rilancione del portiere avversario Cauet riesce a mettere il piede prima dell’avversario per guadagnare un fallo laterale poco dopo la metà campo. Fa per battere rapidamente, ma lo Spartak vuole sostituire il 17 col 14 e lo fermano. La palla allora finisce nelle mani di Sartor, che dopo essersi guardato intorno per diversi secondi serve una palla lunga verso il petto di Ronaldo che gli sta venendo incontro, ma da lontano. Ha un avversario davanti e uno dietro.

Gorlukovich, che sta dietro, fa l’errore che hanno fatto tanti in Russia prima di lui: viene avanti invece di fermarsi ad aspettare, convinto di poter anticipare il nemico, che deve ricevere un pallone lento in una zona di campo poco pericolosa. Ronaldo però non è un avversario normale: in una frazione di secondo pianta il corpo per proteggere il pallone dalla gambona del 2 dello Spartak, lo addomestica con la pancia e fa una breve e veloce piroetta per liberarsi verso destra, orientando il secondo controllo con l’esterno del piede destro. I tre successivi passi in conduzione con cui stacca l’avversario sono il classico marchio di fabbrica, quell’andatura sincopata che teneva in campo aperto, anche se qui il campo non è ne aperto ne un campo a ben vedere. Dal lato cieco arriva il secondo avversario, che non può di certo lasciare spazio a Ronaldo nel 1998, fango o non fango. Il Fenomeno che sta andando verso quella che ora è la sua sinistra, potrebbe servire l’inserimento di Simeone sulla fascia - finora il migliore dei suoi - ma in maniera del tutto controintuitiva e giusta solo perché la storia gli ha dato ragione, con l’esterno del piede destro serve invece Zamorano che se ne sta fermo vicino l’area di rigore a fare il centravanti, ovvero aspettare palloni da spizzare, spondare, ripassare.

A questo punto potremmo essere tentati di fare l’errore di guardare Zamorano, che dopotutto è quello con il pallone, ma così ci perderemmo una sfumatura di questa azione, una delle tante. Il giocatore dello Spartak che voleva fermare Ronaldo, il secondo, aveva proprio pensato di fermarlo con il corpo, una scelta istintiva e frettolosa che capita davanti ai problemi insormontabili, come lo era nel 1998 Ronaldo che caricava a testa bassa. La sua corsa sgraziata continua quindi fino a farlo scontrare fisicamente con il brasiliano che si è appena liberato del pallone. Ora io non sono esperto di fisica, e non lo ero ad undici anni, quando davanti al televisore guardavo questo momento di Ronaldo in diretta senza capire bene cosa stava accadendo, ma sono stato abituato a pensare che ad azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Però non è così: quello gli rimbalza contro e si scompone come uno sfortunato manichino da crash test lanciato in una discarica, mentre Ronaldo appena si sposta verso sinistra, trovandosi libero di correre verso l’area di rigore.

Ora potete tornare a guardare Zamorano e come lo spazio per chiudere il triangolo gli si apre solo perché il russo di prima sta ancora pattinando, combattendo la gravità che lo spinge a terra. Il passaggio è teso e preciso ed è uno di quei gesti esatti e felici che precedono momenti che rompono la realtà come la conosciamo, come il breve giro di batteria prima che la voce di Noel Gallagher attacchi i primi versi di Don't Look Back in Anger. Ronaldo resiste alla tentazione di andare incontro al pallone, lo lascia invece scorrere verso il suo piatto sinistro e con un tocco di prima se lo allunga in uno spazio che non esiste, almeno per la telecamera che da qualche imprecisato punto delle tribune sta mostrando lo spettacolo.

A vederlo così, in prima battuta, Ronaldo e il pallone sono semplicemente passati in mezzo a due avversari stretti tra loro, come i fantasmi nelle storie di fantasmi che passano attraverso i muri o come Rasputin nelle storie su Rasputin già che siamo in Russia. C’è bisogno di un quarto replay per capire che non si tratta di magia - non è mai magia su un campo da calcio - ma più semplicemente è Ronaldo che è Ronaldo, come nelle storie su Ronaldo: troppo rapido per Tikhonov e Romaschenko rimasti impantanati nel fango di una fredda giornata primaverile, il secondo che allunga una gamba, per convenzione, ma è già battuto, superato. Con un tocco Ronaldo raggiunge il cuore dell’area di rigore, cosa che non era riuscita a nessuno degli altri 20 giocatori, che ci stavano provando da settantasei minuti.

L’epilogo, il dribbling al povero Filimonov scartato alla sua destra dopo aver impercettibilmente aperto il piatto per fintare il tiro a sinistra, è solo Ronaldo che riproduce se stesso, saltare il portiere come atto finale del sua ribellione al fango e al ghiaccio, fare come fosse un campo normale, dove poter toccare il pallone quante volte ti pare senza rischi, come aveva fatto qualche giorno prima contro la Roma, quando aveva saltato Konsel per due volte, o come farà qualche settimana dopo quando a Parigi il suo dribbling su Marchegiani rimarrà impresso sulla Coppa, accanto al nome dell’Inter.

Il gol.

Ci sono alcune cose che accadono dopo e che certificano come questo gol non ha solo assicurato all’Inter la finale, ma ha cambiato il paradigma delle cose che si possono o non si possono fare su un campo come quello. La prima è il modo in cui Colonnese gli stringe la faccia tra le sue mani nell’esultanza, come se stesse infilando un metaforico dito in un metaforico costato; la seconda è lo scatto che il brasiliano fa un paio di minuti, ormai libero dall’orpello del risultato, con un successivo delizioso pallonetto in corsa che esce di centimetri, un'accelerazione che secondo me non ha nessuno neanche oggi; la terza è lo sperticato applauso che gli riservano i tifosi russi al momento della sostituzione; la quarta è forse la più indicativa: Bergomi, capitano gentiluomo, rompe la quarta parete e dal suo posto al centro della difesa si fa una corsa per andarlo a ringraziare personalmente quando viene sostituito.

Perché questo gol

Tra i gol di Ronaldo, a ben vedere, questo non si piazza neanche tra i dieci più belli. Perché allora è quello che mi è rimasto più impresso? Perché non quello al Compostela? O quello a pallonetto nel Derby di Milano? Lo stesso Ronaldo dopo la partita, pur ammettendo che il gol era stato bello, disse che «era stato più facile di quel che è sembrato», alla fine era passato con agilità in mezzo a 4-5 statue di marmo. Sappiamo che il brasiliano, soprattutto in quegli anni, era un tipo timido e schivo, più umile che star planetaria, però potrebbe aver ragione: per Ronaldo questo è stato un gol facile.

La sua grandezza mi pare allora risieda nello scarto di percezione tra chi questo gol l’ha segnato e tutti gli altri: io sul divano, lo Spartak Mosca e l’Inter in campo, i commentatori sugli spalti. La convinzione che avevamo, ovvero che un campo adatto più ai 4x4 che non agli uomini avrebbe fermato Ronaldo, mi pare, sia il più evidente segno di come la storia non può essere capita mentre viene scritta. Pur avendolo sotto gli occhi, non avevamo ancora capito che Ronaldo aveva definitivamente compiuto una rivoluzione iniziata da lui stesso il giorno che diciassettenne toccò il suolo europeo. L’idea che il miglior giocatore del mondo non fosse quello con più grazia, quello che toccava meglio il pallone, quello che poteva fermare il tempo stando immobile nel suo spazio era ancora difficile da accettare, in una realtà ormai orfana di Maradona e che cercava il suo nuovo messia tra numeri 10 accattivanti come Baggio, Stoichkov, Hagi e Zidane. Certo, Ronaldo sapeva giocare a pallone benissimo, e questo gol lo dimostra, ma la sua tecnica era un’altra cosa. Era una mandria di cavalli, come lo descrisse Valdano l’anno prima. Era una macchina che monta pneumatici Pirelli, come ci ricorda la pubblicità.

Dopo la partita l’allenatore dello Spartak disse che a brasiliani invertiti (a causa di un paio di infortuni la punta dei russi in quella partita era Robson, brasiliano giramondo dalla carriera non memorabile) non sarebbe finita così. Davanti a questa affermazione Simoni, da gran signore, rispose che: «Mi spiace se le altre squadre non hanno Ronaldo, averlo non deve diventare una colpa». Il giorno dopo Sport Express, il principale quotidiano sportivo russo titolava a caratteri cubitali “Coraggio, Spartak: potevi farcela ma purtroppo non avevi Ronaldo”. In quel tempo avere o non avere Ronaldo era ovviamente una discriminante. Anni dopo, parlando del Fenomeno disse che faceva cose che gli altri potevano fare solo a velocità ridotta e che «quel gol, su quel terreno, è stata una cosa di un valore che non si può descrivere».

Per tutta la mia generazione, tifosi o no, quell’anno di Ronaldo all’Inter rimane una forte impronta su cosa avremmo pensato del calcio dopo, ma non solo. Da qualche parte a casa di mia madre deve esserci una foto scattata durante una gita scolastica a Siena e dintorni. Ci sono io di spalle su un belvedere qualunque, le braccia larghe e dritte e il piede sinistro alzato a mostrare le suole delle mie Nike, addosso un giaccone nero troppo largo con lo sbafo della Nike. Nella foto non si vede, ma sto dicendo che la potenza è nulla senza il controllo. È uno slogan per vendere pneumatici, è vero, ma anche il calcio, come il sesso, l’arte, il potere, serve a vendere qualcosa. In quel pomeriggio di aprile Ronaldo mi ha venduto l’idea che la potenza, senza controllo, non è davvero niente.

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