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Matteo Gatto
Romario l'illusionista
27 ott 2017
27 ott 2017
Ricordo di Romário de Souza Faria, uno dei più grandi di sempre nell'ingannare le difese avversarie.
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Matteo Gatto
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L’area di rigore è uno spazio rettangolare di 665,28 metri quadri che si ripete in duplice copia su ogni campo da calcio del mondo. Non ce ne sono veramente due: il sortilegio che se ne è impadronito vuole che durante una partita se ne possa osservare solo una alla volta e questo fa dell’area di rigore, di fatto, un unico luogo.

 

Quando il pallone vi entra si porta con sé l’attenzione di chi guarda, aumenta l’energia e il volume dello stadio, perché la possibilità di un gol, da meramente teorica, diventa finalmente tangibile e con una buona immaginazione si può addirittura anticipare come il gol verrà segnato, quale improbabile ma assolutamente possibile gesto lo avvierà su un’altrettanto improbabile ma possibile traiettoria fino a varcare la linea di porta.

 

È la porta, l’origine del sortilegio. Il grande bersaglio da violare, l’ultima spiaggia da difendere. Si erge al confine estremo dell’area e la rende quel rettangolo frenetico e delicato impossibile da ignorare per chi sta fuori, mentre chi sta dentro è costretto a raggiungere la perfezione, o quantomeno ad andarci sufficientemente vicino. È difficile essere in area di rigore, è difficile essere vicini alla porta: in molti, là davanti, hanno perso la lucidità, la precisione, la fiducia. Solo alcuni eletti, nella storia del calcio, hanno saputo giocare in area rimanendo interamente se stessi.

 

Il migliore di tutti è stato Romário, perché Romário era se stesso solo là dentro.

 


Foto di Daniel Garcia / Getty Images


 

Non difendeva praticamente mai e, anche quando era la sua squadra ad avere il pallone, Romário partecipava alla costruzione pigramente e malvolentieri. “Romário è il calcio, perché il calcio è soprattutto inganno e nessuno inganna meglio di Romário”, diceva di lui Jorge Valdano. “L'estetica della pigrizia, caratteristica inconfondibile del suo creativo padrone, non è altro che una maschera, perché durante il gioco, lui è menzogna che cammina. I movimenti lenti sono la corda di un arco che si tende per scoccare una freccia inattesa, improvvisa e letale. Freccia precisa per ogni bersaglio”.

 

Lontano dalla porta, Romário fingeva. Poi, negli ultimi sedici metri, si accendeva e si svelava per il realizzatore incredibile che era. Di gol ne ha segnati più di 1000, in 25 anni di una carriera allungata certamente anche dal quel giocare solo nella parte finale del campo. Ha vinto il titolo di capocannoniere in 26 competizioni diverse, tra cui Liga, Champions League, Olimpiadi, Confederations Cup. Così tanti gol eppure tutti così diversi tra loro, e originali. Pochissimi tiri da fuori, qualche colpo di testa, relativamente pochi gol di prima. Tanti, tantissimi gol unici, sorprendenti, divertenti. Sono la cosa più bella che Romário ha lasciato al calcio.

 

Rivederli, immergercisi, è un vero piacere, ma non sono solo un grande spettacolo. A guardarli con attenzione ci si possono leggere dei tratti comuni, dei pattern, e se ne possono trarre alcune indicazioni su una delle discipline più difficili del mondo: come stare, e cosa fare, in area di rigore.

 

Personalità, prima di ogni altra cosa, e fiducia in quello che si sta facendo. Averla, trasmetterla ai compagni, imporla agli avversari. Ai tempi del PSV, quando vedeva l’allora suo allenatore Guus Hiddink preoccupato prima di una partita, Romário lo tranquillizzava dicendogli che avrebbe segnato e che avrebbero vinto. Amava alzare la pressione su di sé, lo elettrizzava, lo alimentava. “Otto volte su dieci andava proprio così”, racconta Hiddink.

 



 



Il 16 dicembre del 1992 il Brasile affronta la Germania in un’amichevole a Porto Alegre e i due attaccanti titolari sono Bebeto e Careca. Romário entra solo al 68° e dopo la partita dichiara che, se avesse saputo prima di dover fare la riserva, allora se ne sarebbe rimasto tranquillo a Eindhoven, città del PSV. Carlos Alberto Parreira, commissario tecnico della Seleçao, comunica pubblicamente che non lo convocherà più, ma il Brasile nei mesi successivi fatica nelle qualificazioni a USA ’94, finendo per giocarsi l’accesso il Mondiale in uno scivolosissimo scontro diretto contro l’Uruguay, al Maracanà. Parreira, dopo quasi dieci mesi, richiama Romário, il quale atterra a Rio de Janeiro e annuncia: “Già so quello che sta per succedere: sconfiggerò l’Uruguay”.

 

Non dice che la Celeste perderà, ma che sarà lui a sconfiggerla. Come se per i brasiliani ospitare l’Uruguay al Maracanà non fosse già una questione abbastanza seria, Romário prende una partita decisiva, lo sforzo di 11 uomini contrapposti ad altri 11, e la riduce pubblicamente a un evento dipendente da lui. Segna il primo gol schiacciando a terra un colpo di testa, sul secondo divora lo spazio tra sé e il pallone in campo aperto e vince il duello col portiere prima che il portiere sappia che il duello è iniziato, quando i due sono ancora a dieci metri di distanza. Lancia la palla e poi la segue, per un attimo sembra sorpreso anche lui dalla direzione in cui l’ha spedita, ma in un dribbling il momento in cui si sposta la palla è spesso più importante della direzione in cui la si sposta.

 



 

La leggerezza e la forza della corsa di Romário erano eccezionali. Lo chiamavano

(“bassino”), ma quel corpo tozzo e rapidissimo nel cambiare direzione sapeva andare in campo aperto come un grande predatore, con una falcata ampia ed elegante, insolita per un uomo alto 1 metro e 67. Scattare verso la porta a quella velocità, controllando il pallone, il portiere e la rincorsa degli avversari, sembrava non costargli niente. Il petto in fuori, la decisione e l’esattezza di ogni suo movimento creavano un contrasto straniante con l’affanno dei difensori che provavano a fermarlo.

 

Questa

di movimento si ritrovano praticamente in ogni sua azione. Nonostante l’evidente complessità dei suoi gol, il linguaggio del corpo di Romário non è mai quello di un uomo che sta improvvisando. Aveva la capacità di essere naturale, perfettamente compiuto, in sequenze di gesti eseguiti per la prima volta, senza averli neanche mai pensati prima. Improvvisava sulla scelta delle giocate, ma anche sul tempo di esecuzione. Il ritmo con cui toccava la palla e cambiava passo e direzione era

: chi lo marcava non sapeva dove sarebbe andato, né quando, né a quale velocità.

 

Usando le parole di Narciso, ex calciatore del Santos: “Marcare Romário era una fatica emotiva”.

 

Nel video qui sopra Romário salta un uomo soltanto giocando con il tempo. Riceve palla, si gira e aspetta che il difensore inverta la direzione di corsa e faccia il primo passo verso di lui. Esattamente in quel momento, quando tra i due ci sono ancora un paio di metri, gli va incontro accelerando e gli passa accanto. Prima la palla, poi lui. Lo scatto è solo accennato: è stato così preciso sul tempo che la velocità non gli serve neppure, e così si concede addirittura il lusso di allungare il passo per caricare il destro. Osservando solo il difensore, si vede un uomo condannato a un’inutile piroetta.

 

Controllava il tempo dell’area di rigore a tal punto da decidere anche il momento in cui segnare. Tutto, del modo in cui Romário era padrone di sé, diceva che il gol era già fatto, eppure Romário esitava, aspettava. Non per sadismo, né erano allegre zingarate

. Alcuni gol di Romário contavano più di un gol perché erano l’occasione di ribadire la legittimità del suo regime assolutista entro i confini di quella zona di campo, teoricamente la più inospitale in assoluto. Frustrava,

concedendo loro ulteriori, vane occasioni per fermarlo. In quelle situazioni non stava solo segnando un gol, stava preparando il terreno per i successivi.

 

 

Come un ospite sgradito che non riesci a cacciare di casa, Romário permaneva e comandava in area avversaria ogni volta che ne aveva occasione, manifestando in alcune circostanze la tendenza a sgomberare dagli avversari la strada verso la rete. Segnare a porta vuota sembrava essere per lui una forma di pulizia, di purezza, di arte marziale. Come togliere le foglie dal vialetto, rimuovere i calzini dal pavimento davanti al letto, completare il livello del videogioco prendendo tutti i bonus, senza perdere neanche una tacca di energia vitale. Qualcosa di non troppo lontano dall’ossessione per l’ordine, per il controllo, per l’esercizio del potere. Qualcosa di poco brasiliano, in fondo.

 



Dopo aver sconfitto l’Uruguay al Maracanà, Romário porta il Brasile a USA ’94, dove segna 5 gol, 3 nelle tre partite del girone, uno ai quarti e uno in semifinale, più il suo rigore in finale contro l’Italia. È sempre decisivo. Viene eletto miglior giocatore del Mondiale e Fifa World Player, dopo che l’anno precedente era arrivato secondo dietro Baggio.

 

In quel momento è probabilmente il miglior calciatore del mondo. Gioca nel Barcellona con Stoitchkov, Guardiola, Koeman, Michael Laudrup e in panchina Johan Cruyff, che definirà Romário “il più forte che io abbia mai allenato”.

 

Al Barça arriva dopo aver smantellato ogni difesa dell’Eredivisie durante il lustro precedente, segnando tantissimo, spesso riscaldato da una vistosa calzamaglia nera che gli dava l’aria di uno arrivato al campo per l’allenamento il giorno in cui invece c’era la partita. A Barcellona invece ha tutta un'altra aura. Si prende la maglia numero 10 del Dream Team di Cruyff e, nei suoi frequenti giorni di ispirazione, gioca un calcio fatto di lampi esilaranti. È davvero difficile pensare a qualcuno prima di lui che fondesse quel livello di rapidità ed efficienza a così tanta tecnica e fantasia.

 

Nella sua prima stagione vince la Liga

diventando Pichichi con 30 gol in 33 partite, di cui tre nel Clásico al Camp Nou. Il primo è uno di quelli che fanno urlare anche se ti stai vedendo la partita da solo in streaming. Romário riceve da Guardiola al limite dell’area, spalle alla porta, con dietro un po’ di spazio e poi Alkorta. Il piede destro entra a contatto col pallone, il sinistro resta a terra come perno sul quale Romário ruota di 180° in un solo movimento, accudendo la palla con l’interno per l’intera rotazione, senza perdere contatto, senza perdere velocità. Alkorta non riesce neanche a capire in quale direzione correre. Romário chiude con un esterno destro in controtempo di irriguardosa sufficienza.

 



 

A Barcellona era arrivato a 27 anni, dopo l’esordio a 19 al Vasco da Gama e il salto dal Brasile in Olanda a 22. Ci sarebbero state le premesse per almeno un lustro di successi in Catalogna, un dorato crepuscolo tra i cori affettuosi del tifo

e un rientro al Vasco de Gama da eroe, per tramontare confortevolmente a casa, tra spiagge e carnevali. Invece, a metà della sua seconda stagione blaugrana litiga con Cruyff e torna in Brasile. Il resto va così:

 


 



Analizzare e interpretare questa carriera sarebbe come voler trovare una logica nella traiettoria di una pallina da flipper. Non c’è una narrativa coerente nei suoi spostamenti, nei suoi impulsi. Romário era il suo lavoro, non è mai stato la sua azienda. Era un freelance, piuttosto; un creativo eccezionalmente bravo e prolifico, richiesto da un mercato globale perché in grado di lavorare bene ovunque.

 

Nella fase della maturità, il suo principale obiettivo professionale era arrivare ai 1000 gol in carriera, il suo ufficio era su ogni campo da calcio e lui sapeva esprimersi, in uno sport di squadra, a prescindere dalla qualità e dalla conoscenza che aveva dei colleghi. Bastava che lo lasciassero giocare a modo suo. Non c’era modo migliore di farlo scappare che chiedergli altro, che metterlo in discussione, allontanarlo dall’obiettivo. La storia calcistica di Romário è stata una faccenda sorprendentemente privata.

 

L’unica squadra che non poteva lasciare era la Nazionale. Dopo la vittoria della Coppa del Mondo ‘94, Romário è la stella del Brasile. Accanto a lui esplode Ronaldo e la coppia d’attacco verdeoro in quegli anni è spaventosa: la chiamano

. Nel 1997, l’anno prima del mondiale francese, segnano 34 gol complessivi e il Brasile vince la Copa América e poi la Confederations Cup (6-0 in finale contro l’Australia, tripletta di entrambi). Ma nella primavera del 1998 Romário si procura un infortunio che ne compromette la condizione fisica.

 

Il CT Zagallo lo esclude all’ultimo momento dalla lista per la Coppa del Mondo, preferendogli Emerson. Romário convoca una conferenza stampa in cui, in lacrime, esterna il suo dolore per l’esclusione, poi quell’estate apre un locale a Rio de Janeiro, il “Café do Gol”, e sulla porta del bagno fa disegnare una caricatura di Zagallo seduto sul water con i pantaloni abbassati.

 

I tornei giocati nel 1997 restano gli ultimi importanti di Romário con il Brasile. Tornerà dopo Francia ‘98, avrà anche un ruolo importante nella qualificazione della Seleção al mondiale 2002, mentre Ronaldo è fuori a combattere con i suoi infortuni.

 

Segnerà questo gol fantastico contro il Messico, a 35 anni, con una deviazione in anticipo sul primo palo, in acrobazia, col difensore addosso, superando il portiere in pallonetto.

 

In verdeoro finisce con

, tuttora al terzo posto nella classifica marcatori della nazionale brasiliana dietro Pelé e Ronaldo. Non sarà ricordato come loro, e non è tanto una questione di mero talento calcistico. Romário è sempre stato se stesso, niente di meno, niente di più. Non è mai diventato un simbolo, non è mai stato bandiera di qualcosa che non fosse lui. Anche i suoi 1000 gol non hanno avuto lo stesso sapore di quelli di Pelé. Per Romário sono stati un fine, mentre per O Rei furono una conseguenza di talento e dedizione. E se è sempre stato solamente se stesso, è perché Romário ha sempre saputo benissimo di essere Romário: “Quando sono nato, Dio mi ha indicato e ha detto: è lui”. Leonardo racconta che ogni tanto, se gli chiedevano “Come stai?”, lui rispondeva: “Ricco”. Recentemente, interrogato sul dualismo tra Messi e Cristiano Ronaldo, ha dichiarato di essere stato superiore a entrambi. Uno sbruffone, certo, ma anche un calciatore assolutamente strepitoso. Lo sapeva, si aspettava che gli altri lo sapessero e si comportassero di conseguenza, anche in campo.

 

L’ultima lezione che si può annotare dall’osservazione dei

Romário è legata proprio a questa chiara idea di sé, una sorta di evoluzione del “conosci te stesso”, la massima greca iscritta sul tempio di Apollo a Delfi: conosci ciò che rappresenti. Non solo Romário aveva un’idea molto precisa di chi lui fosse, ma era altrettanto consapevole di quale fosse la sua reputazione, che cosa fosse per gli altri e per i suoi avversari in particolare.

 

Davanti a Romário, aumentavano le esitazioni, le accortezze, le precauzioni, le sventatezze. Quando sei il più forte giocatore d’area del mondo, i portieri ti vengono ad accogliere sulla soglia.

 

E allora, se ne sei consapevole, puoi anche fare a meno di entrare.

 

 

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