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Voglio una vita come Romário in spiaggia a Rio de Janeiro
12 ago 2025
Un documentario dei primi anni '90 che dovreste recuperare.
(articolo)
10 min
(copertina)
IMAGO / ANP
(copertina) IMAGO / ANP
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Da qualche anno sui social network spopola un tipo di clip che adoro: montaggi di alcuni dei momenti più badass di vari personaggi del mondo del calcio, accompagnati in sottofondo da Many Men di 50 Cent.

Many Men è una canzone di metà anni 2000 tratta da Get rich or die tryin’, uno dei più grandi album della storia del rap, in cui Fifty parla essenzialmente di come i suoi tanti nemici vogliano ammazzarlo ma che alla fine sarà lui a fare la pelle a loro. L'intento di questi contenuti è semplice: dare un alone da gangster a figure del mondo del calcio che in qualche modo riteniamo carismatiche. Il principe di questo format, ovviamente, è José Mourinho: se spulciate tra YouTube, Instagram, X e TikTok è pieno di questi brevi video dedicati al portoghese.

Qualche tempo fa, però, mi sono imbattuto in un video che secondo me scalza qualsiasi tipo di concorrenza tra quelli con Many Men in sottofondo. E il motivo è che il protagonista non è semplicemente un’icona del mondo del calcio, ma un’icona del mondo del calcio che gangster avrebbe potuto esserlo per davvero: Romário.

Rivestite dalla grana delle vecchie VHS – un classico di questi video – assistiamo a diverse scene della vita del brasiliano in cui tutto sembra meno che un calciatore: Romário assorto a fumare un sigaro con lo sguardo di chi sta pianificando di ammazzare qualcuno, Romário che, stuzzicato, prende a calci un avversario, lo manda a terra e si mette in posizione di guardia, Romário sui gradoni a scontrarsi come fosse un ultras, Romário che a tutta velocità colpisce un avversario con un calcio volante.

Poi, però, la parte incazzosa di Romário lascia spazio a una sequenza di immagini che esprimono gioia pura. Ovviamente, sempre alla maniera di Romário, in un modo che farebbe tremare le gambe a tutti noi normali timorati di Dio: dapprima lo si vede trafficare armi con un suo amico sulla spiaggia di Rio de Janeiro, mentre con occhiali da sole e sorriso smagliante mostra un revolver alla telecamera; poi appare concentrato alla guida di un Porsche 911 Carrera rosso fiammante; al cambio di scena Romário sta sventolando i soldi che ha appena vinto grazie a una scommessa.

Sono immagini piuttosto intime, di certo insolite: perché le risse in campo non sono una novità, anche ad alti livelli, ma di momenti così espliciti e personali di atleti professionisti quasi non ne vediamo più. Persino negli Stati Uniti, di certo meno morigerati dell’Europa e dove di certo non è un problema esibire un’arma, Ja Morant è stato squalificato dalla NBA per un video in cui impugnava una pistola. Figuratevi se il più grande giocatore brasiliano dei nostri giorni – Vinícius? Raphinha? – invitasse un cameraman a riprendere il momento in cui acquista un ferro cosa succederebbe.

Quelle scene appartengono ad un meraviglioso documentario di dieci minuti, i cui autori sono gli olandesi Walter de Wit e Leo Wery – il primo dei quali aveva caricato il reperto originale sul suo canale YouTube ormai 15 anni fa. A Natale 1992 i due furono mandati a Rio de Janeiro da Barend & van Dorp, trasmissione popolare in Olanda nel corso degli anni ’90 e andata in onda fino al 2006.

Questo è l'originale caricato da de Wit. Esiste anche una versione con i sottotitoli in inglese, caricata però da un altro account, con il quale de Wit si è giustamente incazzato nei commenti.

Il loro scopo era seguire Romário passo dopo passo nel suo ambiente naturale, per provare a catturarne l’essenza, un po’ come si fa con i leoni nella savana nei documentari naturalistici. E alla fine l’effetto è proprio quello: Romário immerso nel suo ambiente naturale, in totale simbiosi con ciò che lo circonda. Sembra il re del mondo in quelle immagini.

Il documentario si apre con una veduta della spiaggia di Rio e una partita a footvolley. Romário usa il petto per mandare la palla dall’altra parte con la stessa sensibilità con cui un pallavolista usa i polpastrelli. Subito dopo una voce fuori campo gli fa una domanda: «Cosa rappresenta per te Rio?». «Tutto», è la sua risposta, che dà inizio a un dialogo in cui Romário procede a rispondere con scioltezza in olandese. In quel momento stava vivendo la sua quinta stagione con la maglia del PSV, dove si era trasferito nel 1988, dopo aver vinto due campionati carioca col Vasco da Gama.

A questo punto la telecamera stacca e passa alla scena madre del documentario, quella in cui il suo amico tira fuori la pistola e gliela porge. È tutto così perfetto in questa scena.

Non è assolutamente mia intenzione mitizzare le armi. Il fatto, però, è che mi sento di assegnare a questa sequenza di immagini lo stesso valore che attribuisco ai film di De Palma e al gangsta rap. E so che non dovrei confondere i piani, perché nel caso del cinema o del rap parliamo di arte, di una rappresentazione, mentre quella di Romário è vita vera. Ma un documentario del genere, proprio come certi film o certe canzoni, affascina perché a quelli come me, persone con una vita tranquilla, apre una finestra su un mondo che non potremmo vivere mai.

E comunque, non basta tirar fuori una pistola per offrire lo stesso effetto cinematografico. È una questione di presenza scenica, e di prontezza nella risposta. Romário, che per quasi tutto il documentario indossa degli occhiali da sole con le astine legate da una benda di gomma, se ne esce con una punchline che probabilmente è la battuta che userei se montassi il trailer sul biopic della sua vita: «Mostra questa in Olanda come prova che qua è sicuro».

Non è l’unica battuta notevole di Romário in questi dieci minuti di immersione nel suo ecosistema.

A un certo punto, ad esempio, le telecamere lo accompagnano a Vila da Penha, il quartiere in cui è cresciuto, uno dei più pericolosi di Rio de Janeiro. Romário racconta la sua infanzia, parla di come gli osservatori del Vasco da Gama lo avessero scoperto in un campetto della zona, dove poi si intrattiene in una partitella con dei ragazzi del posto. A fine partita la voce fuori campo torna a intervistarlo. Stavolta gli pone una domanda controintuitiva. Gli chiede se ci sia qualcosa dell’Olanda che per lui è meglio della sua città. Semplice, l’unica cosa che di notte Romário a Rio proprio non può fare: «Sai, mi piace tanto dormire, e per dormire l’Olanda è un Paese migliore».

Merito del clima freddo di Eindhoven, aggiunge, l’unica cosa che lo costringe a vestirsi. Perché se c’è qualcosa che abbiamo capito da questo documentario, è che per Romário c’è solo un modo di andare in giro: a petto nudo. Soprattutto se abiti in una località di mare, aggiungo io.

Ho sempre pensato che chi scende in spiaggia con la maglietta abbia qualche problema. Fa caldo, si suda, dopo c’è da fare la lavatrice. Stiamo vestiti la quasi totalità della nostra vita, che bisogno c’è di rimanere con una maglietta addosso anche in un momento di libertà. È una questione di pudore? È il nostro senso della decenza ad imporci di farlo? C'è chi, giustamente, teme il sole, ma credo che in molti lo facciano in maniera inconscia, senza nemmeno pensarci.

Romário gira a petto nudo perché evidentemente a Rio erano più intelligenti di noi ed era comune farlo, anche tra i suoi amici. Lui, però, sarebbe andato in giro senza maglietta anche in qualsiasi altro posto del mondo, troppo carismatico e troppo al di sopra di tutti gli altri per sprecarsi a indossare qualcosa. Sono contento, quindi, che anche lui avvalori la mia tesi. Anzi, c’è da dire che Romário la porta alle estreme conseguenze.

Ad un certo punto, addirittura, si presenta in concessionaria a firmare i documenti per comprare una nuova auto, a petto nudo. È una scena surreale, che rivela quanto il tempo si fermasse per Romário quando si trovava nella sua città. Una decina di giorni prima aveva comprato quella che dovrebbe essere una Ford Fiesta decapottabile come regalo di Natale per Monica, la sua compagna. Poi, però, non era passato subito a ritirarla. Il motivo? «Me n’ero dimenticato», dice sorridendo. «Tutti i giorni sulla spiaggia, a giocare footvolley… e me ne sono dimenticato».

Evidentemente è questo che succede quando non si deve rendere conto di niente a nessuno. Non esiste urgenza per Romário a casa sua. Stefano Borghi, in un podcast di qualche anno fa dedicato a “O Baixinho”, racconta che per convincerlo ad andare via dal Brasile e a portarlo nella grigia Eindhoven, il PSV avesse inserito nel suo contratto 10 aerei l’anno per tornare a Rio.

Dopo averci mostrato la cena di Natale, il documentario si chiude con un’altra scena di festa: una grigliata di Romário con i suoi amici, dove alla brace spunta anche un uomo che indossa il cappellino della McLaren, motorizzata Honda e allora guidata dall’altra grande icona brasiliana di quell’epoca, Ayrton Senna. Insomma, uno spaccato di tutto ciò che di meglio ci piace attribuire ai brasiliani.

Non è un caso che alle 2 di notte la serata prosegua con l’ennesima partita a footvolley. Stavolta la sfida per Romário non va in scena sulla spiaggia, ma in un posto semichiuso che per i colori e per la serietà con cui il protagonista e i suoi amici affrontano la disciplina, somiglia quasi ad un dojo.

Ovviamente Romário vince. E dopo l’esultanza, va a riscuotere il denaro di chi aveva scommesso contro di lui, sventolando le banconote in segno di trionfo.

Da un po' di tempo il mondo del calcio è segnato dalla discussione tra paradigma posizionale e paradigma relazionale. Da una parte la ferrea logica cartesiana che ha guidato l’evoluzione del gioco negli ultimi anni, dall’altra la corrente che le si dovrebbe contrapporre. L’urgenza di guardare al calcio da un’altra prospettiva, e non solo da quella eurocentrica, in alcuni ambiti era emersa proprio dal grido disperato dei cultori della vecchia tradizione brasiliana. Affetto da una crisi che sembra senza fine, da anni il calcio brasiliano si è convinto di doversi europeizzare per poter competere.

Chi si oppone a questa visione, coloro che inizialmente al calcio relazionale avevano dato il nome di jogo funcional, sostiene che a furia di inseguire la razionalità europea il Brasile abbia perso la sua essenza. Non è solo una questione di tattica. Il problema è a monte, ed è la formazione. Senza entrare nel merito di ciò che fanno o non fanno i bambini, è evidente come i talenti brasiliani lascino casa per trasferirsi in Europa in un’età sempre più precoce.

Romário aveva 22 anni quando è partito per l’Olanda, a formarlo e a svezzarlo tra i professionisti era stato esclusivamente il Brasile. Oggi invece? Che strada percorrono i principali talenti verdeoro? Endrick ed Estevão, che dovrebbero rappresentare il futuro, sono in Europa da quando hanno 17 anni. Quanto possono aver assorbito del calcio brasiliano se ci sono passati appena di sfuggita? Non è solo un discorso anticoloniale, ma proprio del modo in cui si sviluppa il proprio gioco.

Pensiamo a Romário e al suo cortometraggio. Uno potrebbe anche non averlo visto mai in campo, ma se è vero che si gioca come si vive, gli basterebbero questi 10 minuti per capire che tipo di calciatore fosse: estroso, ingannevole, letale, tecnicamente baciato dal Signore, capace di comunicare il suo carisma con un semplice occhiolino.

Non sarebbe mai stato lo stesso giocatore se non avesse respirato quell’aria e se non si fosse imbevuto di quella vita. E quindi, se non avesse sviluppato la stessa passione per le grigliate con gli amici, il footvolley e le notti di festa. Il suo modo di giocare ne era un’emanazione.

Siamo fortunati ad avere un filmato del genere, un affresco della versione più verace di uno dei più grandi campioni di ogni epoca. È triste pensare che in futuro, probabilmente, di reperti del genere non ne avremo più.

È paradossale nell'epoca dei social media, in cui ognuno diventa creatore di contenuti. Ma dal momento in cui i giocatori hanno iniziato a utilizzare i loro canali in maniera consapevole, nel tentativo di dare qualcosa della loro vita ai fan, in realtà se ne sono allontanati ancora di più. La loro comunicazione è diventata istituzionale, non c'è quasi mai niente di autentico in ciò che ci lasciano. Del resto, è una conseguenza della disintermediazione per la quale ad un certo punto i giornalisti non ci saranno più. A Romário non sarebbe mai venuto in mente di mostrare al pubblico delle pistole o di sventolare delle banconote. Per fortuna, però, ancora non c'era l'incombenza di avere un'immagine da comunicare e non c'era niente da dover giustificare ai propri follower. E, per fortuna, c'erano due olandesi che lo stavano riprendendo per noi.

E che con questo filmato, personalmente, mi hanno lasciato un'impressione: non esiste uomo che si sentisse più realizzato di Romário a Rio de Janeiro in quel periodo. Non credo di essere il solo a pensarlo, lo scrivono anche nella sezione commenti.

E siccome i commenti di YouTube, a differenza di quelli di tutti gli altri social network, contengono sempre la verità, mi accodo totalmente a quello dell’utente @gideonamare160: non c’è persona nella storia dell’umanità che vorrei essere più di Romário godendosi la vita sulla spiaggia di Rio di inizio anni ’90.

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