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180 minuti sono tanti
14 mar 2018
14 mar 2018
La Roma è stata paziente e si è qualificata ai quarti di finale battendo uno Shakhtar troppo conservativo.
(articolo)
11 min
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Il calcio è uno sport dai punteggi bassi: vince chi fa un gol in più dell’avversario e questo semplice fatto permette che una partita possa essere decisa anche da un singolo episodio. Una squadra può provare a controllare tutti i fattori da cui dipende una partita di calcio: può provare a controllare i ritmi, il pallone o lo spazio, ma nella fase ad eliminazione diretta la Champions League rimane il regno degli episodi. 90 minuti sembrano pochi ma sono un arco temporale che contiene un numero abbastanza grande di episodi che possono indirizzare la dinamica di una partita o addirittura il doppio confronto.

Eusebio Di Francesco ne è sembrato consapevole alla fine della partita che ha visto entrare la Roma ai quarti di finale di Champions per la quarta volta nella sua storia: «Credo che questa sera la mia squadra abbia fatto una partita attenta e applicata, magari con meno tecnica, ma essendo bravi a gestire la partita. Sapevamo che loro ci potevano concedere qualcosa e dovevamo essere pronti a sfruttarlo».

Con la gara d’andata terminata 2-1 per lo Shakhtar, la Roma poteva scegliere se puntare subito a segnare un gol oppure preferire un atteggiamento più paziente, cercando di girare a proprio favore il primo episodio disponibile. Il tecnico della Roma ha optato per la seconda opzione, puntando sulla capacità della sua squadra di sfruttare l’episodio contro un avversario preparato tatticamente e dalle buone individualità offensive, ma carente nella capacità di gestione della partita. Una strategia molto rischiosa visti i precedenti storici di questo gruppo, ma che alla fine ha pagato.

Lo Shakhtar aveva già dimostrato di poter lasciare almeno un paio di grandi occasioni agli avversari, qualunque fosse il loro piano gara. La difesa alta e lenta, e la poca reattività nelle uscite del portiere erano il punto debole trovato da Di Francesco e la verticalizzazione improvvisa la tattica per attaccare questo punto debole. E a ragione, visto che la Roma ha segnato così il gol del passaggio del turno: in una gara avara di grandi occasioni è bastato un lancio di prima di Strootman, venutosi a prendere la palla a centrocampo dai piedi di Kolarov ad inizio secondo tempo, per mettere Dzeko solo davanti al portiere. In quell’occasione l'attaccante bosniaco ha sfruttato l’episodio che la Roma stava aspettando.

La Roma non ha giocato una partita al massimo delle proprie potenzialità ma, complice il piano gara troppo speculativo degli avversari, non ha neanche corso reali pericoli, se non per un’occasione da gol nata da un errore di Fazio alla mezz’ora del primo tempo, rimediata comunque dallo stesso centrale argentino. Anche questo è importante per passare un turno in Champions League: non bisogna per forza dimostrarsi più forti nell’arco di 180 minuti, si può anche essere più bravi nel gestire i singoli episodi. La palla è stata dello Shakhtar, e il contesto di gioco è stato imposto dagli ucraini, ma non è bastato.

Praticamente uno 0-0 scritto, risolto dall’occasione creata da Strootman e trasformata in gol da Dzeko.

Il contesto imposto da Fonseca

Lo Shakhtar ha tirato un totale di 4 volte, di cui solo 1 da dentro l’area di rigore (l’occasione di Ferreyra, per l'appunto), e senza mai centrare lo specchio della porta. Neanche quando è stata spinta dalla necessità del risultato la squadra di Fonseca è riuscita ad avvicinarsi al gol. In questo c’è del merito nella prestazione della Roma, che ha difeso bene la fascia centrale del campo, ma c’è persino più demerito nella prestazione dello Shakhtar, nel suo piano gara costruito più per difendere il risultato dell’andata che per fare un gol che avrebbe complicato molto i piani dei giallorossi, mettendoli anche in una situazione difficile dal punto di vista mentale.

Fonseca invece si è voluto appoggiare molto alle conclamate difficoltà offensive della Roma e ha optato un piano gara molto prudente: congelare il più possibile il risultato attraverso il pallone, utilizzando una circolazione bassa che mandava a vuoto la pressione della Roma. Fonseca ha confermato la stessa formazione dell’andata e ha utilizzato gli stessi meccanismi di rotazione del centrocampo: Stepanenko scendeva per avere la superiorità numerica alla base della giocata, potendo poi manipolare il campo in ampiezza con i terzini molto alti. Chi ha la palla aveva, almeno in teoria, almeno due opzioni su cui poggiarsi.

Nonostante possa sembrare un’uscita del pallone ambiziosa, visto l’utilizzo del passaggio corto in ogni sua forma, la scelta nel passaggio sotto pressione era il più delle volte conservativa. Lo Shakhtar, insomma, invitava la Roma a scoprirsi, ma poi non sfruttava lo spazio che si apriva alle spalle del centrocampo avversario. Rakitskiy, che abbiamo imparato a conoscere per le sue abilità in impostazione, finiva per scaricare spesso la palla su Piyatov, molto in difficoltà a gestire il possesso. Conservare il pallone in modo così scolastico ha permesso allo Shakhtar di controllare il ritmo e di minimizzare le occasioni offensive della Roma, incapace di recuperare alta la palla, ma non ha mai veramente avvicinato squadra di Fonseca alla porta della Roma. Di fatto, sono praticamente scomparsi i lanci di Rakitskiy che tanto male avevano fatto alla Roma all’andata.

La zona dove lo Shakhtar aveva deciso di affondare era dal proprio lato sinistro. Lì agiva la catena di sinistra tutta brasiliana formata dalla salita di Ismaily oltre il centrocampo e dal movimento verso sinistra dal centro di Taison. Entrambi si avvicinano alla zona di competenza di Bernard per formare un triangolo in grado di assestarsi sulla trequarti avversaria e conservare la disposizione del pallone anche sotto pressione. Con Rakitskiy alle loro spalle e Marlos come possibilità di cambio gioco, lo Shakhtar trova lì la zona dove attaccare la Roma. Anche perché quella è la zona di competenza di Ünder e Florenzi, e i due non sono in grado di gestire una situazione di inferiorità numerica. In questo contesto giocano bene i due esterni della catena Ismaily e Bernard, non altrettanto il trequartista Taison, poco presente mentalmente. Il brasiliano, infatti, ha finito per schiacciare troppo il pallone vicino alla linea laterale togliendo spazio di gioco alla circolazione della propria squadra.

Solo quando riesce a trovare una verticalizzazione sull’esterno sinistro e sfruttare la propria catena lì, lo Shakhtar effettivamente avanza compatto oltre la propria metà campo.

Marlos in questa partita è apparso grigio non solo nei capelli. È sembrato più concentrato nel trovare la posizione dove ricevere che in cosa fare con la palla un volta ricevuta. La sua posizione nel mezzo spazio di destra lo rende sulla carta fondamentale per una squadra che vuole sovraccaricare la fascia sinistra del campo. Ma quando riceveva non riusciva mai a superare l’uomo, né ad aiutare la manovra in qualche modo, e lo Shakhtar ha avuto quindi tutto un pezzo di campo in meno su cui attaccare. C'è da dire anche che il lavoro difensivo di Perotti su Marlos è stato di alto livello, dimostrando ancora una volta come la sua predisposizione all’aggressione sul portatore possa essere incanalata anche nel difendere in avanti.

Tutto questo piano gara, fondato sul controllo e la conservazione del pallone, si ritorce contro lo Shakhtar una volta che la Roma è passata in vantaggio. Lo Shakhtar tende ad alzare la linea non solo in fase di possesso, vuole giocare compatto anche se non sa recuperare alto il pallone senza disorganizzarsi. Nel momento esatto in cui subisce gol la scelta di Fonseca si dimostra errata. A quel punto il tecnico ha provato ad alzare il baricentro togliendo Stepanenko per fare spazio ad Alan Patrick, ma è servito a poco. Lo Shakhtar ha bisogno di arrivare in area di rigore ma può farlo solo passando dalle giocate individuali di Ismaily, visto che nella fascia centrale del campo né Taison né Marlos avevano la necessaria brillantezza. Lo Shakhtar si è accampato nella metà campo della Roma, ma senza idee su come arrivare in area di rigore, e lasciando inoltre tanto campo ai giallorossi in transizione - arma che per la verità la squadra di Di Francesco ha sfruttato fin troppo poco, bisogna dire.

Come l’ha voluta vincere Di Francesco

La Roma sembra ormai cronicamente destinata a non trovare continuità offensiva attraverso il proprio gioco. La squadra di Di Francesco alterna attacchi con verticalizzazioni dal centrocampo ad altri nati da recupero alto della sfera. L’identità della Roma non è ancora pienamente decifrabile nell’arco dei 90 minuti, non è costante, varia anche inconsapevolmente rispetto ai giocatori. Di Francesco ha un'idea di calcio che non sembra riuscire ad esprimere del tutto in campo, e allora la squadra vive di tensione nervosa e grandi invenzioni dei singoli. Ad inizio stagione quelle di Dzeko e Kolarov, più di recente quelle di Alisson e Ünder. Questa mancanza di identità porta la Roma a cambiare tante volte lungo la stessa partita, navigando fra le onde del proprio equilibrio instabile. Va riconosciuta però alla squadra la capacità di rimanere concentrata come gruppo, consapevole dell’importanza della gara. Manca una struttura complessa nel sistema di Di Francesco, ma i giocatori sono comunque sembrati tutti protesi verso un unico obiettivo.

In questa gara di ritorno, Di Francesco non ha corretto più di tanto la Roma: la squadra ha continuato sul solco della gara in Ucraina, non solo nell’undici iniziale (identico), ma anche per la strategia di non voler contendere il pallone allo Shakhtar ma provare a punirne le lacune difensive. La Roma ha pressato alta solo se attivata da certi richiami evidenti (come il passaggio dei centrali al portiere), altrimenti si è assestata su una difesa posizionale con Nainggolan (in questo caso nella veste di mezzala destra invece che di trequartista), più alto rispetto ai compagni di centrocampo per fare da schermo per i passaggi di Rakitskiy a Bernard.

Nel primo tempo Nainggolan viene utilizzato anche come seconda opzione rispetto a Dzeko nella transizione offensiva, finendo per ricevere a tutti gli effetti più alto di dove parte con la corsa.

La Roma ha tenuto i propri terzini bassi e ha pressato sempre in inferiorità numerica, recuperando palla con difficoltà. Si è accontentata di difendere anche in modo passivo, disinteressandosi dei movimenti di Taison e Marlos fin quando non ricevevano palla pur di bloccare la fascia centrale del campo, recuperare lì la sfera, e ripartire in transizione offensiva. Insomma, la Roma ha giocato bene su poche idee chiare, cercando così di assorbire il contesto imposto dallo Shakhtar.

Questo atteggiamento difensivo ha permesso anche di limitare anche alcuni difetti strutturali dal punto di vista offensivo. Come ad esempio la circolazione lenta del pallone a centrocampo, dove la Roma manca di palleggiatori. Ha preferito andare in verticale quando possibile con uno dei giocatori del tridente, sfidando la linea alta dello Shakhtar.

La tattica delle verticalizzazioni è centrale nella strategia per la partita di Di Francesco, ma non va letta per forza in senso offensivo. Tentare verticalizzazioni con pochi uomini, anche rischiose, e che portano al nulla di fatto è un buon metodo per attaccare senza scoprirsi. La Roma ha quindi lanciato molto oltre la difesa dello Shakhtar, ma ha trovato spesso i propri giocatori in fuorigioco. In questo senso, Ünder, finendo per due volte in fuorigioco, non si è dimostrato abbastanza attento. Oltre alle verticalizzazioni centrali per uno fra Dzeko, Nanggolan e Ünder, i giallorossi hanno cercato spesso anche Perotti che poi andava al cross. Compreso quello del gol, sono 20 in totale i filtranti provati dalla Roma, con De Rossi che ne ha eseguiti 4, e Strootman, Kolarov e Nainggolan 3.

Sono 9 i passaggi lunghi di De Rossi di cui 7 riusciti e 1 passaggio chiave.

La Roma non ha giocato la partita dell’anno né con la palla né senza. È stata meno brillante di quanto lo era stata contro il Chelsea durante la fase a gironi. Ha giocato però una partita intelligente, senza subire grandi pericoli e sfruttando l’occasione più grande avuta a disposizione (la squadra di Di Francesco ha tirato 10 volte di cui 3 nello specchio).

Una volta segnato il gol del vantaggio i giallorossi hanno abbassato molto il proprio baricentro, cercando i massimizzare i problemi dello Shakhtar ad attaccare la fascia centrale. La Roma si è sistemata con due linee più Dzeko staccato, inserendo al 60’ Gerson a destra per uno stremato Ünder. A quel punto Perotti si è esaltato nelle conduzioni palla al piede con cui ha portato la sfera lontano dalla propria porta.

L’ennesima verticalizzazione della Roma ha poi generato l’espulsione di Ordets per fallo da ultimo uomo su Dzeko a dieci minuti dalla fine. La partita è rimasta viva fino all’ultimo solo per la stanchezza e la paura della Roma, ormai tutta rintanata in area di rigore, ma lo Shakhtar non è riuscita comunque a creare neanche una vera occasione (se non il pericolosissimo cross di Ismaily per Dentinho, a pochi secondi dalla fine).

Il passaggio del turno ha un grande valore la Roma, tanto simbolico quanto materiale. L’ambiente si scrolla in parte di dosso anni di delusioni europee e ha visto una squadra che ha potuto finalmente vivere uno scontro ad eliminazione senza tragedie. Il risultato porta poi prestigio ad un gruppo al primo anno di progetto Monchi. Anche se è molto improbabile che la Roma riesca ad alzare un trofeo, i milioni guadagnati dal percorso in coppa finora permetteranno di pensare al futuro con più serenità. Le parole di Monchi alla vigilia della partita suonano ora come una profezia: «La città e la sua squadra meritano entrambe un posto tra i migliori. La città lo ha già ottenuto, ora tocca alla squadra». Un discorso che vale anche per i quarti di finale.

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