Nella conferenza stampa pre-partita José Mourinho aveva fatto di tutto per rompere le barriere che dividevano i tifosi dalla sua squadra. Come se l’entusiasmo del tifo romanista potesse defluire come acqua in campo una volta che quelle barriere fossero andate in mille pezzi. «Spero che l’emozione possa aiutare la mia squadra», aveva dichiarato l’allenatore portoghese «70mila spettatori a vedere la partita non è nulla, ma se vogliono giocare la storia è diversa». Forse nessuna tifoseria in Italia quanto quella giallorossa discute così tanto di quanto possa influire il tifo e la città, più in generale, sulle prestazioni della squadra, eppure l’appello di Mourinho ai suoi tifosi non è sembrato strano a nessuno. Come se i tentacoli della città “piovra”, come una volta la descrisse Fabio Capello, non avessero più nessun potere. Come se non ci fosse una lunga storia di giocatori schiacciati da una pressione insostenibile nei momenti decisivi. Claudio Ranieri, l’uomo che meglio di chiunque altro tra quelli che ieri erano allo Stadio Olimpico conosce Roma e la Roma, si è guadagnato una parte del suo rispetto sostituendo Totti e De Rossi alla fine del primo tempo in un derby decisivo proprio per questa ragione. Quanto conta l’invisibile nel calcio? Quanto conta a Roma? La Roma di Mourinho è sembrata avvertire la pressione dei cori, delle urla, delle bandiere solo nei primi secondi di partita, poi, come nelle migliori partite dell’allenatore portoghese, tutto è andato secondo i piani. E i piani erano questi.
Nella prima metà del primo tempo, come sembra fare sempre più spesso negli ultimi tempi negli scontri diretti, la Roma ha alzato tantissimo il pressing, con marcature dirette sull’uomo molto aggressive. D’altra parte, l’iniziale 4-3-3 del Leicester si incastrava alla perfezione con il 3-4-1-2 della Roma, con i tre centrali (Ibañez, Mancini e Smalling) che prendevano in consegna il tridente avversario (Barnes, Lookman e Vardy), gli esterni che si alzavano sui terzini, i mediani che scalavano in avanti sulle due mezzali, Pellegrini a uomo sul vertice basso Tielemans, e infine le due punte, Abraham e Zaniolo, sui due centrali, Evans e Fofana. L’obiettivo era mettere in crisi la fragile costruzione dal basso della squadra di Brendan Rodgers e segnare il gol che avrebbe trasformato la partita nella comfort zone della Roma, che a quel punto avrebbe potuto difendersi in area e aspettare gli errori dell'avversario.
In realtà, però, ciò che ha messo più in crisi la squadra inglese è stato l’atteggiamento della Roma con la palla, e in particolare la posizione degli esterni, Zalewski e Karsdorp, che partivano quasi con i piedi sulla linea del fallo laterale. In fase di prima costruzione la squadra di Mourinho li teneva molto bassi, quasi in linea con i tre centrali, e questo costringeva i due terzini di Rodgers, Justin e Pereira, a percorrere quasi tutto il campo per poterli marcare alti. Questo non solo dava il tempo a Zalewski e a Karsdorp di ricevere e pensare la giocata, che fosse una verticalizzazione diretta verso le punte o uno scarico orizzontale verso il centrocampo, ma soprattutto lasciava soli i due centrali contro Abraham e Zaniolo, a cui da dietro si aggiungeva Lorenzo Pellegrini, ieri affilatissimo nello scegliere i momenti per attaccare la profondità inserendosi dalla seconda linea.
Un esempio. Grazie alla gran palla di Zalewski, Pellegrini arriva a tirare a pochi metri dall’area piccola (la conclusione però uscirà debole).
La difesa dell’ampiezza è stato un rebus irrisolvibile per il Leicester per tutto il primo tempo. Anche dopo la fase di prima costruzione, quando la Roma riusciva a far risalire il possesso, la squadra di Rodgers cercava di fare densità in zona palla scoprendo gli esterni, ma a quel punto gli uomini di Mourinho cercavano sistematicamente il cambio di gioco ad attaccare il lato debole. Anche l’azione che porta al doppio calcio d’angolo che innescherà il decisivo gol del vantaggio nasce da una situazione simile. All’altezza della linea del centrocampo, Zaniolo riesce a mettere giù un campanile di Rui Patricio con Justin attaccato alle spalle e un primo controllo che nessuno tra gli altri 21 giocatori in campo ha. Nel giocare con il corpo degli avversari è formidabile: il numero 22 si fa inseguire mentre rientra dentro il campo e alza la testa, e, quando vede Zalewski dall’altra parte del campo con decine di metri davanti, si coordina in un lancio profondissimo che porta l’esterno della Roma a puntare Pereira dentro la sua area.
Zalewski scaricherà indietro per il solito Pellegrini, il cui tiro verrà deviato in calcio d’angolo da Tielemans. A quel punto basterà un’altra deviazione, e un altro calcio d’angolo, per vedere avverato quel gol che tutti si aspettavano già dall’andata. La Roma è una delle squadre che segna di più in Europa su calcio piazzato, il Leicester una di quelle che subisce più gol da questo tipo di situazioni. Non è solo una questione di preparazione tattica, ma anche di qualità dei singoli. Lorenzo Pellegrini è uno dei giocatori della Serie A che, secondo i dati di Alfredo Giacobbe, crea più Expected Assist su calcio piazzato (sopra di lui solo Calhanoglu, Veretout e Malinovskiy), Tammy Abraham uno degli attaccanti che sa nascondersi meglio tra le pieghe del caos di un calcio d’angolo. Il primo mette in area una palla ipnotica, che parte altissima e lunghissima solo per cadere improvvisamente ai limiti dell’area piccola, come se qualcuno avesse sparato al pallone con uno di quei fucili a doppia canna con cui si fa il tiro al piattello. Il secondo sembra quasi sfruttare la spinta con cui Pereira in tutti i modi cerca di spostarlo da quella zona, chiudendosi a libretto come se fosse fatto di gomma elastica, e colpendo il pallone di testa con una forza tale che Schmeichel se l’è vista passare sopra la testa senza poter far niente. Come ha fatto notare Giuseppe Pastore, a 31 anni da Roma-Brondby il numero 9 della squadra giallorossa segna a uno Schmeichel (allora era Peter) mandandola in finale di una coppa europea.
È solo l’11esimo minuto del primo tempo eppure una partita è già finita. Ne inizia un’altra completamente diversa, in cui la Roma senza palla tiene i suoi esterni all’altezza dei tre centrali, pronti a difendere in area non appena il possesso avversario supera la linea del centrocampo. Nel frattempo anche Pellegrini e Zaniolo vengono gradualmente arretrati ai lati di Cristante e Sergio Oliveira, adesso sono loro che devono inizialmente uscire sui terzini avversari quando ricevono sulla trequarti. La Roma si difende con un 5-4-1 che sembra fatto d’acciaio, come se la squadra si fosse solidificata all’aumentare della pressione esterna. Il Leicester con il passare dei minuti gioca sempre più palloni, Rodgers all’inizio del secondo tempo decide di passare a un 3-5-2 che gli permette di attaccare l’ampiezza con continuità e contemporaneamente avere un uomo in più tra le linee, cioè Iheanacho, che si mette in verticale rispetto a Vardy, instancabile nel cercare di attaccare lo spazio alle spalle di Ibañez e Mancini.
La partita diventa un enorme esercizio di meditazione buddista. I suoni dello stadio piano piano si affievoliscono, i tifosi sembrano rinchiusi nelle loro teste, in cui gli incubi degli anni passati continuano a girare a una velocità incontrollabile. La tensione dell’Olimpico è squarciata solo nel momento in cui per un attimo ci si può distrarre dalla partita - quando cioè le telecamere inquadrano Claudio Ranieri, che viene accolto con un boato. Lui risponde timidamente con una mano e basta questo a trasformare il boato in un applauso che coinvolge tutto lo stadio. A quel punto alzarsi in piedi a prendersi tutto quell’amore è d’obbligo, anche se Ranieri, con il solito pudore, lo fa con un accenno di incertezza, come se non volesse distogliere l’attenzione, e poi con un po' di commozione, come se incredibilmente sentisse di non meritarselo.
È l’ultimo momento di liberazione. La paura dentro l’Olimpico è ormai fitta e pesante, e i giocatori sono lasciati soli al loro esercizio di sottrazione, in cui più che giocare a calcio devono impedire ai loro avversari di farlo, coprire lo spazio al centro della trequarti davanti alla difesa, assorbire i tagli in profondità, sbagliare il meno possibile. E in questo contesto invivibile, in cui la pressione sale ad ogni secondo che passa, che emergono per opposizione i due cardini attorno a cui gira questa ultima Roma di José Mourinho.
In difesa Chris Smalling è sempre più concentrato nella sua sfida individuale con Jamie Vardy, forse l’attaccante più furbo in Europa nel nascondersi nel lato cieco, sfuggirti alle spalle, procurarsi un rigore alla prima disattenzione. Ieri non si è mai visto, non solo perché il tempo passa anche per chi è salito alla ribalta in Premier League invecchiando come un buon vino, ma anche perché Smalling sembrava sempre una mossa avanti a lui. Che le fortune difensive della Roma si basassero sul centrale inglese si capiva già negli anni scorsi, ma in questa stagione, in cui come per miracolo è stato graziato dai suoi guai fisici, Smalling sembra entrato in un’altra dimensione. Quella in cui la sua saggezza difensiva sembra brillare di più nei momenti in cui la svagatezza incosciente dei suoi compagni difesa potrebbe fare più danni. È principalmente grazie a lui, ai suoi due intercetti e ai suoi cinque duelli aerei vinti (il 100%), se il Leicester dopo 90 minuti avrà prodotto la miseria di 0.26 Expected Goals (dati StatsBomb).
In una singola azione tutta la leggerezza di Ibañez, che sale in ritardo su Lookman aprendo uno squarcio in difesa, e tutta la concentrazione di Smalling, che lo richiude spezzando la linea di passaggio con l'esterno.
Davanti a lui, l’altro giocatore che ha alzato il livello al salire della pressione è Lorenzo Pellegrini. Spesso criticato negli anni scorsi per la sua inconsistenza, come se fosse troppo evanescente per reggere il peso di quella pesante fascia da capitano che ha preso in eredità, sarebbe potuto impazzire in una partita in cui tutte le speranze di alleggerire la pressione avversaria con il pallone passavano per i suoi piedi. E invece il capitano della Roma è sembrato quasi godersi il momento, migliorando il suo gioco mano a mano che i palloni tra i suoi piedi diminuivano. Non è solo abnegazione difensiva, o culto della sofferenza, ieri Pellegrini è semplicemente sembrato un giocatore maturo - finalmente in grado di capire quando accelerare il gioco e quando rallentarlo - ma non per questo snaturato, anzi. Dal 60esimo in poi, con il Leicester in completo controllo del possesso e sempre più sbilanciato in avanti per cercare di raggiungere il pareggio, Pellegrini ha iniziato a servire i migliori assist della sua partita. Quelle palle visionarie dalla linea di centrocampo alle spalle della linea difensiva avversaria che può tentare con ostinazione solo chi ha visto troppi video di Francesco Totti su YouTube. Prima di questa stagione questi lanci erano dissonanti rispetto al momento della partita - spesso forzati, a volte troppo lunghi o fuori luogo - solo il tentativo di un imitatore. Ieri erano la valvola di sfogo perfetta per una squadra che attacca con due, massimo tre uomini.
Nessuno più di Pellegrini ha rappresentato la lucidità tranquilla della Roma ieri sera: perfettamente in controllo pur non avendo quasi mai il possesso della palla, proprio come nei sogni proibiti di Mourinho. Più il tempo passava, e più lo spettro di perdere la prima finale europea dopo 31 anni si faceva più grande, più la Roma sembrava a suo agio, come se si stesse divertendo a difendere contro il Leicester. A fine partita, sfinito da questa resistenza placida, Jonny Evans si è arreso davanti ai microfoni: «Non riuscivamo a sfondare».
Ne Il maestro di Go Yasunari Kawabata racconta che due dei più grandi giocatori di Go del tempo, Minoru Kitani e Go Seigen, una volta consultarono un veggente nel tentativo di capire quale fosse lo stato mentale necessario per vincere: “Venne loro risposto che era necessario creare un vuoto mentale, dimenticarsi di sé mentre l’avversario meditava”. Ieri sera, mentre il Leicester si scervellava per capire come segnare, le 63mila persone dentro lo stadio, le aspettative di un’intera città, gli psicodrammi del passato hanno smesso di esistere, come se i giocatori di Mourinho si fossero dimenticati di cosa c’era in palio. Solo al triplice fischio finale l’energia raccolta negli spalti - negli stomaci contratti, nei visi corrucciati, nelle unghie smangiucchiate - ha finalmente rotto gli argini ed è entrata in campo. Era talmente tanta che persino Mourinho, che aveva già vissuto quel momento per sette volte, senza volerlo è scoppiato in lacrime.