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La Roma ha fatto di tutto per farsi eliminare
07 mar 2019
07 mar 2019
Al Porto è bastato fare la sua partita per mettere in crisi una Roma entrata in campo solo con l'idea di non prendere gol.
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Il XXV capitolo del Principe di Machiavelli è piuttosto noto per affrontare l’annoso tema del peso della fortuna nelle cose umane. Il pensatore fiorentino compara il caso a un “fiume rovinoso, che quando ei si adira, allaga i piani, rovina gli arbori e gli edifici” ma lascia comunque all’intervento umano la capacità di indirizzarlo: “Non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi possino fare provvedimenti e con ripari, e con argini, immodochè crescendo poi, o egli andrebbe per un canale, o l’impeto suo non sarebbe sì licenzioso, nè sì dannoso”.

 

È una metafora semplice che magari non è adatta a qualunque aspetto della vita ma che ben si applica a una partita di calcio, dove invece ci si tende a concentrare su episodi isolati, che presi singolarmente sembrano sempre governati da alcuni dei capricciosi.

 

Della sanguinosa eliminazione della Roma dalla Champions League, ad esempio, rimarranno diverse immagini dolorose: gli errori sotto porta di Dzeko e Perotti nei momenti decisivi della gara, l’immagine del contatto in area tra Schick e Marega a pochi secondi dalla fine dei tempi supplementari, la maglia tirata da Florenzi a Fernando, le lacrime del terzino destro della Roma a fine partita.

 

Inevitabilmente saranno questi i momenti che rimarranno nell’immaginario collettivo, quelli di cui si parlerà di più nei prossimi giorni, e subito si è puntato il dito sull’applicazione del VAR, sugli errori dei singoli giocatori e persino sugli infortuni, che anche ieri hanno costretto Di Francesco a tre cambi forzati (cioè De Rossi, Marcano e Pellegrini, che era entrato alla fine del primo tempo proprio per sostituire il capitano della Roma). In altre parole, in molti se la stanno prendendo con la sfortuna: perché se

non si fosse fatto male, e se l’arbitro avesse dato quel rigore al 121esimo, e se Dzeko avesse segnato quel gol ai supplementari, eccetera eccetera.

 

Non c’è dubbio che la Roma sia stata travolta dal fiume in piena. Alla fine le sarebbe bastato solo un altro gol oltre a quello di De Rossi per passare ai quarti di finale e sicuramente i suoi attaccanti avrebbero potuto essere più precisi o l’arbitro prendere decisione a lei più favorevoli. Ma all’allenatore, ai giocatori e agli analisti del club giallorosso non dovrebbero interessare queste variabili, su cui alla fine non possono esercitare quasi nessun potere. Il loro compito dovrebbe essere quello di costruire gli argini per rendere la piena del fiume meno pericolosa.

 

Ieri, invece, la Roma non solo ha dimostrato di essere incredibilmente impreparata per un evento simile, ma è sembrata quasi aspettarlo sulla riva, con un gusto masochistico per l’autodistruzione.

 


Per quella che è al momento la partita più importante della stagione giallorossa, Di Francesco ha optato a sorpresa per il 3-4-3, un modulo che, con varianti diverse, aveva adottato solo in due altre occasioni in questa stagione: contro il Milan fuori casa a fine agosto e contro il Genoa in casa a metà dicembre. In entrambi i casi la Roma aveva faticato molto, vittima di una passività senza palla a volte grottesca, e solo contro la squadra di Prandelli era riuscita alla fine a ribaltare il risultato, dopo essere andata sotto due volte (con il Milan invece aveva perso per 2-1).

 

La scelta dell’allenatore abruzzese, forse influenzata anche dai ricordi magici della Champions League dello scorso anno (in cui la Roma riuscì a rimontare il Barcellona passando proprio al 3-4-3), aveva unicamente uno scopo conservativo: difendersi con due linee basse e strette per invitare il Porto nella propria metà campo e provare a prenderlo di sorpresa in transizione veloce attraverso i lanci lunghi verso la testa di Dzeko e le conduzioni di Perotti e Zaniolo.

 


Il 5-4-1 iper-difensivo della Roma.


 

L’idea di Di Francesco era insomma di difendersi bassi e attaccare in campo lungo, ma aveva senso solo sulla carta. Se è vero che il Porto tende a disorganizzarsi facilmente in transizione difensiva, cercando sempre di recuperare le seconde palle scalando in avanti, è anche vero che Di Francesco aveva messo in panchina o addirittura in tribuna i suoi contropiedisti, e cioè El Shaarawy e Kluivert (oltre a Ünder, che però sta ancora recuperando da un infortunio).

 

Né Perotti né Zaniolo fanno della conduzione palla in spazi aperti il proprio punto di forza, e anche Nzonzi e De Rossi è noto che facciano fatica a coprire ampie porzioni di campo, tanto col pallone quanto senza. Lo stesso si può dire di Karsdorp e Kolarov, due terzini che preferiscono attaccare con il pallone rispetto a muoversi senza. Con quello che era a tutti gli effetti un 5-4-1, quindi, Di Francesco ha del tutto sotterrato l’identità aggressiva e spregiudicata dello scorso anno ma senza avere davvero il proverbiale piano B.

 

La Roma, innanzitutto, non aveva nessuna intenzione di ostacolare la prima costruzione del Porto, nonostante sia una squadra che vada molto in difficoltà quando viene pressata: Dzeko era preposto a schermare la linea di passaggio verso Danilo Pereira, mentre Perotti e Zaniolo dovevano bloccare quella che andava dai centrali verso i terzini. Ma la difesa dello spazio era fatta in modo del tutto passivo e statico, e così il Porto poteva sia impostare senza pressione con i centrali, o con i mediani quando scendevano ad impostare, che trovare le ricezioni delle punte e delle ali, che entravano dentro al campo per andare nei mezzi spazi.

 

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Una selezione di tutte le volte in cui la Roma con la sua passività e la sua disorganizzazione è riuscita a lasciare libero contemporaneamente il portatore di palla e il ricevitore, alle spalle del proprio centrocampo.


 

Magari su Corona, Otavio, Tiquinho e Marega sarebbero potuti salire a turno in maniera aggressiva i due interni di difesa, Manolas e Marcano, e aiutare così i due mediani che venivano presi sempre alle spalle o di lato (un altro difetto strutturale mai corretto in questa stagione). Ma l’unica idea della Roma ieri era difendere l’area, e così la linea difensiva rimaneva bassissima e piatta, ad aspettare che arrivassero gli avversari (il baricentro medio della Roma si posizionerà a 43.1 metri dalla porta, contro i 55.7 del Porto, mentre la linea del fuorigioco sarà in media ad appena 12,7 metri, cioè poco oltre il dischetto del rigore). Quello che doveva essere uno stratagemma difensivo si è così trasformato quasi in un invito agli avversari, con la Roma sempre in area a difendersi dai cross avversari.

 

Anche con la palla, la squadra di Di Francesco ha rinunciato volontariamente ai vantaggi che potenzialmente il 3-4-3 le avrebbe potuto dare. Ad esempio, l’ampiezza garantita strutturalmente dai due esterni di centrocampo (Kolarov e Karsdorp) contro una squadra che ama stringersi orizzontalmente sul campo quando si difende.

 


Karsdorp è completamente libero di ricevere sulla destra ma i compagni sono lontanissimi o stanno andando in profondità. Il terzino olandese è costretto ad inventarsi un cambio di campo in orizzontale che attraversa tutto il campo.


 

Oppure la superiorità numerica garantita dai rombi tra interno di difesa, esterno di centrocampo, mediano e ala contro il 4-4-2 di Conceiçao. Su questo ha pesato anche la scelta di Di Francesco di posizionare il suo centrale meno abile tecnicamente, Manolas, sul centro-destra, con grandi responsabilità in fase di impostazione. E proprio da un palla persa dal centrale greco è nato il gol del vantaggio del Porto.

 

Con la palla la Roma si è limitata a lanciare lungo direttamente dalla difesa per la testa di Dzeko, lasciato solo a lottare contro i mulini a vento (21 palle perse per lui, solo Perotti e Kolarov ieri hanno fatto peggio nella Roma), o a cercare le corse con il pallone di Perotti, che con i suoi dribbling per lo meno è stato l’unico che è riuscito a creare superiorità numerica sulla fascia sinistra (4 occasioni create per lui, il migliore della squadra di Di Francesco). La qualità del gioco della Roma è stato scadente, insomma, perché non aveva alcuna idea alle spalle: dopo 35 minuti di gioco i giallorossi avevano completato appena 61 passaggi con una percentuale di riuscita deprimente del 61%, una statistica che non riuscirà ad andare oltre il 69,4% a fine partita.

 

In un contesto tattico che sembra fatto apposta per mettere in difficoltà i giocatori, costretti ogni volta a decisioni difficili ed esecuzioni tecniche complesse, sia in attacco che in difesa, ha davvero senso parlare di errori individuali?

 


La rigidità e la disorganizzazione della squadra giallorossa faceva ancora più impressione di fronte alla grande fluidità del Porto, a cui bastava una salida lavolpiana di Herrera in fase di costruzione, o un taglio interno-esterno di Marega quando invece definiva l’azione per aggirare la pressione della Roma e arrivare in area avversaria.

 

La squadra di Conceição non ha grande talento, e ieri aveva anche il suo uomo migliore (Brahimi) inizialmente in panchina, eppure le sono bastate poche idee chiare per mettere in crisi l’avversario. Per esempio, quello di allargare molto le due punte, posizionate quasi sempre negli spazi tra gli interni di difesa e gli esterni di centrocampo della Roma, per allungare le distanze tra i difensori avversari.

 

La differenza di attitudine tra le due squadre era ancora più evidente senza palla. Anche la strategia del Porto infatti era quella di non scomporre la struttura posizionale senza palla, facendo densità al centro per portare il possesso avversario sui terzini e poi restringere il campo una volta che la palla fosse tornata al centro, ma la sua applicazione sul campo dimostra tutta la distanza che c’è tra teoria e pratica (ovvero, nel calcio, tra lavagna tattica e allenamento).

 

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È impressionante la quantità di volte che i centrocampisti della Roma si sono ritrovati da soli al centro della mediana, circondati da avversari e senza linee di passaggio.


 

Il Porto ha adottato un baricentro molto alto e reattivo in avanti. Gli uomini di Conceição si piazzavano nelle mezze posizioni, scattando sulla corsa della palla con un’aggressività che la Roma ha sofferto per tutti i 120 minuti.

 

Non è un caso che le migliori azioni della Roma, capitate sui piedi di Dzeko e Perotti, siano nate tra la fine del secondo tempo e i tempi supplementari, quando l’intensità e l’organizzazione del Porto sono andate scemando. È significativo anche, in questo senso, che la squadra di Di Francesco si sia riuscita a rendere pericolosa solo quando la partita tatticamente si è sfilacciata, trasformandosi in un “battere e levare” da una porta all’altra. Momenti in cui inevitabilmente il caso assume un peso sempre più significativo sul risultato finale, che comunque ha premiato la squadra che ha meritato di più, almeno nella partita di ritorno.

 


La Roma è scesa in campo con l’unico obiettivo di non prendere gol e ha chiuso i 120 minuti subendo 30 tiri complessivi, di cui 8 in porta, e 3.4 Expected Goals.


 

La Roma non può prendersela che con se stessa per aver dilapidato il vantaggio iniziale, semplicemente aspettando che gli eventi le passassero sopra, con un piano gara passivo che ha ignorato deliberatamente le caratteristiche degli avversari e quelle dei suoi stessi giocatori.

 

Di Francesco, o il suo sostituto nel caso dovesse essere esonerato nelle prossime ore, forse potrebbero fare tesoro delle parole di Machiavelli, che aveva una visione molto meno cinica del caso di molti nostri contemporanei: «La fortuna dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resistere, e quivi volta i suoi impeti, dove la sa che non sono fatti gli argini, né i ripari a tenerla».

 

 

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