Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Nell'abisso dei tre rigori sbagliati dalla Roma
03 ott 2025
Contro il Lille un momento mistico.
(articolo)
7 min
(copertina)
Elaborazione grafica su foto IMAGO / Mark Jacobs
(copertina) Elaborazione grafica su foto IMAGO / Mark Jacobs
Dark mode
(ON)

Ieri sera, verso l’ora di cena, quasi tutto il mondo rideva della Roma. Questo, per capirci, il tweet di Bleacher Report.

Il tweet dice tutto e la mia spiegazione è superflua. Però diciamolo pure, perché ripeterlo ci aiuta a renderlo un po’ più reale, la Roma ha sbagliato tre calci di rigore di fila. Dovbyk ha sbagliato, l’arbitro ha fatto ripetere, Dovbyk ha sbagliato di nuovo, e l’arbitro ha fatto ripetere di nuovo, e poi ha sbagliato anche Soulé. Tre rigori sbagliati e calciati uno peggio dell’altro, parati dal magnetismo del portiere turco Ozer.

Mentre si rideva, qualcuno - e cioè i romanisti - ha provato a utilizzare le proprie competenze scientifiche per dare un senso logico a quello che avevano appena visto. E quindi i tre rigori sbagliati di seguito. Come specie, lo facciamo dall’illuminismo in avanti: non ci accontentiamo di credere che “è stata la mano di Dio”, abbiamo bisogno di una spiegazione razionale a quello che abbiamo visto. E così qualcuno ha imbastito questo calcolo che posterò di seguito, e che circolava nelle chat dei malati di calcio ieri sera.

Secondo questo calcolo, insomma, la possibilità che una squadra sbagli tre volte lo stesso rigore ripetuto esiste una volta ogni quindici milioni di partite. Onestamente non ho le competenze per verificare l’esattezza di questo calcolo, le stime iniziali su cui si è imbastito l’intero ragionamento non sembrano solide. Ho chiesto a Chat GPT di fare questo calcolo - avendo come dati la percentuale di conversione di Soulè, quella di Dovbyk e i rigori parati in carriera da Ozer - e ha misurato un più probabile (ma comunque improbabile) 0,036%. Anche qui prenderei il calcolo con un certo scetticismo. Possiamo insomma concordare che si tratta di un caso incredibilmente raro. Qualcuno è riuscito a tirar fuori una partita in cui la Lazio riuscì a sbagliarne tre - non ripetuti - nella stessa partita contro il Napoli nel 1984.

Anche senza lanciarci in quei calcoli statistici, guardiamo due numeri più semplici. Artem Dovbyk prima di ieri sera aveva sbagliato 5 calci di rigore su 32 calciati. La probabilità matematica che ne sbagliasse due di fila era al 2,4% (qui senza contare l’errore quindi di Soulé). Berke Ozer prima di ieri aveva parato 2 rigori su 28 in carriera: quindi ieri nel giro di tre minuti ne ha parati più di quanto era riuscito a fare nella sua intera carriera.

Sono circostanze in grado di rendere i tifosi semplicemente pazzi. Come accettare il fatto che un’evenienza statistica così improbabile colpisca proprio la tua squadra. Proprio te, in quel momento. Quando cerchiamo un appiglio scientifico, ne troviamo uno così lontano e striminzito che ci sembra quasi la conferma che una logica non esiste.

E così arriviamo al problema principale, e cioè quello della sfortuna, del caso; che poi sarebbe - per estensione - il problema del male. Come interpretare la sfortuna che ci coglie? Come fare, di fronte a essa, per non sentirsi persi, soli e disgregati? In Sud e Magia Ernesto De Martino spiega come il pensiero magico, di fronte a questa crisi, cercasse di riportare il male all’interno di un ordine. Il male non viene dall’esterno, ma scorre nelle relazioni sociali tra individui. Non è un’entità metafisica, dunque. Per questo il male non si può espellere come per esempio si può credere seguendo un pensiero cattolico: il male esiste, c’è, è tra noi, e quello che gli individui possono fare è canalizzarlo, controllarlo. L’apparato rituale delle società del sud serve proprio a questo, a scacciare il male da sé o dalla propria casa: non per cancellarlo ma per darlo a qualcun altro. L’acqua con cui si esegue il rito si getta nella via, e chi la calpesta prenderà il malocchio.

Il pensiero magico delle società tradizionali non era del tutto affrancato dalla logica. Certo: si trattava di una logica interna.

Anche la cultura del tifo possiede il proprio apparato rituale che serve per controllare il male, la sfortuna, il caso. Indossiamo le stesse magliette, ci sediamo negli stessi posti, cerchiamo di circondarci delle stesse persone. I più intransigenti mangiano certe cose, vedono correlazioni tra il minutaggio e il momento in cui possono accendersi una sigaretta. Si grattano certe parti del corpo, distolgono lo sguardo dal televisore non perché non vogliono guardare ma perché pensano che quello sguardo possa avere effetti concreti su quello che sta succedendo. Esistono delle ricorrenze fra questi rituali ma ognuno ha più o meno elaborato i propri seguendo l’unica cosa che conta, l’esperienza. L’obiettivo è sempre lo stesso: ricondurre ciò che sembra inconcepibile a un orizzonte di senso.

Quando però il male arriva, forte e chiaro come ieri sera, i tifosi non possono che lasciarsi andare allo sconforto più assoluto. Alla follia.

Quando si verifica una coincidenza così rara la ragione ci sembra insufficiente a spiegare ciò che abbiamo appena visto. Ci sembra impossibile che non ci sia stato un intervento dall’alto, metafisico. La rarità statistica dell’evento ci appare così inconcepibile da sembrarci impossibile. È chiaramente un salto logico: ciò che è improbabile non è impossibile e quella statistica - una partita ogni 15 milioni di partite, facciamo il gioco di darla per buona - dimostra appunto che quella possibilità, per quanto infrequente, esiste.

Per molti il calcio è l’unico territorio in cui concedersi una sospensione della propria razionalità. Da tifosi ci si può permettere di parlare delle cose con un grado di disonestà intellettuale, illusione, irragionevolezza che non ci permetteremmo in altri campi della vita. È anche un gioco: gridiamo “devi morire” a un giocatore a terra per un infortunio e non lo grideremmo certo a uno che cade dalle scale della metropolitana.

Comunque, ai tifosi quella spiegazione statistica di probabilità non basta, perché non riesce a rispondere a quella domanda che pressava le società tradizionali: il male (la sfortuna) e l’improbabilità esiste, ok, ma perché deve colpire proprio me?

Questa è la domanda.

I tifosi, come sappiamo, tendono ad autocommiserarsi. I tifosi di quasi ogni squadra possiedono un’auto-narrazione vittimistica. Si sentono, cioè, speciali nella sfortuna. Si sentono particolarmente colpiti dal male. I tifosi della Roma non fanno eccezione e anzi: del proprio vittimismo hanno elaborato una vera e propria teologia. Il motto “mai na gioia” la sintetizza. Nell’orizzonte dei tifosi della Roma non è prevista dalla società perché qualcuno - il “mondo infame”? - ha deciso così. (È una narrazione dai chiari risvolti tossici, oltre che mesti, con cui se l’è spesso presa il più robusto dei tifosi della Roma, Daniele De Rossi). È grazie a questa narrazione che il triplice rigore sbagliato ieri è stato accolto, in fondo, con parziale soddisfazione da molti tifosi della Roma. Certo, lì per lì c’era sconforto, incredulità, rabbia, frustrazione. Dopo però queste sensazioni sono state temperate da una specie di sollievo: era una conferma del “mai na gioia”, che certe cose possono succedere - come dicono i tifosi di ogni squadra - “solo a noi”. Magari qualcuno ha provato pure sollievo: un episodio tanto insensato era tornato all’interno di una cornice di senso. Dare un senso a qualcosa ci aiuta come esseri umani: ci fa stare bene.

Il principale protagonista di questi errori, Artem Dovbyk, era una conferma del quadro generale. Un centravanti triste, erede della malinconia di Edin Dzeko. Vittime di una generale moscezza che mal si abbina col lavoro del centravanti, che invece richiede durezza e voglia di vivere. Un ragazzo alto e scolpito come un soldato d’élite, eppure così fragile, così triste. Magari triste pure per il conflitto da anni in scena nel suo Paese, mentre la sua famiglia è lì.

Foto di pochi giorni fa.

Che tipo di insegnamento trarre da un episodio simile? Negli ultimi anni la dialettica tra successo e fallimento è stata inghiottita dalla retorica motivazionale. Secondo questa idea, che certo ha una sua validità psicologica, il fallimento è solo l’anticamera del successo. Qualcuno prende in prestito una frase di Samuel Beckett per cui: “Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio”. Uno di quegli aforismi la cui origine è stata sbiadita dalla viralità, e che sicuramente qualche dirigente della Silicon Valley ha scritto sul muro del proprio ufficio-caverna. Secondo questa ideologia il fallimento è, appunto, solo un momento del processo dialettico.

Il triplice rigore sbagliato dalla Roma, invece, ci dimostra che sbagliare aiuta a sbagliare, che il fallimento può ripetersi in eterno, che quello squarcio iniziale può non ricucirsi più, che il mondo - talvolta - è davvero governato dal caos e noi possiamo solo sperare di schivarlo.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura