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Come Fonseca ha fatto di necessità virtù
01 nov 2019
01 nov 2019
Pur nelle difficoltà la Roma non ha rinunciato ai principi del tecnico portoghese.
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Quando Paulo Fonseca si è seduto sulla panchina dalla Roma, dopo una lunga esperienza tra Portogallo e Ucraina, gran parte dei tifosi e dei giornalisti italiani si è chiesta se un allenatore straniero, e con un’identità di gioco così forte, si sarebbe adattato al calcio italiano. È una questione che è riuscita fuori quasi a ogni sua intervista, e anche durante la penultima conferenza stampa pre-partita, prima di Roma-Udinese, un giornalista gli ha chiesto «se si aspettava questi valori dal campionato italiano».

La preoccupazione verso la sopravvivenza di Fonseca in Serie A era forse fondata sulla nostra storica diffidenza nei confronti di allenatori votati al possesso palla (soprattutto stranieri), che avvertiamo come naïf rispetto all’attenzione difensiva e al cinismo della stragrande maggioranza delle squadre del nostro campionato.

Una preoccupazione che, tra l’altro, è sembrata legittimata dalle prime uscite stagionali della Roma, che inizialmente è sembrata una squadra offensiva e spettacolare, ma anche estremamente fragile. La squadra di Fonseca ha segnato 12 gol nelle prime quattro partite di questa stagione, ma è sembrata vulnerabile persino nell’unica occasione in cui è riuscita a non subire gol (il 4-0 in Europa League con l’Istanbul Basaksehir).

Non era, quindi, una preoccupazione del tutto infondata e Fonseca stesso ha inizialmente preferito rinunciare a parte dei suoi principi pur di contenere i danni che avrebbero potuto fare squadre più rodate. Come quando ha abbassato moltissimo il baricentro della squadra contro la Lazio, per togliere la profondità a Immobile (con effetti non felicissimi sulla solidità della Roma, per la verità); oppure quando contro l’Atalanta ha deciso di mettersi a specchio, cercando di vincere la battaglia dei duelli individuali (finendola per perdere).

Fonseca è stato talmente attento a dimostrare di non essere l’ideologo sprovveduto che in molti si aspettavano, che dopo la partita vinta a Lecce è arrivato a dichiarare di preferire «vincere 1-0 invece che 4-3». Un cambiamento radicale rispetto a nemmeno un mese prima, quando proprio dopo il derby (che la Roma ha chiuso con 3.2 xG al passivo, senza perdere per miracolo) dichiarò: «I tifosi sono stati deliziati da questa gara con due squadre che hanno creato occasioni da gol e spettacolo».

Ma la questione dell’adattamento di Fonseca al calcio italiano, un po’ astratta in fin dei conti, ha nascosto un tema molto più reale e concreto, snobbato dall’opinione pubblica fino a quando gli infortuni subiti dalla Roma (14 dall'inizio della stagione) non hanno decimato la rosa a disposizione dell’allenatore portoghese, costringendolo a soluzioni di fortuna. E cioè: come Fonseca si sarebbe adattato ad una rosa che per molti aspetti è radicalmente diversa rispetto a quella che aveva a disposizione a Donetsk.

Dalla salida lavolpiana al terzino bloccato

Uno dei primi problemi che si è ritrovato a dover gestire Fonseca è stato come avere un’uscita del pallone dal basso pulita senza centrali di difesa e centrocampisti particolarmente abili a superare la prima linea di pressione avversaria.

Il suo Shakhtar impostava con una difesa a tre di fatto, composta dai due centrali a cui si aggiungeva, attraverso la salida lavolpiana, uno dei due mediani a turno - mentre i due terzini salivano altissimi ad attaccare l’ampiezza. In questo sistema, i due giocatori principali erano il centrale ucraino Rakitskiy, estremamente legnoso ma con una visione di gioco geniale, e il regista brasiliano Fred, che all’ottima gestione del possesso (anche spalle alla porta) univa una grande reattività sui primi passi, specie quando c’era da difendere in avanti.

Alla prima uscita stagionale contro il Genoa Fonseca ha riproposto questo stesso sistema, mettendo in campo (forse anche per dare continuità rispetto allo scorso anno) i due centrali più brillanti nel gioco con i piedi a disposizione, cioè Fazio e Juan Jesus, con Cristante che scendeva (o gli andava a fianco) nelle fasi di impostazione, formando una temporanea difesa a tre.

Una soluzione che ha mostrato fin da subiti i suoi limiti, non solo con il pallone, dove pagava soprattutto la gestione conservativa del possesso da parte di Cristante, ma soprattutto senza, con Fazio e Juan Jesus che si sono resi protagonisti di diverse sbavature ed errori non solo di reparto, nella gestione delle distanze e degli uno contro uno. Errori pagati a carissimo prezzo, in una partita in cui la Roma è riuscita a subire tre gol a fronte di 0.5 Expected Goals creati dal Genoa.

Ma sarebbe ingeneroso, e soprattutto inesatto, dare l’intera responsabilità della fragilità della Roma d’inizio stagione sulle spalle di Fazio e Juan Jesus (quest’ultimo, tra l’altro escluso definitivamente dalla formazione titolare già dalla partita successiva contro la Lazio, a favore di Mancini).

La squadra di Fonseca soffriva inizialmente anche della presenza di un centrocampista molto istintivo e verticale come Pellegrini in mediana e della spinta contemporanea dei terzini (nello screenshot sopra sono talmente alti da essere addirittura fuori dall’inquadratura), che la rendeva molto fragile in fase di transizione difensiva.

Più in generale, l’uscita del pallone dalla difesa era talmente farraginosa, gli errori in impostazione così frequenti, che l’intera architettura tattica di Fonseca diventava insostenibile da un punto di vista difensivo. Ogni errore in impostazione si trasformava in una fuga della difesa verso la porta, spesso in inferiorità numerica, con la squadra spaccata a metà.

Qui la Roma si dispone bene per bucare la pressione della Lazio, ma Fazio sbaglia una verticalizzazione banale verso Pellegrini e innesca una transizione pericolosissima.

Per ovviare a questi due problemi (le imprecisioni in fase di costruzione bassa e la fragilità in fase di transizione difensiva) l’allenatore portoghese ha quindi deciso di abbandonare la salida lavolpiana di uno dei due mediani in fase di impostazione e di “ricostruire” la difesa a tre mantenendo uno dei due terzini ancorato ai due centrali.

Con questa soluzione, Fonseca ha cercato di prendere due piccioni con una fava: da una parte inserendo un giocatore più creativo in difesa in fase di impostazione come Florenzi o Kolarov, dall’altra aggiungendo un mediano davanti ai tre difensori che facilitasse l’uscita del pallone e coprisse ulteriormente la squadra in fase di transizione difensiva.

La mossa ha avuto ripercussioni sull’intera struttura posizionale della Roma. Adesso la squadra di Fonseca in fase di possesso si disponeva in maniera asimmetrica, con i corridoi esterni occupati da un terzino (di solito quello di destra) e da un’ala (di solito Kluivert a sinistra), quelli intermedi dall’altra ala e dal trequartista, e quello centrale dal solo Dzeko. Un cambiamento che ha reso la Roma più sicura in uscita e più solida difensivamente, ma anche molto più prevedibile con il pallone.

La struttura asimmetrica della Roma, con Kolarov bloccato ai due centrali, e l’ampiezza attaccata da una parta da Kluivert e dall’altra da Spinazzola. Gli uomini offensivi della squadra sono però tutti piatti sulla stessa linea e Cristante è costretto al cambio di gioco.

La prevedibilità della Roma era dovuta a ragioni strutturali e di interpretazione del modulo da parte dei giocatori.

Strutturali, perché in questo modo la squadra di Fonseca perdeva un uomo alle spalle della prima linea di pressione avversaria, e diventava quindi più facile da schermare. Di interpretazione perché i centrali giallorossi, nonostante il doppio mediano di fronte a loro, rimanevano comunque molto stretti orizzontalmente, rendendo il lavoro di copertura del centro da parte degli avversari ancora più semplice.

Non è un caso che spesso uno dei due mediani (soprattutto Veretout) fosse costretto ad allargarsi per dare un po’ di aria all’impostazione bassa, prendendo temporaneamente il posto del terzino e riformando così una specie di difesa a quattro.

Quale trequartista?

La prevedibilità e la fragilità della Roma dipendeva anche dalla gestione del possesso nella metà campo avversaria, un’altra zona di campo dove Fonseca ha dovuto fare diversi tentativi per capire quale fosse la configurazione migliore.

L’allenatore portoghese ha cominciato mettendo in campo una trequarti composta quasi interamente da giocatori molto verticali, specialisti naturali della progressione palla al piede, con il solo Kluivert a sinistra a dare un minimo di pausa e associatività. Con Ünder e Zaniolo in campo contemporaneamente, la Roma sapeva essere estremamente spettacolare quando riusciva a superare la prima linea di pressione e andava direttamente in porta, ma anche molto imprecisa nel far risalire il pallone in maniera ordinata e nell’attaccare posizionalmente.

Fonseca chiede ai suoi trequartisti di venire dentro al campo e di scaglionarsi alle spalle della prima linea di pressione avversaria ad altezze diverse, in modo da dare alla difesa più linee di passaggio possibile e di far risalire l’azione fino alla trequarti avversaria passando per il centro, se possibile.

Allo Shakhtar, l’allenatore portoghese aveva tutti trequartisti molto tecnici (Marlos, Bernard, Taison), che facevano del controllo della palla e del dribbling in spazi stretti le loro armi principali. Con giocatori così istintivi e verticali, invece, la Roma non riusciva di fatto quasi mai a gestire il possesso in maniera pulita e per arrivare nella metà campo avversaria era costretta così ad affidarsi o allo strapotere fisico di Zaniolo in progressione o al miracoloso gioco spalle alla porta di Dzeko.

La Roma prova a superare il pressing della Lazio abbassando le ali e facendole ricevere dentro al campo. Zaniolo cerca di difendere il pallone con il corpo e di utilizzarlo per aggirare l’avversario e andare in verticale invece di andare a muro su Cristante e perde palla in maniera pericolosa.

Fonseca a dire il vero ha provato ad inserire un po’ di razionalità sulla trequarti non appena ne ha avuto la possibilità: inserendo ad esempio Mikhtaryan senza rinunciare a Kluivert (mettendo quindi Zaniolo in panchina), oppure provando a recuperare Pastore anche prima che gli infortuni del trequartista armeno e di Pellegrini non gli lasciassero altra scelta che mettere l’argentino in campo dal primo minuto anche in campionato.

La rinascita di Pastore, avvenuta nelle ultime giornate di campionato, non è solo la storia di un’invenzione fortunata, nata per caso in assenza di alternative reali, ma anche un esempio di come tecnica e tattica non possano mai essere realmente scisse, e di come quindi la forza di una squadra nasca necessariamente dal rapporto tra giocatori e allenatore.

Nel caso specifico: se è vero che Pastore è migliorato, in primo luogo fisicamente, grazie alla continuità concessagli da Fonseca, è vero anche che quest’ultimo è riuscito a correggere le sbavature in costruzione e definizione della Roma anche grazie alla tecnica nello stretto e alla visione di gioco del trequartista argentino. Pastore è molto più a suo agio di Ünder e Zaniolo ad agire da mezzala di fatto in mezzo al campo, associandosi con i compagni e sfuggendo alla pressione avversaria, e non è affatto detto che tornerà in panchina non appena torneranno tutti gli infortunati (sempre che il suo fisico non lo abbandoni di nuovo).

Il ritorno di Pastore a questi livelli, al di là di come andrà a finire, ci ricorda per l’ennesima volta quanto a contare siano i principi più che i moduli e i ruoli. Ed è ironico che anche se occupa formalmente il ruolo del trequartista Pastore stia rifiorendo agendo spesso da mezzala, cioè il ruolo che Monchi e Di Francesco avevano pensato per lui quando avevano deciso di acquistarlo dal PSG.

L’invenzione Mancini

Quasi lo stesso identico discorso è applicabile anche a Gianluca Mancini, contemporaneamente la più grande sorpresa della stagione giallorossa e la più brillante intuizione di Fonseca. Entrato nell’undici titolare per sopperire alle carenze senza palla di Juan Jesus e Fazio, Mancini è diventato davvero una notizia solo quando, a seguito degli infortuni di Diawara e Cristante, è stato messo del tutto a sorpresa in mediana a fianco di Veretout, a partire dalla partita contro il Borussia Monchengladbach in Europa League.

Una soluzione che era ovviamente impensabile senza le defezioni tra i titolari, ma che sembrava improvvisata anche nell’ambito delle “soluzioni di fortuna” (come Fazio e Kolarov, che avevano già occupato quel ruolo in passato). Eppure la mossa è immediatamente sembrata avere senso.

In quella posizione, infatti, Mancini può nascondere i suoi difetti in fase di difesa posizionale e negli uno contro uno, esaltandosi invece nelle scalate aggressive in avanti. L’ex difensore dell’Atalanta, con le sue letture in fase di pressing e riaggressione, e con la sua velocità nel lungo, ha permesso a Fonseca di non utilizzare il doppio mediano davanti alla difesa senza perdere in equilibrio difensivo e di tornare così al suo piano originario. E di Mancini va sottolineata anche l’attenta gestione del pallone, che se non è ancora ai livelli di un mediano nato e cresciuto davanti alla difesa mostra una precisione notevole anche nei cambi di gioco e nei lanci in profondità.

Mancini, in questo modo, ha riordinato l’intera struttura posizionale della Roma, che è sembrata da quel momento in poi molto più coerente con le idee del suo allenatore. Con Mancini a scendere in difesa con la salida lavolpiana, è stata quindi abbandonata la soluzione del terzino bloccato, liberando Kolarov e Spinazzola sugli esterni – adesso finalmente liberi di attaccare l’ampiezza in maniera aggressiva e contemporanea.

Allo stesso tempo, Fonseca ha chiesto a Pastore di abbassarsi ad agire da mezzala per facilitare il possesso dietro le linee di pressione avversarie, liberando Zaniolo più avanti, facendolo agire quasi da seconda punta.

E così, in fase di possesso, si è rivisto quel 3-4-3 a rombo che avevamo imparato ad apprezzare con lo Shakhtar Donetsk - anche se a Roma assomiglia di più a un 3-5-2.

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Con la salida lavolpiana di Macini, e Pastore a scendere nel corridoio intermedio di destra (anziché Zaniolo) la Roma è sempre più simile allo Shakhtar in fase di costruzione dell’azione.

L’intelligenza di Fonseca nell’utilizzare i principi di gioco per tirare fuori il meglio dai suoi giocatori ha portato la Roma a fondarsi a soluzioni sulla carta sorprendenti e controintuitive. Non solo Mancini e Pastore: se nello Shakhtar il vertice alto del centrocampo era occupato da un trequartista di ruolo (Taison), nella Roma è invece preso spesso in consegna dai movimenti incontro di Dzeko – il vero numero 10 di questa squadra.

Allo stesso tempo, se nello Shakhtar la prima punta era effettivamente un attaccante (Ferreyra), nella Roma l’uomo più avanzato sta diventando sempre di più Zaniolo, che parte dall’esterno destro per attaccare la profondità alle spalle di Dzeko.

Nel gol dell’1-0 della Roma contro l’Udinese è ancora più chiara la struttura posizionale della squadra di Fonseca e il nuovo ruolo di Zaniolo, ormai di fatto una seconda punta: in questo caso il movimento a uscire di Dzeko attira fuori posizione Becao e crea lo spazio in profondità per Zaniolo che, complice l’errore in intercetto di Troost-Ekong, firma la prima rete della partita.

Considerando quanto appena detto, non sembra accidentale il fatto che proprio da quando Mancini è stato messo a centrocampo Zaniolo abbia segnato tre gol in tre partite. Certo, le parole di Fabio Capello, che lo aveva punzecchiato invitando Esposito a non prendere la sua strada, potrebbero averlo caricato psicologicamente, ma sono soprattutto le nuove funzioni che gli ha cucito addosso Fonseca ad avergli dato più possibilità di andare in gol.

La storia di questa stagione della Roma, seppur ancora brevissima, ci ricorda che il calcio non è una scienza esatta. Ci ricorda anche che non esistono ricette preconfenzionate e che si arriva alla soluzione per tentativi, come in quasi ogni altro ambito in cui gli uomini cercano di controllare l’entropia con l’intelletto.

La fortuna dei giallorossi è di aver trovato un allenatore sufficientemente intelligente e umile da averlo capito.

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