La Roma raggiunge la sua seconda finale europea in due anni: i tifosi romanisti vivono in una bolla di felicità in cui è difficile distinguere cosa è reale e cosa non lo è. La Roma raggiunge la sua seconda finale europea in due anni, dopo che in tutti gli altri anni della sua storia ne aveva giocate solo altre due.
È difficile non pensare che il principale artefice di questo risultato storico sia Josè Mourinho, che dopo la partita si è sciolto in lacrime. È la sua sesta finale europea ma la capacità di emozionarsi è rimasta intatta. Agita i pugni o forse gli tremano, percorre stravolto i metri che lo dividono dal settore ospiti, che nel frattempo è una massa di corpi indistinti e “daje", e sciarpe alte, e pugni tesi. Mourinho arriva sotto e scuote la rete che lo divide dal settore. “Vamos” gli grida, provocando ancora di più il fracasso di cuori dei tifosi giallorossi, che esultano come si può esultare solamente dopo 98 minuti passati in viaggio nella sofferenza calcistica più pura. 98 minuti di cross nella propria area, tiri da fuori, palle che restano a metà e aprono sospiri che non si richiudono mai. Ritrovarsi a fine partita esausti, ma illesi, dopo che l’avversario ha fatto di tutto per ferirti e avere la meglio.
La Roma ha giocato la partita che tutti si aspettavano facesse: in trincea, con undici uomini a difesa del vantaggio di 1-0 ottenuto all’andata. L’ha giocata di nuovo senza due dei suoi giocatori migliori, Chris Smalling e Paulo Dybala, ormai al limite delle proprie possibilità tecniche, fisiche e tattiche. L’ha giocata provando a ridurre il calcio a una semplicità brutale: uno sport in cui si difende soltanto, dentro uno sforzo di resistenza estrema, disumana, in cui non rimane nient’altro che il rifiuto istintivo del gol.
Spesso si fa la leggerezza di parlare di questo tipo di strategia ultra-difensiva come di un trucco. Qualcosa che si decide di fare per spegnere l’interruttore della partita, bucare il pallone. Qualcosa di scorretto eticamente ma efficace; anzi: efficace perché scorretto. È la nostra cultura calcistica italiana, che forse ci fa sopravvalutare il potere delle strategie difensive, della capacità di una squadra di difendere come un corpo solo. L’esatta coordinazione, le precise sincronie, l’affilata applicazione che vengono richieste da partite simili tendiamo a darle per scontate - perché pensiamo rappresentino la nostra seconda pelle. Invece sono partite straordinarie, soprattutto se giocate - come la Roma - con poche energie fisiche, tanti infortunati e giocatori fuori ruolo. Al centro della difesa, a proteggere la zona più sensibile, un centrocampista come Bryan Cristante. Un giocatore così applicato e diligente da sembrare costruito in laboratorio da un algoritmo scritto da Mourinho stesso.
Non sono partite straordinarie solo per eroismo, per l’energia disperata e ultra-emotiva che le animano, ma anche perché richiedono disciplina, organizzazione e sforzo cognitivo. È la prima cosa che ha sottolineato Cristante dopo la partita, quando gli hanno chiesto qual è la differenza nel giocare in difesa. «Sicuramente serve più attenzione, non essendo abituato. Non sono cose che faccio di routine». Questa dimensione cerebrale è quella che si sottolinea poco, rispetto a quelle di «sacrificio e lotta» che sono le altre due parole usate da Cristante, il soldato perfetto, per descrivere le richieste di Mourinho e la prestazione della Roma, entrata in un trip allucinatorio di un calcio in cui non si attacca affatto, ma subire gol è impossibile. Un calcio in cui non è vero che si difende bene solo se si attacca bene, un calcio primitivo, in cui niente è legato. La negazione di quasi tutti i principi contemporanei.
Di solito le partite chiuse senza subire gol, anche quelle più strenuamente difensive, prevedono comunque una fase offensiva. Persino nelle partite più dure e sofferte della Roma quest’anno, la squadra di Mourinho ogni tanto si concedeva di alleggerire la pressione con qualche ripartenza, qualche sfuriata, qualche tiro. Ieri l’unico tiro dalla Roma si è consumato praticamente alla prima azione, una sponda di Abraham per Pellegrini. Un tiro da fuori chiuso al lato. Il Leverkusen ha invece prodotto 23 tiri, 6 in porta. Tutti da fuori area, e raramente pericolosi. L’unica grandissima occasione per il Bayer Leverkusen è arrivata con un tiro di Azmoun a dieci minuti dalla fine. Dopo quell’azione Matic lo è andato a rincuorare come se già sapesse che sarebbe stata l’ultima possibilità per il Bayer Leverkusen. Ogni minuto che passava era più forte la sensazione che i tedeschi non sarebbero mai riusciti a bucare la fortezza eretta dalla Roma. Le statistiche, però, rimangono impressionanti, anche oltre i tiri. 72% di possesso palla, il triplo dei passaggi completati. La Roma ha creato 0,03 xG, contro l’1 xG del Leverkusen. 8 tiri in area a zero. Se guardiamo le posizioni medie dei giocatori, quelli della Roma sono accatastati verso la propria porta come dentro una scatoletta di tonno.
Rispetto all’andata il Leverkusen ha aggiunto un playmaker dal piede raffinato come Demirbay e una punta che dava profondità come Azmoun. Entrambi hanno assicurato controllo e pericolosità alla squadra di Xabi Alonso, sublimata anche da una prestazione ispirata di Wirtz. Il Bayer Leverkusen ha offerto una prestazione dominante e però più dominava più sembrava non potercela fare. Come davvero in un’allucinazione, il Leverkusen ha fatto tutto giusto per vincere, e non ha vinto. Dopo la partita Amiri ha in effetti parlato come se si fosse ritrovato in un incubo. «Sono senza parole per come siamo stati eliminati nelle due partite. Eravamo superiori, non aver segnato un gol è una cosa amara». A volte certe partite si vincono anche per la semplice accumulazione, di pressione e occasioni. Ma ieri non è successo.
La partita di ieri è stata estrema e peculiare anche per chi è abituato alla Roma di Mourinho. Non si era mai visto un tale estremismo - una specie di fervore religioso. Un’esperienza estetica modificata. Nel gioco senza attacco i giocatori in campo e i tifosi non esultano per un gol ma per un fallo guadagnato, un contrasto riuscito, una palla sputata verso la rimessa laterale per guadagnare metri. L’unica altra valvola di sfogo erano le giocate sontuose di Nemanja Matic, che resisteva alla pressione con finte, protezioni e colpi di tacco paurosamente sereni. Un uomo che si metterebbe a leggere Terzani dentro una casa in fiamme.
Negli ultimi minuti la Roma non tirava la palla verso i compagni ma verso angoli di campo sempre più astrusi, dove si poteva respirare per qualche secondo, e sporcare ancora l’azione grazie alle rimesse laterali. Creare il proprio contesto, quello di una battaglia medievale fatta nel fango indossando armature da novanta chili. «Se siamo al 100% mentale segnarci è difficile» ha detto Gianluca Mancini, che ha aggiunto: «Il Bayer Leverkusen doveva recuperare e aveva anche la spinta del pubblico, quindi ci siamo abbassati, ma non abbiamo timore di farlo perché è anche la nostra forza. Siamo partiti con l’idea di essere sullo 0-0, ma quando passano i minuti il traguardo si avvicina. Abbiamo portato a casa questo risultato con le unghie e con i denti».
La lotta ha portato altra sofferenza fisica, altri infortuni: Celik e Spinazzola, i due esterni, sono dovuti uscire per problemi muscolari. La Roma ha chiuso con due giocatori della primavera in quei ruoli, Zalewski, che l’ha imparato a fare l’anno scorso, e Bove, che ci giocava ieri per la prima volta in carriera. Quando è entrato Smalling, però, a pochi minuti dalla fine, ha cominciato a primeggiare sui cross sempre più sconclusionati dei giocatori del Leverkusen. Secondo Mourinho queste partite si vincono con i dettagli, e Smalling è stato un altro dettaglio vincente. «Senza Smalling negli ultimi minuti magari non vincevamo questa partita».
La Roma è la terza finalista italiana in queste coppe europee. Se Fiorentina e Inter ci sono però arrivate sfruttando uno stato di forma in costante crescita, la Roma invece ce l’ha fatta nonostante il proprio stato di forma, nonostante le energie fossero ormai corrose. Nessuno sa “nascondere i problemi” meglio della Roma, per usare un’espressione di Mourinho di ieri sera, dopo la partita in cui forse la squadra ha espresso il carattere più puro che il suo allenatore ha forgiato in questi due anni. Il carattere, e la conoscenza, a cui ha dovuto attingere nel suo sforzo più estremo. Questo intendeva forse Mourinho quando ha definito la partita come «un accumulo di lavoro, di esperienza, di saggezza tattica».
Dopo la partita Mourinho ha chiesto ancora il supporto dei tifosi, nel match di Serie A di lunedì. Ha chiesto ancora calore, ancora tifo, ancora passione, come se non ci fosse davvero un limite. Non c'è da pregare nessuno, per questo. «Tutti a Budapest» cantavano nel settore ospiti alla fine della partita. La processione dei tifosi giallorossi è ripartita per un’altra notte di passione.