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Foto di Julian Finney / Getty
Sport Fabio Severo 8 giugno 2017 5'

Roland Garros, il vuoto di Djokovic

La sconfitta con Thiem è il punto più basso di un periodo di crisi che dura ormai da troppo tempo.

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La gravità dell’accaduto la rende bene il titolo di un editoriale pubblicato da Tennis Magazine subito dopo la fine dell’incontro: “Dopo la netta sconfitta di Djokovic contro Thiem, un riconoscimento e un necrologio”. Il riconoscimento è per gli anni 2011-2016 di Novak Djokovic, ricchi di vittorie come è accaduto per pochissimi giocatori nella storia, mentre il necrologio di tale età dell’oro sarebbe stato decretato dalla sconfitta ai quarti di finale del Roland Garros contro Dominic Thiem in tre set (7-6, 6-3, 6-0). La fretta di uscire con la notizia ha certamente contribuito all’esagerata nota funebre, ma di certo è una sconfitta grave. Un anno fa Djokovic vinceva a Parigi il quarto Slam consecutivo, l’unico giocatore a essersi avvicinato a ripetere l’impresa dei quattro major vinti nello stesso anno dopo Rod Laver nel 1962 e nel 1969 (con l’unica differenza che i quattro di Djokovic non sono stati vinti nell’anno solare, ma tra metà 2015 e metà 2016). Un anno dopo Djokovic non ne detiene più nessuno, e soprattutto è uscito da Parigi giocando un ultimo set in cui si è lasciato sconfiggere come se non fosse più in campo da prima della fine dell’incontro.

 

 

 

Numeri che rendono l’idea dell’evento: Djokovic non perdeva tre set a zero al meglio dei cinque set dalla finale di Wimbledon del 2013, e non perdeva un set per 6-0 in uno Slam da dodici anni; perdendo i punti del titolo dell’anno scorso scenderà dalle prime due posizioni mondiali per la prima volta dal marzo 2011, e alla fine del torneo potrebbe anche finire quarto, posizione che non occupa addirittura da otto anni. Prima di oggi aveva perso 6-0 l’ultimo set di un incontro soltanto una volta, nell’ottobre 2011 contro Kei Nishikori, e l’aveva perso in modo simile a oggi, buttando via punti e sbagliando quasi come se lo stesse facendo apposta. Ma quella sconfitta di quasi sei anni fa veniva dopo una stagione in cui Djokovic aveva perso soltanto tre partite in 10 mesi, di cui due per infortunio. Questa arriva da mesi di crisi di gioco manifesta, con allenatori licenziati, sponsor cambiati, un nuovo allenatore ingaggiato, una fase confusa dove Djokovic ha cercato di ritrovare competitività cambiando tutto quello che poteva.

 

Il suo nuovo coach è Andre Agassi, che in pochi giorni è diventato il centro dell’attenzione a scapito dello stesso giocatore: tutti vogliono capire come lavoreranno, quanto a lungo e quanto spesso, e perché; Agassi doveva essere a Parigi a prescindere da Djokovic per impegni presi con sponsor, e nei ritagli ha infilato una settimana di lavoro sul campo, dopo la quale se n’è andato per altri impegni già fissati. Non significa necessariamente qualcosa, ma forse non aiuta questa formula di collaborazione dove l’allenatore non potrà mai essere full time e non è chiaro quanto potrà seguire il giocatore; forse non aiuta neanche che l’allenatore sia una personalità ingombrante come Agassi, che parla del suo nuovo lavoro piuttosto liberamente, prima dichiarando che lo fa quando e come può e che non vuole essere pagato, poi rilasciando interviste in cui dice che i problemi di Djokovic non sono fisici, ma solo mentali. Come se fare pubblicità alle difficoltà psicologiche del tuo protetto aiuti la concentrazione durante un torneo come Parigi.

 

«Non ho mai visto un corpo come il suo», premette Agassi per dire che non è la dimensione atletica in questione. Poi affronta il punto dolente: «(Novak) non aveva mai avuto trent’anni prima di oggi, ha bisogno di ispirazione, di input e di lavoro», enuncia suadentemente seduto davanti a un paretone di loghi Longines. «È possibile fare le cose in un altro modo, pensare allo sport in modo diverso, pensare in modo diverso all’equilibrio che cerchi nella tua vita. Si tratta di trovare nuove soluzioni a quei problemi che abbiamo tutti, cercare di essere al meglio che possiamo ogni giorno della nostra vita, a prescindere dalle circostanze in cui ci troviamo. E su questo spero di poterlo aiutare». Agassi parla sempre di vita e non di sport quando illustra i punti chiave del suo incontro con Djokovic, corroborato anche da cose dette dal giocatore durante questa settimana. L’accento è stato messo da entrambi sull’elemento spirituale del lavoro, cosa che rende ancora più traumatico il fatto che Djokovic sia stato sconfitto così platealmente sul piano mentale.

 

 

«La partita si è decisa nel primo set», ha detto Djokovic in conferenza stampa con una vitrea cordialità nello sguardo, come se fosse già altrove. «Poi c’è stato quel break decisivo all’inizio del secondo e lui ha cominciato a servire meglio». Ma da quando Djokovic vede l’esito di una partita segnato dall’andamento di un primo set, dopo che per anni ha basato la sua forza sul dare all’avversario la sensazione che nessun vantaggio fosse sicuro? Lui che nel 2011 aveva colpito quel dritto ribattezzato The Shot, la risposta vincente sotto di due match point contro Federer che aveva lasciato il Maestro pietrificato, tanto da fargli perdere quattro game di seguito cedendo a Novak la semifinale dell’US Open per la seconda volta consecutiva, dopo che anche nel 2010 Federer aveva avuto due match point salvati da Djokovic colpendo “a occhi chiusi”, come aveva detto dopo. Lui che nel 2015 ha battuto qui Rafael Nadal in tre set sempre nei quarti di finale, che ha vinto undici Slam in cinque anni e mezzo. Dov’è il Novak Djokovic di quelle partite? Potrebbe tornare, potrebbe non tornare più. In fondo quello che la sconfitta contro Thiem rivela non è tanto il declino di un campione, ma piuttosto quanto sia difficile continuare a vincere come ha fatto Djokovic per tutti questi anni. L’eccellenza è qualcosa di tanto inarrestabile quanto fragile, peccato che spesso la si racconta pretendendo che sia eterna.

 

Thiem prenderà il posto di Djokovic nelle due semifinali tra i quattro attuali migliori giocatori al mondo: per lui ci sarà Nadal, che ha sconfitto a Roma poche settimane fa in due set, ma che è un risultato che poco vuol dire rispetto a cosa succederà venerdì. Nadal, battendo Pablo Carreño Busta per ritiro nel suo quarto di finale, ha conquistato la centesima vittoria su terra battuta in partite al meglio di cinque set. Su centodue disputate. L’altra semifinale si giocherà tra Stanislas Wawrinka e Andy Murray, l’attuale numero uno del mondo che ha cominciato il Roland Garros nelle vesti dell’altro campione fragile accanto a Djokovic, dato che sinora entrambi avevano ottenuto poco durante questa stagione. A differenza di Djokovic, Murray a Parigi ha ritrovato il gioco e la voglia di combattere: si vede che avrà meno pensieri di Novak, a giudicare da quanto già sfoga i turbamenti direttamente sul campo, parlando da solo e ingiuriandosi quando gioca male. Niente di più lontano da Djokovic durante l’incontro contro Thiem, dove più si avvicinava la sconfitta e più ritrovava una strana compostezza, come fatta di assenza.

 

 

Tags : novak djokovicroland garrostennis

Fabio Severo scrive di tennis, di cinema, di cultura, ma non solo, per la carta e per il web. Copre eventi sportivi e non per agenzie e network internazionali e ha curato per anni il blog di fotografia contemporanea hippolytebayard.com.

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