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Djokovic ha riscritto la storia
16 giu 2021
16 giu 2021
La sua vittoria al Roland Garros è stata leggendaria.
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La notte al Roland Garros di quest’anno ha preso tinte diverse. La notte del primo sabato Roger Federer era in campo insieme a Dominic Koepfer, e mentre tirava quel recupero in una zona del campo che non era già più campo, era circondato da un silenzio mistico. La notte aveva creato un’atmosfera lunare, una leggenda del tennis stava giocando la sua ultima partita a Parigi (forse, non si sa mai) ma era già su un altro pianeta, in una dimensione leggermente diversa dalla nostra.


 

Quando Novak Djokovic supera la terza ora di gioco contro Matteo Berrettini, invece, la notte è densa di mistero e di paura. È l’oscurità dei mostri e del sovrannaturale. Matteo Berrettini va al servizio sotto 6-5: deve vincere quattro punti per rimanere dentro la partita, e sappiamo già che sarà molto difficile fare quei quattro punti. Berrettini, che da due set serviva senza lasciare aria al suo avversario, annulla un matchpoint con un dritto violentissimo e imprendibile. Djokovic non ha grandi colpe, ma probabilmente non contemplava la possibilità di non vincere quel punto. Impazzisce. Urla verso gli spalti, fa il gesto di tirare la racchetta a qualcuno, grida delle frasi in serbo di cui non sono riuscito a ricostruire il senso, ma non è importante: fa davvero paura. Tira un calcio a un cartellone pubblicitario, le lettere cadono. Al matchpoint successivo non può perdere. Risponde bene, ma Berrettini incrocia il dritto stretto e corto. Ma Djokovic non può perdere, si allunga alla sua destra e lascia andare il braccio mentre è accartocciato per terra, in un movimento che non ha più alcun senso tecnico. La palla sfila in diagonale rapidissima e costringe Berrettini ad appoggiare la racchetta col dritto a protezione. In realtà è una buona difesa, profonda, ma Djokovic non può perdere, e sul rovescio incrociato successivo piega la resistenza di Berrettini. A quel punto urla ancora, verso gli spalti, forse alla luna, ma non sembra esserci in palio solo una partita di tennis.



Quelle urla lo hanno liberato dalla tensione, ha detto, e da quel momento il suo torneo è cambiato e lui è diventato una persona e un tennista diverso. Non solo il maestro dei giochi mentali, in grado di controllare ogni variabile psichica di una partita di tennis, ma un uomo pronto alla guerra, in grado di scendere a un livello di agonismo e concentrazione inaccessibile agli altri. Quello stato mistico che riesce a raggiungere nei migliori tornei della carriera (tutti quelli del 2011, Wimbledon 2014, Roland Garros 2015 e altri che di sicuro non ricordo). In semifinale gli ci sono voluti cinque game, per scendere di nuovo in quegli abissi di concentrazione. Cinque game in cui è stato umiliato con l’autoritarismo violento con cui Nadal ripassa ai suoi avversari i fondamenti del tennis su terra: topspin incrociato e profondo, accelerazione lungolinea; topspin profondo, e palla corta; servizio in slice, contrattacchi di fuoco. Tutto sembrava funzionare persino meglio della finale dello scorso anno, quando lo spagnolo aveva scherzato con Djokovic usando tutta la profondità tattica del suo repertorio.


 

In quel primo set non aveva esercitato un gioco tattico e cerebrale: aveva solo tirato un vincente dietro l’altro. C’è stato un altro momento in cui Djokovic ha fatto clic. Ci sono dei punti che accendono un tennista, lo riempiono di una vitalità prima sopita. Questo punto è arrivato quando Nadal serviva per il set, e si era già silenziosamente portato sul 40-0. Ha giocato in spinta massima: servizio quasi vincente, dritto quasi vincente poi smash. Djokovic, rimbalzando come una pallina di gomma, rimandava di là tutto, finché non aveva appoggiato un vincente nel campo vuoto con semplicità disarmante. Nadal stava ancora cercando di capire che fine aveva fatto il suo smash. Nole aveva trascinato il suo avversario nel fango, in quella dimensione tennistica in cui tutto è muscoli e cervello e il tennis lo strumento attraverso cui un essere umano può esprimere il suo senso per la sopravvivenza. In questa dimensione, nessuno è forte e resistente come Novak Djokovic.


 

Abbiamo visto scambi lunghi e pesanti, Nadal e Djokovic provare a piegarsi l’uno con l’altro come sbarre metalliche. Abbiamo visto un tennis in cui la fase di difesa viene abolita, e a un attacco si risponde con un altro attacco, dove il recupero diventa sempre un tentativo di vincente, la palla corta mai definitiva, il gioco a rete pericoloso. Li abbiamo visti giocare ad altezze in cui agli altri tennisti manca l’aria e che loro hanno abitato con apparente naturalezza. Un tipo di spettacolo vintage, che solo loro due riescono a produrre, e che aveva portato Brian Phillips, ormai alcuni anni fa, a paragonarlo a una gara di assoli di chitarre heavy metal. Nessuna sfida riesce a scavare il tennis fino all’osso e a farlo somigliare - senza particolare retorica - a una lotta tra gladiatori.


 

Nadal provava a uscire dalla morsa, modellando un tennis di ritmo in uno di variazioni; ci provava con topspin particolarmente esasperati, dalla parte del dritto e persino da quella del rovescio. Djokovic era costretto a colpire sopra la propria testa, dimostrando di poter allungare il corpo persino in altezza come Majin Bu. Quando la palla poi diventava particolarmente scomoda, riusciva a tirare una delle sue palle corte. Ci riesce con una facilità così automatica, in qualsiasi contesto, che pare aver trovato un glitch nel matrix.



Se volete vedere un solo punto per poter dire di aver visto tutta la partita, eccovelo. Nadal ha una palla break per rientrare in scia nel terzo set. Lo gioca in maniera attenta: mirando a traiettorie alte in top molto profonde; Nole si muove con leggerezza suprema e riesce a togliersi la scomodità e a restituire pressione. Poi attacco e contrattacco ancora e ancora e ancora. Finché Nadal incassa l’inside-out di Djokovic con le gambe piegate.


 

Al tiebreak del terzo set, siamo all’apice. Nadal ha dovuto alzare ancora il livello per tornare in parità. Sa che non può permettersi di perdere quel set. Ma poi scopre di essere stanco, quando tira un doppio fallo, e una volée a rete non da lui. Sulla palla per il set, prova a uscire dallo scambio con una palla corta poco pensata, e Djokovic ci arriva così bene che può tirare un colpo profondo sensibilissimo. Lo Chartrier ulula nella notte, e Nole mostra l’orecchio, vuole nutrirsi di quell’esaltazione che forse non è amore per lui ma per lo spettacolo assurdo che è riuscito a creare sul campo. La partita a quel punto è finita e fa quasi pena vedere Nadal disarmato a casa sua. Quando perde Nadal sembra sempre un supereroe privato dei suoi poteri.


 

Ci hanno abituati a sfide così assurde, e per un tempo così lungo, che decifrare il valore di questa partita in una graduatoria astratta è molto difficile. È stata una delle loro migliori partite? Sì; è stata la migliore? Non saprei.


 

Djokovic è arrivato in finale con tanti minuti in campo, tanti set giocati, diverse situazioni in cui è sembrato spacciato. Cinque set con Musetti; quattro con Berrettini; quattro con Nadal, in una guerra lo ha lasciato senza fiato. In finale ha impiegato due set per riprenderlo, e nel frattempo ha rischiato di perdere. Tsitsipas non ha tremato e ha giocato sin dal primo punto il suo tennis elegante e lineare. Ha servito con attenzione, e con altrettanto scrupolo si è preso il campo con il suo dritto, forse il migliore che abbiamo potuto apprezzare in questo Roland Garros. Poi nel terzo set ha dovuto rifiatare un attimo: è bastato per perdere.


 

Non è stato il primo a cadere a subire questa sparizione improvvisa: è successo anche a Lorenzo Musetti, per esempio, e in modo ancor più plateale. Musetti, a un paio di game dalla fine, si è ritirato forse per la sensazione desolante di poter chiudere la partita senza vincere più un singolo punto. Non è semplice avere una teoria su questo. Sul perché, cioè, dei giovani rampanti dopo due set vinti, e sulle ali dell’entusiasmo, si ritrovino all’improvviso senza forze contro un trentaquattrenne con migliaia di partite giocate tra i professionisti. (Djokovic è diventato il primo vincitore slam, da Wimbledon 1949, a vincere uno slam con due rimonte in cinque set).


 

Fatto sta che Tsitipas a un certo punto ha diminuito il suo livello in modo impercettibile: il suo dritto era meno penetrante, il suo rovescio démodé si è accartocciato, i piedi sono scivolati troppo distanti dalla linea. Dall’altra parte Nole ha preso una posizione centrale e alta sul ponte di comando. Tsitsipas si è accorto, forse, che per vincere i primi due set contro un Djokovic normale, ha dovuto spingersi su territori di tennis che ancora conosce troppo poco. La cosa diabolica, poi, è che quando scendi di rendimento, vedi dall’altra parte Djokovic salire. Appena abbiamo visto Djokovic andare su nel punteggio nel terzo set, salire con le marce, non abbiamo avuto più dubbi su chi avrebbe vinto la partita. Nessun atleta in situazione di svantaggio, in nessuno sport, ti restituisce l’assoluta certezza che uscirà vincitore come Novak Djokovic. Anche per questo, forse, il pubblico dello Chatrier ha iniziato a tifare Tsitsipas in modo sfacciato. Ma il tifo contro, lo sappiamo, non tange Novak Djokovic. Se c’è un altro fattore contrario rispetto a cui dimostrare la propria resistenza, non può fargli che piacere.


 

Dopo la partita Tsitsipas ha provato a ricostruire il suo sbandamento, e lo ha fatto come se non fosse stato del tutto cosciente quando ha cominciato a perdere. «Ho iniziato a giocare molto corto, mi è sembrato di andare fuori ritmo, non so come mai. È stato molto strano, considerando che avevo iniziato trovando bene i colpi e muovendomi in modo perfetto. All’improvviso mi sono sentito fuori dal match ed è stato difficile recuperare. Vorrei davvero capire perché succedano cose come questa, ci ho provato durante la partita ma è stato difficile inventarsi qualcosa». Poi ha fatto una di quelle notazioni stupide che nel tennis diventano vere: «Oggi ho imparato che una partita non è finita dopo due set». I tennisti delle nuove generazioni non sembrano riuscire proprio a esprimersi su distanze così lunghe, per quanto paradossale possa sembrare, non sembrano proprio formati fisicamente per farlo. Tsitsipas era sconvolto: «Lui ha lasciato il campo dopo i primi due set e non so cosa sia successo, ma quando è tornato sembrava improvvisamente un giocatore diverso». Lo aveva detto il serbo: quando va in bagno e torna non perde più.


 

In conferenza ha fatto uno dei suoi discorsi alla fratelli Karamazov. Ha spiegato i suoi monologhi interiori, ha detto che gli piace avere un dialogo muto con sé stesso e con due parti di sé. Ha detto che c’è una voce pessimista e una ottimista, nella sua testa, e che dal terzo set quella ottimista ha prevalso. Poi non ha negato che da qualche parte (?) ci sono i suoi angeli a proteggerlo ma che non può rivelare di più.


 

Il suo statement Djokovic lo ha fatto però in semifinale. Ha inflitto a Nadal la sua terza sconfitta al Roland Garros. È diventato il primo tennista della storia ad averlo sconfitto due volte a Parigi, a compiere, quindi, una delle più grandi imprese sportive della storia. È stata una vittoria molto importante per la sua legacy, perché ha dimostrato di poter battere Nadal e Federer in maniera continuativa nei loro habitat preferiti. Lo aveva già dimostrato con Federer a Wimbledon (2014, 2015, 2019) e ora ha dato un senso meno episodico alla vittoria contro Nadal nel 2015. È un aspetto molto importante, per provare a creare delle sfumature e delle distinzioni all’interno del lungo trip enigmatico che è la rivalità tra i big-3. Ora Djokovic è anche davanti negli scontri diretti con entrambi e se è vero che i loro peak appartengono ciascuno a epoche leggermente diverse, e il serbo è quello che ha approfittato di più del suo momento per portarsi avanti, la sensazione di invulnerabilità che ha trasmesso in alcuni scontri con i due è spaventosa. Ma questa, che è la sua forza, è anche il limite estetico del suo tennis agli occhi del pubblico, che in lui non riesce a trovare delle imperfezioni in cui specchiarsi. Un essere umano da compatire, di tanto in tanto. Ma bisogna anche dire che quello del poco amore del pubblico nei suoi confronti è diventato un cliché duro a morire, una tesi un po’ esagerata che richiede argomentazioni sottili.



Comunque la si voglia vedere, a Djokovic interessa poco. A 34 anni è a uno slam dal completare la rimonta su Federer e Nadal, e ha nelle mani la possibilità non solo di superarli, ma anche di completare il Grande Slam quest’anno. Il singolo traguardo statistico forse più irraggiungibile del tennis: l’unico in cui né Nadal e né Federer sono riusciti. Pochi forse vogliono che Djokovic li superi: un motivo in più, il migliore, per riuscirci.


 

 

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