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Emanuele Atturo
È possibile dimenticare Roger Federer?
03 nov 2023
03 nov 2023
A un anno dal ritiro, una riflessione su cosa resta dei campioni sportivi.
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Emanuele Atturo
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IMAGO / Sven Simon
(foto) IMAGO / Sven Simon
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La fine di Roger Federer ha un’immagine precisa, e l’ha scelta lui. Roger seduto sulla panchina della Laver Cup, mano nella mano con Rafael Nadal, stravolti dalle lacrime. Federer guarda altrove, in un punto imprecisato e distante da sé, e sembra che stia guardando la propria stessa fine, o la fine del proprio mondo. Indossa l’anonima felpa blu della manifestazione, circondato da persone che non sanno cosa fare - invitati a uno strano funerale che si celebra per una persona ancora in vita. Poco distante una versione mummificata di Bjorn Borg sembra particolarmente poco presente a se stessa.

Odio quell’immagine. Non ci trovo niente di romantico o poetico; mi sembra anzi nuocere al suo stesso scopo: suggellare il romanticismo di una grande rivalità sportiva. È nell’agonismo che Federer e Nadal hanno validato la loro reciproca grandezza. Quell’immagine, invece, è la reificazione del Fedal a scopi commerciali. È la sua svendita. Il lungo, enigmatico tramonto di Federer meritava un finale più ambiguo, più sottile. Non quel torneo che ha senso solo nella testa di persone troppo ricche e con troppo tempo libero.

Per fortuna, a ripensare a quell’immagine mi sembra distante, sbiadita, lontana un’intera epoca storica. I meccanismi selettivi della mia memoria hanno lavorato per annacquare la parte terminale della carriera di Federer, che è quella che temporalmente lo collega di più a noi. Ho già cercato, nella storia che costruiamo attraverso i ricordi, di trovare un legame diverso con lui. La storia di uno sportivo - la sua narrazione, se vogliamo cercare un termine più ampio - sfugge per fortuna alla sua versione di marketing, e ognuno si costruisce la sua. Siamo abituati a manipolare il pensiero di Federer, lo abbiamo sempre fatto: sottrargli le impurità di un’immagine reale per arrivare a una sua forma idealizzata, a un’essenza platonica. Infilarla in una teca, da dove possiamo osservarla come fosse un’installazione. Ora è molto più semplice riuscirci, senza nemmeno l’incomodo dell’attualità che arrivi a sporcare la nostra immagine. È diventato ancora più semplice infilzarlo in un ex voto.

Federer compare sugli spalti dei tornei con l’aria virile e silenziosa di Jon Hamm in Mad Men. Una persona che non deve sforzarsi per essere elegante.

Come dopo le ore immediate al suo ritiro, in queste settimane in cui ricorre un anno dal suo ritiro, ho sentito i miei amici “federeriani”. I tifosi adepti della setta, talebani integralisti del rovescio a una mano, della bandana, delle volée del re, dove sono oggi? Si sono ritirati sul Monte Athos a riflettere sulla fugacità della bellezza?

Contattandoli li ho scoperti tutti intenti in una specie di esercizio di imbalsamazione. Pietro, uno di loro, dice esplicitamente di aver iniziato «a concepire un’idea di Federer non tennista, non atleta» anche se aggiunge: «In tutta onestà questo processo è iniziato inconsciamente ben prima che annunciasse il ritiro». In effetti lo facevamo già, soprattutto in quell’ultima fase in cui ci scambiavamo informazioni mediche su Federer come una famiglia attorno a un parente ammalato.

È questo quello che faccio anch’io, quando mi ritrovo a guardare i video intitolati “Most brutal attacking tennis by Roger Federer”, o “When tennis is too easy for Roger Federer”. Alcuni punti li conosco a memoria.

Federer accelera col dritto e fa due passi verso la rete; Monfils ci arriva e prova il passante lungolinea, ma è tutto spinto sul proprio angolo destro del campo. Federer ci arriva con quel suo passo fantasma, da tigre, e invece di chiudere la volée nel campo aperto fa qualcosa di sadico: tira il suo colpo proprio nell’angolo in cui sta Monfils, che nel frattempo ha già cambiato direzione così bruscamente da cadere a terra. Ho visto punti così di Federer centinaia di volte, ma il senso di meraviglia è ancora intatto.

In questi colpi fintati, improvvisi, si può sentire palpabile l’intuizione geniale che li genera. Contro Borna Coric un rovescio incrociato lo sorprende in una terra di mezzo, là dove i giocatori normali accumulano brutte figure. Federer arriva con la volée di rovescio e sulla sua racchetta la palla sembra morire. Si spegne, assume una dolcezza miracolosa che la fa cadere appena di là dalla rete. Ma qual è il valore di questi reperti video?

Quando un artista si ritira, o muore, la sua opera resta. Possiamo guardare dipinti dello scorso millennio più o meno esattamente come sono stati dipinti; libri come sono stati scritti, dischi come sono stati registrati. La mortalità dell’artista, la sua finitezza, è in contraddizione con l’immortalità della sua opera. Così negli artisti in fin di vita può insorgere l’ansia di non aver detto proprio tutto, di non aver attinto fino in fondo alla propria ispirazione. Nanni Moretti ne Il Sol dell’avvenire si rende conto, preoccupato, che il suo tempo è agli sgoccioli e deve sbrigarsi: girare un film insieme all'altro. Ne Gli spiriti dell’isola il protagonista decide di non rivolgere più la parola al suo miglior amico per concentrarsi sulla sua musica. Non vuole più perdere tempo in conversazioni futili. In uno dei durissimi dialoghi che li vede protagonisti, l’amico scomunicato si vanta di essere una persona gentile e il musicista gli dice che nessuno ricorda le persone gentili dei secoli scorsi, ma tutti ricordano Mozart. «La gentilezza non resta, la musica sì, la pittura sì», dice Colm Doherty, interpretato da Brendan Gleeson. È per questa preoccupazione a non aver detto tutto, a voler lasciare altre tracce nel tempo, che Federer ci ha messo così tanto a smettere? Che ha provato a giocatore fino al totale esaurimento fisico, finché un medico non gli ha comunicato che non poteva proprio più giocare a tennis?

L’ossessione dei grandi sportivi per i record, lo diamo per scontato, è il tentativo più chiaro e diretto di entrare nei libri di storia. La penna che scrive il nome del vincitore sulla coppa dorata di Wimbledon, quella con l’ananas in cima, assicura la gloria eterna - si dice. C’è però qualcosa che resta, che può andare oltre i record, i numeri, le vittorie, la competizione. C’è qualcosa che resta che ha più a che fare con l’emozione, o con l’estetica? Per anni abbiamo avuto la sensazione che certi colpi di Federer, certe sue partite, avessero una loro compiutezza estetica; che fossero, a tutti gli effetti, dei manufatti artistici, ma chissà se è davvero così.

Insomma, cosa resta, poi, di un tennista, di uno sportivo? Davvero potremo ricordare Federer tra qualche secolo, come facciamo oggi con Mozart?

Lo sport come intrattenimento di massa, con le sue registrazioni televisive e la loro diffusione digitale, esiste da troppi pochi anni per saperlo. Pochi giorni fa è morto Bobby Charlton e abbiamo faticato a ricondurlo a un’immagine che non fosse dissonante rispetto alla sua idea di campione sportivo di alto livello. Charlton con la sua calvizie, il naso grosso, dall’aspetto più fresco e giovane a 80 anni che a 25. Charlton era un nome ricorrente, un automatismo della memoria, presenziava alle cerimonie vestito impeccabilmente, ambasciatore di un mondo perduto. Eppure la sua presenza di calciatore, nei nostri ricordi era flebile come quella di un fantasma che non riusciamo a rievocare. Parlando con lo scrittore sportivo inglese David Winner, negli scorsi giorni, mi ha confidato che in Inghilterra la figura di Charlton è stata per lo più dimenticata, fino al momento della sua morte.

I video dei gol di Charlton sono pochi e così distanti nel tempo da sembrarci dei relitti fossili: la sua grandezza - e questa è la cosa crudele - è qualcosa di vago e sfuggente nella nostra mente. Non riusciamo proprio ad afferrarla, a stringerla come qualcosa di familiare. Anche a Federer toccherà questo destino? Uno dei video che continuo a guardare ha il suo scopo nel titolo: “20 punti che se non fossero stati filmati nessuno ci avrebbe creduto”. Il telecronista definisce un colpo tirato contro Anderson «la santa trinità delle demi-volée».

Luca, un altro grande federeriano, sta cercando di fissare un’immagine molto precisa di Federer, quella tarda del 2017, la versione Lazzaro: «I migliori punti della cavalcata del 2017. È un video che conosco a memoria, commentato dai cronisti di Eurosport, perché lo scaricai quell’anno, così me lo potevo rivedere ogni volta che volevo a casa mia, dove non avevo la connessione. Mi ricordo che ci rimasi male perché Federico Ferrero non fu designato per la cronaca della finale, dopo il suo pianto molto poco piemontese, ma così simile a quello che ci siamo fatti tutti noi a casa, per la conquista della semifinale con Wawrinka».

Anche per me i telecronisti sono importanti. Mi piace gustarmi le loro reazioni quando emettono versi gutturali, sospirano o lasciano vagare un eloquente silenzio dopo quei colpi strepitosi. Costretti dal loro lavoro a dare forma orale immediata a quelle piccole opere d’arte. Fabio Severo scriveva a proposito del tennis di Tommy Haas, grande amico di Federer: «Di Haas restano sempre in mente tanti singoli colpi, invenzioni che hanno una loro forma compiuta anche estrapolati dall’andamento dell’incontro, dei piccoli oggetti estetici che hanno un inizio, uno svolgimento e una fine». Era così per Haas, che era una sua versione ridotta, figuriamoci per Federer. Eppure che ne facciamo di tutti questi piccoli oggetti estetici? Non si può mica costruire un reliquiario di gif, anche se con Federer ci stiamo provando. Custodiamo nelle stanze della nostra memoria un piccolo archivio personale dei suoi punti che preferiamo.

Così mi ritrovo ancora a guardare quella magia contro Berdych, proprio nel 2017, in quel periodo di luce assoluta. Il ceco tira un dritto forte al centro del campo, Federer ci arriva col rovescio e sembra tirare uno slice. Berdych ha una posizione perfetta, al centro del campo. Federer non tira però uno slice, ma una smorzata che prende una traiettoria alta e lenta. Come se la palla fosse stata affossata da un’improvvisa folata di vento contrario. Berdych rimane impalato e lui, come tutti noi, non sta capendo cosa succede. È un breve arresto di senso, senza replica. La palla è ancora in volo noi siamo sospesi, mentre Federer ha già capito di aver fatto punto e passeggia defilato come se stesse uscendo dalla piscina per infilarsi l'accappatoio, già con la racchetta dimessa.

La risposta bloccata col rovescio contro il servizio a 140 miglia di Roddick. Un concentrato delle sue prodigiose capacità neuronali. Una delle tante prove che la Federer, come macchina sinaptica, agiva al di sotto della fisica. Altre si possono trovare nel video “Top 10 return of smashes”, dove Federer risponde a degli smash con altri smash, in una serie di colpi di difficoltà incalcolabile; il tennis che diventa un manga.

Su un ordine di grandezza inferiore ai punti, restiamo appesi a piccoli dettagli che continuano a fluttuare nel liquido amniotico della memoria. Luca ricorda il «cenno al raccattapalle di avvantaggiargli le palline, tirandosi indietro i capelli» ma anche una particolare andatura. C’è un dettaglio della sua camminata in campo, a cui penso quasi quotidianamente e che ogni tanto mi sembra di riproporre. A volte, tornando verso la linea di fondo, camminava producendo una sorta di rimbalzo in controtempo, come un cavallo che si muove lento e si prepara alla prossima sfuriata. Quando ci penso, lo rifaccio. Questo è il tic che più spesso mi riporta con la mente a lui». Il mio amico Gianni, che è anche un poeta, dice: «L’immagine frequente è quella di lui che sta per colpire di diritto e pare sospeso, con le scarpette che non toccano il campo. Chi colpisce si trova in volo». Sono anche questi piccoli dettagli a rappresentare il punctum, la presa estetica dalla quale viaggiare nell’esperienza Federer. Il mio amico Alfredo dice che allo stadio, a Napoli, una volta ha sentito una persona parlare per mezz’ora di come Maradona si allacciava le scarpe. Sono questi dettagli la parte più deperibile della memoria dei campioni sportivi.

Nel romanzo Bruges la morta di Rodenbach il protagonista ha allestito nella sua casa un reliquiario della moglie defunta: ritratti, divanetti, gioielli, trecce di capelli. Vive imprigionato nel suo ricordo, si strugge della sua perdita, e dell’impossibilità di trovare un suo corrispettivo nella realtà. La donna è trasformata in un’immagine, che diventa ogni giorno più labile. Quella del protagonista è una lotta contro la forza crudele e indifferente del tempo che via via scolorisce il ricordo, l’unica cosa che ancora mantiene in vita la sua amata. La lotta contro l’oblio, ai confini con la necrofilia, è un motivo che troviamo anche in Racconto d’autunno di Landolfi e in Vertigo di Hitchcock. Nel film, James Stewart ricerca nelle donne che incontra il volto e i modi della amata defunta. Pietro mi dice che «uno dei lati che mi ha reso Federer così irresistibile è che piano piano ho iniziato a ricercare le sensazioni che mi dava guardandolo giocare anche in altri giocatori e atleti di altre discipline. Chiaramente senza successo, finora».

Cosa tiene in vita Federer, il Federer tennista, se non l’immagine che abbiamo cesellato in questi anni? Continuiamo a nutrirla anche senza più nuove partite, guardando i video del passato spinti dall’algoritmo. Per quanto tempo ancora l’intelligenza artificiale considererà Federer degno del nostro interesse? Ce ne accorgeremo quando smetterà di servirci i video che hanno nel proprio titolo le parole “effortless”, “brilliance” o “unique” (i preferiti del mio amico Pietro)?

Non so rispondere, se a spingerci a guardare i video di Federer sia effettivamente la loro perfezione estetica, oppure il legame emotivo che manteniamo con lui (e con una versione del passato di noi stessi, attraverso di lui). Non so se i gesti tecnici di Federer possiedono davvero una qualità estetica che li renderà eterni, se quelle demi volée saranno ancora in grado di parlarci. Chissà se quando si sarà spezzato questo cordone ombelicale di memoria, e il tennis avrà assunto forme completamente diverse e oggi misconosciute, i gesti tecnici di Federer ci suoneranno distanti come quelli di Bobby Charlton, o di Rod Laver.

Quando Stefan Zweig ricorda Arthur Schnitzler dopo la sua morte, è addolorato che le nuove generazioni non riescano più a entrare davvero in contatto con una parte importante della sua produzione artistica, quella più agganciata al suo tempo. C'è stata la guerra di mezzo, che ha stravolto la morale, la visione delle cose. «Percepiscono che qualche legame si è rotto e noi sappiamo chi lo ha rotto: il tempo, la guerra, quella inaudita mutazione del globo che ha messo impietosamente sottosopra proprio l’Austria. (…) Per la nuova generazione il tempo ha cambiato rotta: cinque anni di bufera hanno schiacciato sotto i piedi il mondo di Arthur Schnitzler con una veemenza mai vista prima», scrive spietato Zweig.

Questa sorte può toccare anche agli sportivi? La guerra non può distruggere i loro mondi, ma nuove racchette, nuove regole, nuove forme di vita, sì. Ho guardato di recente dei video di Boris Becker. Quando è apparso nel tennis, a 18 anni, la brutalità dei suoi colpi, del suo dritto in particolare, era qualcosa di sconvolgente. C’era un’urgenza di gioventù, di forza, di un nuovo che emerge a cannonate, radendo al suolo il passato. Nei suoi video però questa urgenza, questa violenza non convenzionale, è difficile da rintracciare. Io la conosco solo perché me l’hanno raccontata. C’è qualcosa, per noi che non gli siamo stati contemporanei, che resta criptico del tennis di Boris Becker. Sono passati solo 30 anni, ma già ci appare come una lingua morta. Con gli occhi di oggi, l’eccezionale di Becker è dissipato, perso per sempre, possiamo riconoscerlo solo attraverso il ricordo degli altri - e le loro deformazioni.

Ho chiesto a Luca se ha paura di dimenticare Federer. «Sarebbe come dimenticare della mia vita da quando avevo 12, 13 anni. Ho sempre visto accendersi qualcosa negli occhi delle persone più grandi di me che ricordavano di McEnroe, di Lendl, di Becker, di Sampras e Agassi - che ho avuto la fortuna di vedere anch’io - quindi non credo che ci si possa scordare degli idoli della propria gioventù. Non ho paura di scordare nulla di tutto quello che ora ricordo di me e lui». Quindi Federer è una storia che appartiene solo a noi che ne siamo stati testimoni?

Filippo, altro mio amico federeriano, pensa che: «Il tennis di Federer, che forse era già un po' vintage agli albori, stia progressivamente sparendo». Gianni dice: «Mi manca la leggerezza e il modo di giocare che non somiglia a niente. Mi manca quella bellezza». Sempre Zweig, che è un grande biografo, ricorda le serate a teatro ad ascoltare Mahler come momenti epifanici: «Non ho mai constatato tale e tanta unità nella musica, come in certe serate che, per l’effetto prodotto, erano paragonabili unicamente ai grandi spettacoli naturali, a un paesaggio con il cielo, le nubi e il respiro delle stagioni, alla compiutezza spontaneamente armoniosa delle cose che esistono solo per sé stesse, ovvie e incapaci di formulare giudizi. In quelle occasioni noi giovani abbiamo appreso ad amare la perfezione».

Quando parliamo di Federer ricorre la parola “esperienza” (“Roger Federer come esperienza religiosa”), come se fosse qualcosa di complesso da vivere. E cosa avrà di Federer chi non l’avrà vissuto, chi non ne ha fatto esperienza? È questo il genere di oblio che mi spaventa - e qui, è chiaro, non stiamo parlando solo di Federer.

Ho chiesto anche a Gianni se ha paura di dimenticare Federer, e mi ha detto: «Uno scrittore molto bravo, Salvador Elizondo, scrive in un romanzo: Siamo il ricordo di qualcuno che ci sta dimenticando?». Un pensiero apodittico molto profondo. Gianni spera che con Federer non accada, «ho la prova Maradona che mi conforta». Alfredo, napoletano come Gianni, non è d’accordo con l’idea che il ricordo di Maradona sia intatto. In un articolo scritto a due anni dalla sua morte, Alfredo scriveva: «Nel vuoto che si è creato in questi due anni, ciò che manca è la memoria. Le immagini di gol e vittorie sbiadiscono un poco alla volta, anno dopo anno. È come una fotografia che passando di mano in mano perde i colori». Certo, c’è l’altare, la chiesa a cielo aperto nei quartieri spagnoli, ma il ricordo perde di forza ogni anno che passa; o comunque assume forme diverse. Su un ordine differente, la doppietta di Maradona all’Inghilterra continua a sprigionare tutta la sua potenza - anche senza essere argentini, senza vivere il dramma della guerra delle Falkland. Certe sue azioni sono così classiche che posso citarle a memoria persino io che sono nato dopo la loro esecuzione.

Questi momenti restano, e riescono a trasportare, come il messaggio in una bottiglia, le tracce del magnetismo e della grandezza di Maradona. È il racconto che tiene vivi questi momenti, che riesce a restituire vita ai fantasmi, alle emozioni passate, all’esperienza che non c’è più.

Nel video Instant Crush (Daft Punk, 2013) Julian Casablancas, icona di stile e bellezza millennial, indossa il chiodo d’ordinanza. Ha ancora i capelli mezzi unti, gli occhi acquosi, i jeans strappati, mentre canta illuminato da una luce ultraterrena. La sua voce ricorda quella che abbiamo conosciuto nella nostra adolescenza, ma l’autotune gli dona un timbro freddo e distante. Attorno a lui ci sono bambole che gli somigliano, e lui stesso ha qualcosa della marionetta, con tutte le mossette al posto giusto. I Daft Punk lo hanno trasformato nella bambola di sé stesso, o nel suo ologramma se preferite, arrestandone l’invecchiamento. Nei cinque minuti e mezzo di Instant Crush, sopra un piedistallo, Julian Casablancas è sempre e per sempre l’icona di una generazione. Ibernato, può cantare in eterno la stessa canzone che comincia così: «Non volevo diventare quello di cui ci si dimentica».

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