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Rodrigo Palacio, l'inesauribile
04 mag 2021
04 mag 2021
A 39 anni l'attaccante del Bologna ha segnato la prima tripletta della sua carriera.
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Alla mezz’ora Rodrigo Palacio gioca con le misure della sgangherata difesa della Fiorentina. I centrali sono tutti fuori posizione e lui si infila nello spazio tra Ambrabat e Venuti; il passaggio ritarda, però, e, con un movimento da lucertola, deve scivolare un po’ a destra, fa ancora un paio di passi all’indietro col corpo inarcato in avanti, sperando che il passaggio gli arrivi prima che gli avversari si accorgano della sua esistenza o che lo mettano in fuorigioco. La palla infine arriva, precisa, lui la lascia scorrere per un attimo, poi la calcia con un piatto così sgraziato che lo fa cascare per terra. È il primo gol della sua partita, quello dell’uno a uno, ne segnerà altri due, il secondo con un colpo di testa in avvitamento; il terzo dopo un altro taglio alle spalle della difesa. Ha realizzato la sua prima tripletta in carriera, a 39 anni, il più vecchio triplettista della storia dei cinque maggiori campionati europei. Tutti e tre gli assist gli sono stati serviti da Emanuel Vignato, che invece di anni ne ha 21 e che quindi è nato nell’anno in cui Palacio è diventato maggiorenne e giocava col Bahia Blanca.


 

È una tripletta arrivata nella sua stagione peggiore, almeno dal punto di vista realizzativo; prima di ieri aveva segnato appena un gol in campionato, alla seconda giornata contro il Parma: non segnava da più di sette mesi. Il suo rendimento sotto porta era stato disastroso: solo Dzeko e Lasagna hanno avuto una prestazione prevista peggiore, segnando molto meno di quanto avrebbero potuto, secondo i dati Statsbomb. Eppure, nonostante la scarsa ricompensa per il suo lavoro, Palacio ha continuato a scattare oltre le difese, a infilarsi in linee malmesse, a portare la palla in avanti in conduzione e spendersi in estenuanti azioni di pressing. «Quest’anno ho segnato poco, è vero, ma ho sempre fatto buone prestazioni e ne sono soddisfatto», ha detto dopo la partita. Un dato su tutti racconta una generosità che sfiora il patologico: con 197 azioni di pressing offensivo, è il secondo calciatore della Serie A che ne ha eseguite di più. Il primo è Lautaro Martinez, che ha quindici anni meno di lui. Sono anni che domina questo tipo di classifiche, che raccontano uno stile di gioco vicino al martirio, all’autoflagellazione, e che dalla tv forse non è del tutto percepibile. Bisogna vedere una partita dal vivo di Rodrigo Palacio per aver restituito il senso della fatica titanica, del lavoro incessante che da anni si porta sulle spalle per la causa del Bologna. Mi è capitato di vederlo in un Bologna-Cagliari primaverile brutto come le sbornie di vino rosso con trenta gradi sotto il sole. Ventuno giocatori narcotizzati e un po’ maneschi, e in mezzo a loro Rodrigo Palacio a scattare come se da quello dipendesse la continuazione del mondo. Le sue corse tenendo lontano l’uomo ti lasciavano percepire il campo da calcio di una grandezza diversa.


 

Quando c’è da partire in contropiede Palacio si sfila leggermente dalla zona centrale e si mette sulla fascia, pronto a ricevere e a mettersi la croce sulle spalle per la sua personale salita del Golgota. I venti, trenta, a volta quaranta metri che percorre di corsa portando la palla ai piedi come fosse la sua personale catena. Eppure con una leggerezza sempre miracolosa, come se il suo corpo avesse ormai trasceso il naturale invecchiamento delle carni. Palacio che stoppa con l’interno sinistro e inizia a portarsi avanti il pallone con l’esterno, a sterzare, decelerare e ripartire, passare in mezzo a corpi più giovani e freschi del suo. L’eterna treccia che balla sulla sua nuca, il volto sempre più smagrito e vicino a quello dei santi gesuiti. Palacio corre, e spesso poi deve fermarsi e scaricare a un compagno vicino, o viene chiuso in rimessa laterale. Sono poche le sue azioni che finiscono con un tiro o con un rifinitura, ma non è importante: Palacio ha trainato la squadra in avanti come un bue, con la sua semplice forza motrice.


 



 

Segnando sempre un numero piuttosto limitato di gol, i benefici delle sue azioni sono nascosti tra le pieghe: i suoi scatti danno il ritmo di una squadra come il Bologna, in questi anni spesso frenetica e coraggiosa fino all’autolesionismo. Palacio trascina in avanti il baricentro palla al piede, suona la carica, dà la profondità dietro la linea difensiva, ne allarga le maglie defilandosi sulla fascia, apre gli spazi per i trequartista allungando la difesa avversaria. «Quando gioca, anche se non segna lui, apre un sacco di spazi per tutti gli altri compagni», ha detto Mihajlovic. I suoi errori sotto porta possono essere la logica conseguenza della fatica che fa per arrivarci, ma trasmettono sempre un grande senso di disperazione e ingiustizia. Qualche piccolo dettaglio - un portiere troppo pronto, una leggera imprecisione - sembra sempre congiurare contro di lui e togliergli quello che meriterebbe. Il fatto che segni poco, però, finisce per dare un senso ancora più spirituale e nobile al suo gioco. Lo depura da qualsiasi dimensione egotica e finalistica. Il calcio di Palacio non sembra avere a che fare direttamente col piacere, ma con la sublimazione della sofferenza.


 

Sono vent’anni che ripete gli stessi scatti, gli stessi movimenti a pendolo, le stesse corse davanti od oltre la difesa. Palacio come Sisifo, o come quegli artigiani giapponesi che hanno consacrato la loro vita alla ripetizione ossessiva di pochi e piccoli gesti che hanno elevato ad attività spirituale. Che provano a raggiungere la purezza attraverso la dedizione e una semplicità ripetuta finché non diventa la verità ultima di questa terra. Quando parla di sé stesso si definisce sempre generoso ed esigente con sé stesso, e il suo stile di gioco è consacrato a questi due valori con una devozione religiosa. Palacio è arrivato in Serie A a 27 anni, ma ne dimostrava già almeno dieci di più: è arrivato anziano ed è rimasto sempre uguale a sé stesso. La treccia sempre al suo posto da quando ha iniziato a giocare a calcio, come fosse un voto o un simbolo di stoicismo, immutabile tra le varie epoche della sua vita. Ha vinto la Libertadores col Boca di Riquelme e Palermo; ha imperversato sull’esterno sinistro del Genoa di Gasperini, e poi nell’attacco a due di Walter Mazzarri all’Inter, che lo definiva «Un fenomeno. Il prototipo dell’attaccante moderno» (due anni fa gli ha dato un dispiacere in un Torino-Bologna e il tecnico ha detto che «Sembrava Maradona»). Con la maglia dell’Inter la dedizione alla causa di Palacio ha raggiunto livelli impensabili, con un’apparizione più che dignitosa persino tra i pali in un Inter-Verona a San Siro.


 


 

Era arrivato al Bologna e pensavamo fosse per godersi gli ultimi anni di una carriera non gloriosa ma quanto meno di culto. In Emilia invece ha continuato a perpetrare l’unico modo che conosce di giocare a calcio: correre in modo disperato fino all’ultimo respiro, dare tutto per la squadra. Due anni fa Gasperini ha provato a portarlo all’Atalanta per giocare per la prima volta la Champions League, ma si sentiva troppo legato a Bologna. I suoi compagni lo venerano perché arriva agli allenamenti in tuta, guidando l’auto aziendale e poi dà il 100%. Per Mihajlovic è «Un esempio». Ha detto che vuole giocare fino a quarant’anni, ma dà l’impressione di essere eterno e flessibile come il grafene.


 

Da qualche anno già ha messo in prospettiva la sua carriera: «Io non sono un campione, non sono un giocatore fortissimo. Però sono contento di quello che ho fatto. Mi dispiace non aver vinto nulla in Europa, ma vincere non è per tutti». Quando smetterà ha detto che taglierà la treccia, deponendo lo spirito guerriero con cui ha nobilitato i campi della Serie A per quindici anni.


 

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