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Il difficile finale di carriera di Robinho
04 feb 2021
04 feb 2021
La sua vicenda giudiziaria ci parla del problema più grande della violenza di genere in Brasile.
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Nella sua carriera Robinho ha rappresentato una delle icone più precise dello stile di gioco brasiliano. La leggerezza eterea dei suoi dribbling, il doppio passo che gli valse la corona di Rei das pedaladas, un po’ di inconsistenza e fumosità negli ultimi metri che per paradosso lo avvicinava ancora di più al concetto di “Futebol Arte”.

Qualche mese fa, però, Robinho è tornato al centro della scena mediatica per vicende che con il calcio, purtroppo, c’entrano solo relativamente. Sabato 10 ottobre il Santos annunciava in pompa magna il ritorno a casa del “menino da Vila”, ormai 36enne e reduce da tre stagioni grigie in Turchia. Ritornava nel club in cui esordì e divenne un idolo prima di trasferirsi al Real Madrid nel 2005, e dove era già tornato per due brevi parentesi nel 2010 e nel 2014.

Sul giocatore però pendeva una condanna in primo grado - poi confermata dalla Corte d’Appello il 10 dicembre - a nove anni di carcere per violenza sessuale di gruppo, comminata dal Tribunale di Milano per fatti avvenuti nel 2013, quando giocava in Italia.

La vicenda

Il 22 gennaio 2013 Robinho si trovava con moglie e amici - tra cui i membri della band che aveva suonato la sera stessa - al Sio Café, noto locale milanese dove la vittima era stata invitata dai ragazzi con l’indicazione di non avvicinarsi a loro fino a quando la moglie del calciatore non se ne fosse andata.

A fine serata, quando la moglie era già tornata a casa, il calciatore e i suoi amici - l’unico reso noto è il musicista Ricardo Falco, condannato anch’egli a nove anni, mentre per gli altri quattro il processo è stato sospeso per irreperibilità - avrebbero condotto la ragazza nel camerino della band e, secondo la sentenza, avrebbero «abusato delle condizioni di inferiorità psichica e fisica della persona offesa che aveva ingerito delle sostanze alcoliche, con modalità fraudolente, consistite nell’offrirle da bere al punto da renderla incosciente e incapace a opporsi».

Il primo ad approfittarne sarebbe stato proprio Robinho, seguito a ruota dagli altri cinque. La condanna, stabilita in contumacia in quanto il calciatore non si è mai presentato a processo, è aggravata da intercettazioni telefoniche, poi rese pubbliche da Globo Esporte, che sono state ritenute auto-accusatorie ai fini del giudizio. Pochi mesi dopo i fatti, Robinho e Falco conversano preoccupati per la testimonianza che la vittima avrebbe rilasciato: quando uno ricorda “con certezza” di aver visto un amico consumare un rapporto sessuale completo, l’altro si dice scettico, perché «lei non si reggeva in piedi, era fuori di sé».

La sentenza evidenzia come, nelle conversazioni intercettate, la ragazza sia stata descritta «con epiteti umilianti e termini spesso crudi e sprezzanti, segni inequivocabili di spregiudicatezza e quindi di consapevolezza di una futura impunità» tale da indurli a «ridere più volte dell’accaduto, evidenziando così un assoluto dispregio per la condizione della vittima, esposta a ripetute umiliazioni, oltre che ad atti di violenza sessuale mediante abusi particolarmente invasivi, e con un'assoluta sopraffazione fisica della vittima».

Come quando Robinho dice di sentirsi tranquillo per averle infilato il pene “solo in bocca” e di aver solo “provato” senza successo ad andare oltre, o quando ricorda ridendo che «erano in cinque sopra di lei».

Le ripercussioni

Con l’annuncio del Santos la vicenda, fino a quel momento sconosciuta a buona parte dei brasiliani, ha scatenato un dibattito di portata nazionale che ha travolto il club e il giocatore ben oltre le loro aspettative, rendendo di fatto inevitabile la rescissione consensuale del contratto dopo soli sei giorni.

Il Santos ha fatto una brutta figura anche perché negli ultimi mesi si era distinto come promotore di una campagna contro la violenza sulle donne, finanziando il lancio di un centro di ascolto da chiamare in caso di aggressione e accompagnandolo con numerosi post sui profili social del club. Un posizionamento che aveva raccolto il sostegno orgoglioso di molti tifosi (e soprattutto tifose), ma che dal momento dell’ingaggio di Robinho ha sortito l’effetto opposto, portando ad accuse di ipocrisia.

Per quanto la pressione dell’opinione pubblica fosse intensa, comunque, è probabile che il Santos mirasse a “lasciar passare la nottata”, consapevole che le tempeste mediatiche, al tempo di internet, non durano più di qualche giorno.

Ciò che ha davvero cambiato le carte in tavola - non sorprende - è stato il comportamento degli sponsor, che sono stati forzati a prendere posizione pubblicamente. Il 16 ottobre, poche ore prima che fosse annunciata la rescissione, il noto giornalista Rodrigo Capelo aveva comunicato che, dopo aver contattato direttamente ciascuna delle 11 aziende, la situazione era la seguente: Orthopride aveva già ritirato la propria sponsorizzazione e altre sette (Kicaldo, Kodilar, Tekbond, Foxlux, Philco, Casa de Apostas e Oceano B2B) si erano dichiarate pronte a fare lo stesso se Robinho fosse rimasto in squadra, mentre il produttore di birra Brahma non avrebbe rinnovato il contratto alla scadenza. Soltanto Umbro e Unicesumar avevano momentaneamente preferito non esporsi.

La breve nota rilasciata per comunicare l’interruzione del rapporto, nell’impossibilità di rivelare pubblicamente la natura economica delle motivazioni, sfiora il tragicomico: «il Santos Futebol Clube e l’atleta Robinho informano che, di comune accordo, hanno deciso di interrompere la validità del contratto firmato il giorno 10 ottobre affinché il giocatore possa concentrarsi sulla propria difesa nel processo in corso in Italia». Come se, in quella settimana, Robinho si fosse all’improvviso reso conto di non avere più tempo a sufficienza per giocare a calcio.

Già due giorni prima, in una “nota di chiarimento per i tifosi”, il club aveva cercato di giustificarsi facendo leva sul fatto che la condanna non sia ancora definitiva (mancano ancora due gradi di giudizio) e sostenendo di essersi sempre caratterizzato come «istituzione inclusiva e socialmente responsabile, modello di riferimento nel combattere il razzismo e qualunque altro tipo di violenza, specialmente contro le donne, e per gli investimenti nel calcio femminile».

Il giorno dopo la risoluzione anche lo stesso Robinho, che mai si era espresso in pubblico sulla questione, ha rilasciato un’intervista a UOL Esporte. Quando l’intervistatore lo ha messo alle strette, leggendogli le trascrizioni delle intercettazioni, i suoi legali - presenti in redazione - gli hanno suggerito di non addentrarsi nei dettagli per non rischiare di intralciare la difesa nel processo in corso.

Robinho ha ammesso di aver avuto con quella ragazza «una normale relazione tra uomo e donna» ma «sempre con il suo consenso». «L’unica cosa di cui mi pento è di aver tradito mia moglie» ha aggiunto, sostenendo che le conversazioni intercettate sarebbero state riportate “fuori contesto” e specificando di non aver mai inteso mancare di rispetto alla vittima, «anche perché vivo con tre donne: mia madre (la mia regina), mia moglie e mia figlia».

Il Brasile, ieri e oggi

Oltre alle dichiarazioni ufficiali, in quei giorni è circolato un messaggio vocale, inviato da Robinho a un amico, nel quale accomuna se stesso al presidente Bolsonaro per il modo in cui entrambi sarebbero perseguitati da Rede Globo, la più grande emittente televisiva nazionale contro la quale il presidente si è più volte scagliato.

Robinho non è certo l’unico calciatore ad aver espresso il proprio endorsement a Bolsonaro: tra loro anche Felipe Melo, Ronaldinho, Cafu, Edmundo, Neymar, Lucas Moura e tanti altri. Il loro legame ha radici profonde nella religione, come emerge in modo inequivocabile dalle parole dello stesso Robinho: «Dio mi sta preparando per qualcosa di molto più grande. Nel deserto, è con questi attacchi che ti avvicini a Dio e ti prepari. Hai visto cosa hanno fatto a Bolsonaro prima delle elezioni? Come lo hanno attaccato? Che Bolsonaro era razzista, fascista, che era un assassino? E più lo massacravano, più è cresciuto. Quindi ho davvero il cuore in pace. Il bene vince sempre e la verità sarà rivelata. Si sa che la Globo è l'emittente del demonio. Quindi io sono in pace. Dio mi darà la vittoria. Possano i propositi di Dio realizzarsi nella mia vita. Quando segnerò, mostrerò una maglietta con scritto: "Globo spazzatura, ha ragione Bolsonaro"».

Il fanatismo religioso di matrice evangelica si lega al trittico “Dio, Patria e Famiglia”, dove per famiglia si intende ovviamente quella tradizionale. Nella parte parte finale della sua recente intervista Robinho ha attaccato duramente il “movimento femminista”, aggiungendo che «ormai molte donne non sono neanche più donne».

Il processo quindi, e tutto il dibattito che ruota attorno, è interessante perché è alimentato dal clima fortemente conflittuale che c’è oggi in Brasile sulla condizione della donna. Il paese è sempre più polarizzato tra chi si batte per il progresso sociale, e coloro, di cui Bolsonaro è il portavoce - o “Mito”, come lo chiamano molti sostenitori -, che difendono a spada tratta l’impostazione profondamente maschilista. Nel 2019, in Brasile, si è registrato uno stupro ogni 8 minuti. Lo stesso Bolsonaro, quando un’avversaria politica lo accusò di non schierarsi contro le violenze (anche sessuali) perpetrate durante gli anni della dittatura militare, le rispose che lui in ogni caso non l’avrebbe mai stuprata, perché - alludendo al suo aspetto fisico - “non se lo merita”.

Nel mondo del calcio brasiliano quello di Robinho non è l’unico caso controverso. L’attuale allenatore del Santos Cuca, nel 1987, fu coinvolto in un caso simile a quello di Robinho: nel corso di una tournée in Svizzera con il Grêmio, fu arrestato insieme a tre compagni di squadra con l’accusa di aver stuprato una ragazzina di 14 anni nell’albergo in cui alloggiavano.

I quattro furono scarcerati dopo 28 giorni di detenzione e in seguito condannati, ma non furono mai estradati e scontarono la pena in libertà. Guardando un reportage dell’epoca - con interviste ai conoscenti che li definiscono “bravi ragazzi”, al limite “ingenui” e “sedotti” dalla vittima, la quale comunque “non avrebbe dovuto girare da sola” - si ha l’impressione di essere catapultati in un’altra era geologica, ma per quanto la trattazione mediatica del tema sia oggi molto diversa, quel mondo è ancora fortemente presente nel sostrato culturale, soprattutto tra i meno giovani.

Così lo stesso Cuca, a distanza di 33 anni, dimostra di non aver maturato una nuova coscienza quando, interpellato sul caso Robinho, si limita a definirlo «una persona meravigliosa, un esempio di giocatore, sempre correttissimo nel corso della propria carriera».

D’altronde siamo nello stesso Paese in cui il portiere ex-Flamengo Bruno, condannato a ventidue anni di carcere per aver fatto uccidere l’ex moglie e averne dato i resti in pasto ai cani, era stato conteso da vari club subito dopo la temporanea concessione della libertà vigilata, poi revocata. Lo stesso in cui Dudu, tra i principali protagonisti del Brasileirão nelle ultime stagioni col Palmeiras, in estate si è trasferito improvvisamente in Qatar per sfuggire alle nuove accuse di violenza da parte della ex-moglie, reato per cui aveva era già stato ai servizi sociali nel 2013; la società lo ha salutato con tanti ringraziamenti e un solidale “a presto”.

Il vento sta cambiando e i sondaggi mostrano chiaramente come le differenze di sensibilità siano, almeno in parte, una questione generazionale. Oggi sembra però ancora lontano il giorno in cui chi ha commesso violenza di genere non potrà servirsi di gol, parate e doppi passi per ripulire la propria immagine.

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