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Roberto Mancini, senza mezze misure
22 apr 2021
22 apr 2021
Un estratto dal libro di Marco Gaetani sul fantasista di Jesi, edito da 66thand2nd.
(articolo)
15 min
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Pubblichiamo un estratto del libro di Marco Gaetani "Roberto Mancini, senza mezze misure" che esce oggi per 66thand2nd.

Primo aprile 1992, Sofia. A Belgrado, ovviamente, non si può giocare. La Jugoslavia è lacerata da un conflitto iniziato un anno prima e la Stella Rossa, per imposizione della Uefa, è costretta a scendere in campo fuori casa anche nelle partite teoricamente casalinghe. In campionato questo non accade, perché la Stella gioca ancora al Marakàna, un teatro maestoso (per tutti) e spaventoso (per gli avversari) che durante la guerra si ritrova vuoto e malconcio. Della tifoseria organizzata della Stella Rossa fanno parte diversi elementi molto attivi delle formazioni nazionaliste serbe, il leader degli ultrà è Željko Ražnatovic, noto con il nome di battaglia di Arkan. È stato lui, in nome del presidente serbo Slobodan Milosevic, a riunire le diverse anime della tifoseria della Stella Rossa, dopo aver trascorso anni in giro per l’Europa ad accumulare condanne per rapina e a svolgere attività di spionaggio per conto della polizia segreta jugoslava negli anni Settanta e Ottanta. Quando il conflitto con la Croazia entra nel vivo, i vertici del governo serbo bussano alla porta di Arkan per radunare e organizzare le milizie di volontari, pescati a piene mani dagli spalti del Marakàna e dalle carceri di Belgrado. Nasce così la Guardia volontaria serba, passata alla storia con l’appellativo di «Tigri di Arkan», un gruppo che negli anni del conflitto si rende responsabile di stragi orribili. A tre giorni dalla sfida con la Sampdoria, uccidono diciassette persone a Bijeljina, in Bosnia, lanciando bombe in un caffè e in una macelleria.

La trasferta, per i tifosi della Samp, non è proprio delle più semplici e tranquille. Il patron Mantovani, al seguito della squadra, ha ricevuto un avvertimento dai vertici del Panathinaïkos, i cui tifosi hanno già testato la complessità della trasferta. Ma è la partita che può segnare la storia della società, e al cuore non si comanda. L’esodo da Genova è complesso, l’arrivo a Sofia è un incubo. I temerari sono circa duemila, per chi arriva in aeroporto le prime scene di compagni di fede fasciati per le aggressioni si vedono già nelle grandi sale dello scalo bulgaro. In città, gli ultrà serbi sono ovunque, quasi sempre dotati di mazze da hockey e bastoni. Alcuni tifosi della Samp si ritrovano nell’albergo che ospita la Stella Rossa, il Vitosha, e finiscono per essere derubati o malmenati. Scene simili allo Sheraton, dove alloggia la Sampdoria. Le foto ricordo diventano l’occasione perfetta di aggressione: mentre Pagliuca è in posa d’ordinanza per uno scatto con un tifoso, arriva un ultrà della Stella e prova a rifilargli un pugno, che Gianluca schiva e finisce dritto sul volto del malcapitato fan italiano. Cazzotti e sberle anche per Ezio Marchi, massaggiatore doriano, colpevole di essere uscito dall’albergo indossando la tuta sociale della Sampdoria. La situazione è surreale, Mantovani contatta l’ambasciatore italiano a Sofia Agostino Mathis per cercare di porre un freno alla violenza dilagante, un tifoso blucerchiato viene condotto d’urgenza all’ospedale Piritoff dopo aver ricevuto una mazzata alla nuca. I feriti ufficiali nel primo bollettino sono una dozzina, ma non si contano quelli colpiti senza ricorrere alle cure degli ospedali. Il direttore sportivo Borea si mette in contatto con il delegato Uefa, sono ore convulse, in cui Pagliuca vede anche entrare nella hall dell’albergo un tifoso serbo con una pistola in pugno.

Quando si arriva allo stadio di Sofia, il clima è tutto fuorché quello di una partita di pallone. Mi chiedo quanto un professionista riesca a svuotare la testa dai cattivi pensieri che potrebbero annebbiarla, come sia in grado di scendere in campo per fare quello che è il suo lavoro mentre attorno a sé vede poliziotti e militari con i fucili puntati verso le tribune per intimidire quelli che, teoricamente, dovrebbero essere soltanto tifosi. A che livello di controllo della propria mente si arriva per poter ignorare le notizie di mazzate, agguati, aggressioni e sputi subiti da chi ha fatto chilometri e chilometri solamente per poter venire a vederti, a sostenerti, a caricarti alla vigilia di quella che potrebbe essere la partita più importante della tua vita? I pochi striscioni in italiano presenti sugli spalti non sono stati scritti dai tifosi della Sampdoria, ma da quelli della Stella Rossa: sono quasi tutti insulti nei confronti di Paolo Mantovani e della sua famiglia. Non c’è calciatore, allenatore o dirigente che abbia speso anche solo mezza parola negativa nei confronti del patron della Sampdoria, e l’altra domanda che mi assilla è cosa possano aver pensato i giocatori doriani, così legati a Mantovani, guardandosi attorno per qualche istante. Per una volta la metto per esteso, la formazione di quegli undici scesi in campo mentre intorno tutti facevano rumore. Un elenco da rileggere mentalmente come si faceva ai tempi, senza ragionare per moduli ma per numero di maglia, una filastrocca che concedeva di prendere fiato solamente dopo il numero 3 e dopo il numero 6. Dunque Pagliuca Dario Bonetti Katanec, Pari Vierchowod Lanna, Lombardo Cerezo Vialli Mancini Ivano Bonetti. Dall’altra parte c’è una Stella Rossa che forse non è ancora compatta come quando, qualche mese prima, aveva vinto la Coppa dei Campioni al San Nicola di Bari, ma che può contare sul recupero del «Genio» Dejan Savicevic, sui morsi del «Cobra» Darko Pancev e su due giocatori che faranno la storia della Sampdoria: Vladimir Jugovic, ventidue anni, un piede destro con il quale potrebbe colpire una piuma a distanza di qualche chilometro e una mente da scienziato, il tutto amplificato da una voglia di vincere difficile da descrivere, e Siniša Mihajlovic, che proprio in Boškov ha uno dei suoi più grandi fan. Nel 1992 è ancora un esterno di centrocampo, indossa la numero 11 (questa caratteristica cambierà solo di rado durante la sua carriera, nonostante gli spostamenti in campo), ma ha un modo di calciare i piazzati che non si è mai visto prima.

I pochi istanti che precedono l’inizio della gara mi restituiscono, in un colpo, tutta la differenza che c’è tra Mancini e Vialli. Roberto è posato, sembra riflettere, bacia una collanina e la rimette religiosamente all’interno della maglietta, si passa una mano tra i capelli. Gianluca è un moto perpetuo, non sta fermo un attimo, prosegue il riscaldamento in attesa del fischio dell’arbitro come se fosse in piedi sui carboni ardenti. Si comincia e la Sampdoria scopre presto cosa abbia di speciale quel Mihajlovic: c’è una punizione a un paio di metri dal vertice destro dell’area di rigore, il sinistro di Siniša è un oggetto volante che Pagliuca riesce a identificare solamente una volta entrato in rete. La fortuna della Samp è trovare abbastanza presto, poco dopo la mezz’ora, il pareggio: Katanec risolve una mischia in area e fa 1-1. Ai blucerchiati serve la vittoria, e la spettacolare autorete di Vasilijevic nel tentativo di anticipare Vialli è quello che serviva. Resta un tempo da giocare, in un clima infernale. Jugovic e Mihajlovic sono i più pericolosi, alla mezz’ora la svolta. Lombardo stringe centralmente da destra e cerca Mancini, appostato ai venti metri. Roberto lascia sfilare e va via senza palla con un movimento a ricciolo, consapevole di avere Vialli alle spalle.

Il mito dei «Gemelli del Gol» è quasi interamente costruito sugli assist di Mancini e le stoccate di Vialli, ma si sottovalutano le capacità di rifinitore di Gianluca, un attaccante completo, abilissimo anche in appoggio. «Stradivialli» controlla male il pallone che si impenna, ma è un’esitazione che gioca a suo favore, perché due centrali collassano su di lui lasciando il corridoio centrale a Mancini, pescato per chiudere il triangolo. La palla è sporca, alta, Roberto non può chiudere al volo. Miodrag Belodedici, altro pupillo di Boškov, gli si fa incontro con la sua sagoma imperiosa. Va in estensione con la gamba per provare ad anticipare Mancini, che non è solo un maestro nel manipolare il tempo, ma anche lo spazio. Quando se lo vede arrivare contro, calcola in un attimo come aggirarlo: un tocco lieve al volo, dosato alla perfezione. Belodedici prosegue nel suo slancio e finisce fuori dai giochi, ora c’è soltanto la palla che cade davanti al corpo del Mancio. Milojevic, il portiere della Stella, capisce tutto troppo tardi e non riesce a uscire per oscurargli lo specchio della porta: Roberto piazza il pallone che vale più di mezza finale di Coppa dei Campioni e corre via, indicando ripetutamente Vialli e poi inginocchiandosi sul prato, in una posa che lo avvicina più a un tennista che ha appena vinto Wimbledon che a un giocatore di calcio. Sampdoria 7, Stella Rossa 6, Anderlecht 4, Panathinaïkos 3. All’ultima giornata ci sono i greci, la Stella deve volare in Belgio.

Senza Vierchowod, Cerezo e Lombardo, con Vialli e Mancini diffidati, la Samp parte con il freno a mano tirato e i verdi di Grecia passano in vantaggio. A prendere per mano i suoi compagni è ancora una volta Mancini, che controlla di coscia spalle alla porta un lancio proveniente da destra, scappa al difensore andando verso il fondo e calcia con tutta la forza che ha in corpo nell’unico angolo possibile, bucando la figura di Wandzik. L’1-1 basta e avanza, perché la Stella Rossa, ancora sotto shock per la sconfitta con la Samp, perde anche a Bruxelles. L’altro girone lo ha dominato il Barcellona, anche se per prenotare il biglietto per Londra è servita una dimostrazione di forza nell’ultima gara del gruppo contro il Benfica. Ormai è cosa nota, il tecnico dei portoghesi è il prossimo allenatore della Sampdoria: sarà Sven-Göran Eriksson l’erede di Vujadin Boškov, che nelle interviste continua a fare il vago ma ha già un accordo con la Roma.

Alla Samp manca un solo passo per chiudere un ciclo irripetibile, ma dentro lo spogliatoio si sente già l’aria di fine epoca. Il tecnico è in uscita, e il secondo addio certo è quello di Vialli. La Juventus ha messo sul piatto tanti soldi, tantissimi soldi, troppi soldi per dire di no, anche se buona parte del trasferimento è coperta dalle contropartite. La vigilia è caratterizzata dalle voci che lo riguardano, dai tifosi che cercano di fargli cambiare idea a suon di striscioni. Tutto questo clamore turba il gruppo e a farsene portavoce è ancora una volta Mancini, l’unico a non avere mai paura di esporsi. Il Mancio rivendica più attenzione per la Sampdoria e meno per Vialli, per proteggere il gruppo ma anche, e soprattutto, il suo amico: «Non ci dà fastidio vedere tutti intorno a Gianluca, ma non sopportiamo il fatto che non si parli mai della Samp, neppure in questa occasione. Quando vincevamo noi la Coppa Italia non contava niente, Parma-Juve è stato fatto passare per un grande avvenimento. In passato si è detto perfino che lo scudetto alla Samp ha fatto perdere migliaia di copie ai giornali e allora lancio una proposta per l’anno prossimo: un campionato con Milan e Juve da sole, più un secondo con tutte le altre squadre». Sa meglio di tutti che non ci sarà appello, non ci sarà rivincita. Barcellona-Sampdoria è la partita della vita, anche se neppure una vittoria permetterebbe a questo gruppo di andare avanti. La Samp, inoltre, sta per chiudere il campionato fuori dalla zona Europa: vincere la Coppa dei Campioni è pure l’ultima chance per restare nel giro continentale. Mancini prova a esorcizzare («Se non dovessimo giocare le coppe vorrà dire che vinceremo il campionato») ma le sue parole sembrano più dirette a spronare i compagni di squadra che una reale convinzione. E lascia lì una battuta che è la fotografia del momento: «Il futuro verrà dopo. Il calcio è anche un giocatore che se ne va».

Il fatto di ritrovare il Barcellona in finale, tre anni dopo la sconfitta di Berna in Coppa delle Coppe, sembra un segno del destino, l’ipotetica chiusura di un cerchio. Per riprendere la frase di Boškov citata prima, però, il calcio non è matematica, il calcio è vita, e non è detto che si debba sempre raccogliere quanto si è seminato. Rispetto a Sofia c’è Mannini al posto di Dario Bonetti. I primi venti minuti della Sampdoria a Wembley sono brutti come possono esserlo solo quelli di una squadra che sente addosso il peso della storia e, allo stesso tempo, il gap con gli avversari. Il Barcellona arriva a Londra da favorito assoluto, con Johan Cruijff in panchina e in campo stelle come Laudrup e Stoickov. Il bulgaro parte largo a sinistra, Boškov lo affida alle cure di Mannini, mentre il danese, che non è più la seconda punta elettrica conosciuta dal pubblico italiano ai tempi di Lazio e Juventus ma è diventato un raffinatissimo regista offensivo, è tallonato in giro per il campo da Fausto Pari, un altro di quelli con la valigia pronta (Napoli). Il terzo attaccante, Salinas, viene consegnato a Vierchowod, con Lanna libero e Katanec che in mediana deve tenere d’occhio la regia di Guardiola, mentre Cerezo è di pattuglia su Bakero, che si alterna con Laudrup tra il ruolo di centravanti tattico e di vertice alto del rombo di centrocampo del 3-4-3 caro a Cruijff.

A guardarlo oggi, con gli occhi allenati a squadre abituate a una pressione sistematica sul primo possesso palla avversario, l’approccio della Sampdoria appare sorprendente. Boškov decide, sin dall’inizio, di lasciare campo e secondi utili per pensare a Ronald Koeman, perno centrale della difesa a 3 dei catalani. L’olandese ha il tritolo nel piede destro e può coprire 60-70 metri di campo con un calcio secco e preciso, ma Boškov gli lascia comunque l’iniziativa, forse per non sfiancare Vialli e Mancini in fase di pressione. La tensione in campo è evidente, Lombardo litiga subito con un avversario, la Samp concede il possesso agli avversari ma fa una fatica enorme a ripartire. Mancini è palesemente a disagio, un suo sfogo nei confronti di un lancio di Mannini entra addirittura nei microfoni della regia internazionale e ci conferma, per l’ennesima volta, che in campo non era un leader accomodante.

Cruijff cambia parecchio nella ripresa, portando Stoickov nel cuore del gioco e confinando Laudrup in fascia. Il Barcellona spinge, costringe Pagliuca a un paio di interventi salva-partita, sembra totalmente padrone del campo. Ma la Sampdoria, come Mancini, è una squadra che sa prendersi delle lunghe pause per poi accendersi. Quando Lombardo scappa sulla destra e mette in mezzo per Vialli, astuto nel liberarsi di Koeman con una leggera trattenuta, l’urlo resta strozzato nelle gole delle migliaia di tifosi della Sampdoria presenti a Wembley: Gianluca alza troppo la mira girando verso la porta di Zubizarreta e rimane seduto in terra a ripensarci. La partita è improvvisamente viva, il palo colpito da Stoickov gela Pagliuca ma il pericolo è scampato. È in questo momento che tutto pare apparecchiato per la notte di Vialli e Mancini, anche se il migliore in campo della Sampdoria è palesemente Attilio Lombardo, contro il quale Cruijff le prova tutte, senza successo. Quando il tecnico olandese richiama Salinas per Goikoetxea, il Barça perde anche peso offensivo e la Samp diventa sempre più pericolosa. Ma la gara di Wembley è destinata a rimanere nella mente di Vialli e Mancini come l’incubo da scacciare, non come il sogno realizzato. Gianluca prima calcia forte addosso a Zubizarreta da posizione difficile, poi raccoglie una giocata finalmente illuminata di Mancini, che per tutta la gara ha faticato a trovare le pieghe della partita in cui nascondersi e colpire. È un invito apparentemente banale ma dolcissimo, Mancini accompagna la sfera che Guardiola aveva incautamente deviato all’indietro verso Vialli che in un attimo è davanti al portiere e lo aggira con un pallonetto lento. Scivola verso la porta piano, come se Gianluca avesse voluto sacrificare la potenza per dare spazio soltanto alla precisione. Il pallone ballonzola verso il palo, ma la preghiera di Vialli non viene accolta. Fuori. Il 9 blucerchiato ha un raptus di nervi, calcia con rabbia i cartelloni pubblicitari. I tifosi della Sampdoria si disperano, poi cantano, poi fanno tutto insieme, per incitare e dimenticare.

Si va ai supplementari con Boškov che ha ancora un cambio in canna (nei regolamentari ha solamente tolto Bonetti per Invernizzi) e cerca di leggere negli occhi e nelle gambe dei suoi ragazzi. Durante il primo supplementare è Vialli a lasciare il campo per Buso, un cambio che può sembrare una follia, reso però necessario dalla stanchezza fisica e mentale di Gianluca. Si arriva con la tensione a mille al minuto decisivo, allo scontro a terra tra Invernizzi ed Eusebio Sacristán. Il fischio di Schmidhuber è oggettivamente brutto e Mancini, che era arrivato a quella sfida con un pregiudizio negativo nei confronti dell’arbitro tedesco per la pessima direzione in Anderlecht-Samp, perde la testa. Non gli va a genio, il commerciante di disinfettanti di Ottobrunn. Gli urla in faccia tutto il suo disappunto, il suo disprezzo, per quello che apparentemente è un calcio di punizione come un altro. Pericoloso, certo, però non un rigore o una condanna sicura. Ma Vialli e Mancini hanno capito tutto prima degli altri, e mentre Gianluca come unico antidoto dalla panchina ha un asciugamano azzurro calato sulla testa e le mani sugli occhi, Roberto urla, sbraita, si sfoga. Cerca in ogni modo di prendere tempo, di rallentare le operazioni di Stoickov, Bakero e Koeman, di evitare che il destino già scritto si compia. È in barriera quando il pallone scagliato dall’olandese passa a una velocità insensata, si gira e lo vede entrare. Mancano nove minuti alla fine della partita, ma la Samp non ne ha più. L’occasione è sfumata, il cerchio si è chiuso nel modo peggiore per una squadra indimenticabile.

Al triplice fischio finale, il dirigente blucerchiato Arnuzzo deve fermare Mancini, che avrebbe voluto dirne ancora all’arbitro. Roberto ha un crollo nervoso, si siede a centrocampo e inizia a piangere. Le sue lacrime, quelle di Vialli, dei suoi compagni, sono quelle di un popolo intero, che pure cerca di incoraggiare i calciatori a suon di cori. Il pianto in diretta internazionale di Mancini, inconsolabile, irrefrenabile, è la fotografia della fine di un’èra. Quella della «Sampd’oro», come è stata spesso ribattezzata, ma anche di un Mancini leggero, spensierato, al quale veniva tutto naturale, tutto facile. Non dovrà portare addosso il peso di Vialli, che lascia Genova con il magone degli errori, ma gli toccherà il compito di provare a rimettere insieme i pezzi di un giocattolo che si è già rotto e che sta per sgretolarsi in mille pezzi.

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