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Stefano Piri
Roberto Baggio detto Roby
14 nov 2016
14 nov 2016
La vita, i successi, le delusioni del Divin Codino.
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Stefano Piri
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Intro. La sciarpa viola

Con le braccia abbandonate lungo i fianchi, il collo piegato in avanti, Roberto Baggio guarda il pallone e la porta della Fiorentina come un viaggiatore fissa in lontananza un rifugio irraggiungibile, un puntino sull’orizzonte mentre cala il sole e la temperatura comincia a scendere. Fa cenno di no con la testa e si allontana.

Poco prima: tra i fischi assordanti del Franchi, Baggio riceve il pallone sulla sinistra, salta un difensore della Fiorentina ed entra in area, poi ne salta un altro vincendo un rimpallo, sente la maglia tirare, si ferma di colpo e gira la testa come un ragazzino in piazza che si è sentito chiamare dalla finestra. Guarda senza emozione l’arbitro che indica il dischetto.

Poco dopo: a battere va il suo compagno di squadra De Agostini e calcia bene, di sinistro a incrociare, ma il portiere, Mareggini, è ancora più bravo e schizza a togliere la palla dall’angolino basso. A fine partita De Agostini dirà: «Baggio ha preferito non calciare», pausa. «Mi è sembrato giusto andare io sul dischetto».

Così si arriva al sessantottesimo minuto di gioco con la Juve ancora sotto di un gol all’Artemio Franchi di Firenze, e Gigi Maifredi, tecnico bianconero, decide di fare una sostituzione. Mentre Baggio esce, i fischi si affievoliscono e si mischiano agli applausi. Lui cammina vicino alla panchina con lo sguardo basso e si fa passare un giaccone troppo grande e pesante per un pomeriggio tiepido di inizio aprile. Lo indossa senza chiuderlo e a passi rapidi ma cadenzati sfila sotto la tribuna dei tifosi della Fiorentina, da cui vola un oggetto che si ferma ai suoi piedi. È una sciarpa viola. Baggio la raccoglie senza fermarsi, come se fosse caduta a lui. Continua a camminare tenendola stretta in mano. È un gesto molto elegante, un modo di indossarla meno vistoso ma più intimo che metterla al collo. Lo stadio lo acclama.

Guardatelo nelle immagini televisive, con la testa bassa e il sorriso triste di chi è abituato agli sguardi altrui e li considera una specie di dolce tormento. Guardate i fotografi che si spintonano intorno a lui, la docile riluttanza con cui Baggio lascia sbiadire tutto quanto intorno a sé e fa il giro del campo in un cono di luce virtuale. Sembra un uccello raro appollaiato su un ramo, disposto a lasciarsi avvicinare ma pronto a volare via al primo segnale di minaccia. Fissate questa immagine nella vostra mente, perché andrà sempre così nei momenti decisivi della sua carriera, in quelli belli e in quelli brutti: il mondo che scompare e Baggio da solo in mezzo a un prato verde che improvvisamente sembra fragile e insidioso come una sottile lastra di ghiaccio.

La storia collettiva che diventa storia individuale e Baggio che oscura gli altri 21 in campo e le migliaia sugli spalti, abbracciando la solitudine come una disciplina e come un vizio.

Parte I. La sfortuna non esiste

Il legame con la Fiorentina è speciale fin dalle origini: a sedici anni Baggio è un bambino - sciamano che incanta il pubblico del Vicenza, in serie C1. I biancorossi lo prendono dal Caldogno prima che abbia l’età richiesta dal regolamento per giocare partite ufficiali anche solo in Primavera, per cui per alcuni mesi Baggio partecipa soltanto agli allenamenti. Nel frattempo si rompe il menisco, ma questo non gli impedisce di esordire in prima squadra appena compiuti sedici anni e segnare subito su rigore.

https://www.youtube.com/watch?v=zm_ZlfztwiM

Con un’aureola pagana di ricci neri non ancora raccolti, i lineamenti duri, sottili, vagamente asiatici, in una stagione e mezza segna sedici gol riuscendo a non farsi azzoppare da avversari grossi il doppio di lui ma veloci la metà.
Nelle immagini filmate con una sola telecamera dalle modeste regie delle categorie inferiori lo si vede disegnare arabeschi intorno ai difensori avversari, adornare il campo palla al piede con traiettorie di corsa incomprensibili e forse irridenti, piegarsi sul pallone e prendere improvvisamente velocità quando sembra stia per perdere l’equilibrio. Si vedono difensori che cadendo si allungano disperatamente per aggrapparsi alla sua maglietta e altri che si ritraggono e provano a far finta di niente, come in un affresco del giudizio universale. Si vede Baggio partire da lontano e conquistare un rigore con la linearità di una mossa di torre a scacchi, poi lo si vede sprecare un gol a porta vuota con l’incoscienza della gioventù, solo per il piacere di aspettare il ritorno del portiere e tentare un ultimo dribbling.

Il calcio di Baggio da ragazzino è semplice in modo disarmante, come succede sempre coi predestinati e con la loro capacità di districare all’istante materie che a noi sembrano complicatissime. “Avevo solo un pensiero – ricorderà, evocando questo periodo – prendere la palla e andare dritto in porta”.
Come tutte le dimostrazioni di genio precoce, le immagini di Baggio al Vicenza contengono un elemento di mostruosità, e in una tale sorgente di bellezza spontanea, immeritata, c'è qualcosa di crudele e sconfortante.
Una parte di noi vuole che Baggio faccia un altro tunnel, ma un’altra si identifica nei difensori che si sono allenati una vita per arrivare a trent’anni e farsi prendere in giro da un bambino.

Anche facendo un ulteriore passo indietro, il racconto degli esordi di Baggio assomiglia a certe nerissime mitologie di fondazione che associamo più all’epoca del rock o delle arti che a quella sportiva (con la differenza che qui, fortunatamente, la “morte” prematura dei giovani prodigiosamente dotati non va intesa in senso letterale ma solo sportivo): “Negli allievi del Vicenza eravamo così forti che spesso a fine partita andavamo dall’arbitro a chiedergli se avevamo vinto 8 o 9 a zero. Capisci? Perdevamo il conto – racconterà nella sua autobiografia Una porta nel cielo – c’era Marangoni. C’erano i miei amici del cuore Diego Ceola e Mauro Carli. Che fine hanno fatto? Si sono rotti i legamenti del ginocchio, come me, più o meno nello stesso periodo. Purtroppo, non ce l’hanno fatta a riprendersi. Oggi Diego possiede un bar e Mauro lavora in un’officina”.

Talento locale - di Caldogno per la precisione, poco più di 10.000 abitanti, qualche chilometro a nord del capoluogo - sesto degli otto figli di Florindo e Matilde, nonostante la nomea del predestinato si divide, non ancora maggiorenne, tra lo sport agonistico e il lavoro nella carpenteria del padre. “Era un padre molto...rigido. Teneva molto all’educazione, teneva molto al rispetto, teneva molto all’onestà” ricorda Baggio con incondizionata ammirazione “Tutto il tempo che aveva lo passava a lavorare. Perché non aveva tempo di star lì a... ad ascoltare o comunque... a confrontarsi” aggiunge.
Molti aspetti della vita, della personalità e persino del vocabolario del Baggio adulto sembrano in effetti scolpiti dall’influenza di un genitore autoritario: la fissazione per il “rispetto” e per l’”umiltà”, l’orrore per la menzogna che lo porta a ripetere quasi in ogni intervista di essere una persona “schietta” e “diretta”, la severità nei confronti di se stesso, l’etica del sacrificio, l’amore per la solitudine e la natura, perfino il fatto di essersi sposato giovanissimo con una ragazza conosciuta in pratica da bambino (che è un modo di uscire presto dal nucleo familiare originario, ma senza contestazione).

Nel 1985 Baggio riceve il primo riconoscimento della carriera, il Guerin d’Oro come miglior giocatore della serie C, e la chiamata della Fiorentina. Quando viene a sapere che i “viola” vogliono farne il diciottenne più pagato d’Italia, Baggio commenta a un giornale locale: «Continuerò la mia vita, calcio e fabbrica. Spero solo che mio padre mi conceda qualche ora di riposo in più », come se non gli fosse del tutto chiaro che giocare in serie A è un lavoro a tempo pieno.

A fine campionato, però, contro il Rimini allenato da un giovanissimo Arrigo Sacchi, tenta una scivolata ma mette male la gamba destra rompendosi il crociato anteriore, la capsula, il menisco e il collaterale. Oggi sarebbe un infortunio gravissimo, ma allo stato della scienza chirurgica di quegli anni significa la concreta possibilità di non poter giocare mai più a calcio. La Fiorentina non ha ancora firmato niente e potrebbe tirarsi indietro, ma non lo fa. Paga i quasi tre miliardi pattuiti con il Vicenza e porta comunque Baggio a Firenze, prendendosi carico delle cure e della riabilitazione.

Baggio viene operato in Francia e salta tutta la prima stagione in viola per ristabilirsi. Possiamo immaginarcelo, appena diciottenne: i risvegli alla mattina presto con la testa piena di nuvole e i sensi affilati dal dolore al ginocchio, la fisioterapia e poi, col passare delle settimane, gli allenamenti in solitaria per imparare di nuovo a correre, a calciare, a scaricare il peso del corpo prima su una gamba e poi sull’altra. Secondo le testimonianze dell’epoca, per sei mesi non si fa mai vedere al campo di allenamento, in pratica non fa nemmeno conoscenza con i nuovi compagni, e se ne sta da qualche altra parte ad allenarsi furiosamente come uno scrittore indebitato rinchiuso in una mansarda in un periodo di feroce e dolente ispirazione.

Torna in campo all’inizio della campionato ‘86/’87contro la Sampdoria, in una partita che la Fiorentina vince facilmente per 2 a 0. La sua intervista nel dopopartita mostra bene il livello di frustrazione accumulato da Baggio stando fermo un anno, e fa venire voglia di abbracciarlo: “non sono abbastanza contento di me stesso” risponde seccamente a un giornalista che vorrebbe solo qualche parola di circostanza sul suo esordio in serie A. “Cosa non è andato?” chiede allora quello, spiazzato. “eh, l’ultima azione. Non ho dato il pallone a Monelli. Stavolta eravamo sul 2-0, ma magari potrei rifarlo sullo 0-0”.

Pochi giorni dopo in allenamento il menisco salta di nuovo. Forse è questo il momento in cui una zona di oscurità entra nella vita di Baggio per non uscirne mai più, colorando di una luce epica ma anche di un senso di paranoia, persecuzione e rivalsa tutti i grandi successi e le cadute che seguiranno per quasi un ventennio.
Baggio perde un’altra stagione e sprofonda in una spirale di autocommiserazione: «Avevo occhi solo per la mia sfortuna. Non guardavo nient'altro, non avevo altri interessi: esisteva solo il mio dolore». In riferimento alla vita di quel periodo ricorda: «Non avevo voglia di uscire di casa e anche se mi fosse venuta pensavo che la gente mi avrebbe giudicato male: ‘guarda Baggio, invece di curarsi si dà alla bella vita’».

Uno dei pochi amici che frequenta in quel periodo è Maurizio Boldrini, membro della Soka Gakkai, la scuola italiana del buddhismo giapponese. Dopo un breve apprendistato, Baggio si aggrappa alla nuova filosofia come un naufrago ad una tavola di legno, e attraversa un periodo di vero e proprio fervore spirituale. Prende l’abitudine, tuttora mai abbandonata, di dedicare alla preghiera l’enormità di due ore al giorno.

Sempre nell’autobiografiaracconta di essere stato sedotto dalla “rivoluzionaria” idea buddhista  che «ognuno è responsabile di quello che gli succede: tutto ciò che ti capita, è colpa o merito tuo». In realtà questa è una banalizzazione (se non proprio una distorsione) tipicamente occidentale del concetto complesso di karma, ma non è difficile capire perché un ragazzo di diciott’anni che sarebbe in grado di volare se solo gli infortuni lo lasciassero camminare sia attratto dal messaggio che non esiste la sfortuna e tu puoi controllare tutto. «Senza il buddhismo non avrei mai superato i miei problemi fisici» dirà tanti anni dopo.

Nonostante la vera e propria rivoluzione interiore che attraversa, Baggio vivrà sempre la propria adesione al buddhismo con discrezione e senza manifestazione plateali. Siamo però nel 1988, la moda delle religioni orientali è già esplosa negli Stati Uniti ma in Europa ancora no, e quindi in un ambiente prosaico e conformista come quello del calcio italiano il buddhismo di Baggio è più che sufficiente a conferirgli una notevole aura di eccentricità. A molti sembra un vezzo da divo, un capriccio da star annoiata che finisce per tracciare un’ulteriore barriera di incomprensione tra Baggio e il resto del mondo.

Roberto Baggio riesce a rientrare in campo alla penultima di campionato, giusto in tempo per partecipare da avversario alla festa del primo scudetto del Napoli di Maradona al San Paolo.
Una manciata di minuti dopo che Carnevale ha portato in vantaggio gli azzurri, il nuovo (di fatto) fantasista viola va sul pallone per calciare una punizione poco fuori dall’area di rigore. Il primo gol in serie A di Roberto Baggio è carico di suggestioni simboliche: la nascita di un nuovo immenso 10 (anche se quel giorno indossa l’11) nel giorno della grande festa del più grande numero 10 di sempre, con una parabola lenta, tagliata e paradossale, proprio come quelle che spesso nascevano dal piede di Maradona.
È facile vederci un’investitura, soprattutto considerando che da lì a cinque o sei anni quel ragazzino in completo viola con le gambe magre e i calzettoni abbassati sarà considerato l’unico giocatore al mondo capace di competere, quantomeno sotto il profilo strettamente tecnico, con le capacità stregonesche del Pibe de Oro.

https://www.youtube.com/watch?v=MUxoDJwr1wQ

Nella stagione successiva, con Sven-Goran Eriksson sulla panchina viola, Baggio finalmente può giocare da titolare in serie A senza essere tormentato dagli infortuni. Alla seconda di campionato la Fiorentina va a Milano, per il battesimo a San Siro di Arrigo Sacchi, Marco Van Basten e Ruud Gullit. Ma non sono i due olandesi a prendersi la scena.
Due minuti dopo il vantaggio viola segnato da Ramon Diaz, Baggio riceve un pallone poco oltre la metà campo, rallenta per un attimo come se dovesse raccogliere su di sé le energie che lo circondano e poi parte improvvisamente sfilando tra Filippo Galli e Ancelotti a una velocità innaturale, come una barca a vela a pelo d’acqua sospinta da un colpo di vento improvviso. Arriva quindi davanti a Giovanni Galli con largo margine, rallentando al piccolo trotto. Finge di accelerare di nuovo verso l’esterno e invece sposta il peso di colpo e salta il portiere sull’interno, una cosa difficilissima e rischiosa che però per Baggio diventerà una specie di marchio di fabbrica. Infine mette in rete con il piatto, senza fretta.

https://www.youtube.com/watch?v=0cKU3jc1vMo

Nella sua prima stagione da protagonista Baggio segna sei gol, e soprattutto conferma di possedere la grazia inafferrabile dei predestinati. All’ultima di campionato conquista definitivamente uno spazio speciale nel cuore dei tifosi viola segnando il gol del vantaggio contro la Juve al Comunale, con una frenata improvvisa in area che fa girare la testa a Bruno seguita da un preciso passante di destro.

Nel novembre successivo, contro i Paesi Bassi, Azeglio Vicini lo fa esordire con la maglia più importante della sua carriera: quella azzurra della Nazionale, con cui diventerà un’icona mondiale.

https://www.youtube.com/watch?v=NwEByMffEtE
22 aprile 1989, Italia - Uruguay, il primo gol di Baggio in Nazionale.

L’’88/’89 è l’anno della vera esplosione di Baggio, che con Stefano Borgonovo dà vita a una delle coppie d’attacco più amate della storia della Fiorentina, la B2.
Appare subito chiaro che Baggio è un giocatore unico, estremamente moderno e allo stesso tempo già classico per portamento e universalità del suo patrimonio tecnico. Il pallone si calma immediatamente quando gli arriva tra i piedi, anche se il passaggio è impreciso o troppo forte, e poi gli resta incollato addosso come se Baggio avesse imparato a camminare così. È uno di quei giocatori che sembrano provare repulsione per qualsiasi manifestazione di forza fisica sul campo, e riesce a sfilare tra gli avversari come se per loro fosse impossibile toccarlo o se lui si trovasse su un piano dimensionale diverso. Le immagini di alcune tra le sue discese sembrano la sovrapposizione di due pellicole diverse, una con gli avversari che arrancano e l’altra con Baggio che corre indisturbato verso la porta.

È, però, un giocatore molto diverso dai grandi ’10’ dell’epoca - Maradona per esempio, ma anche Platini che ha appena smesso - perché rispetto alla loro centralità nervralgica lui ha una presenza più intermittente e liminale, che gli consente di assecondare la propria naturale attrazione verso la porta avversaria. Baggio ha la tecnica di un trequartista epocale ma invece della pazienza del ragno che tesse una tela a centrocampo ha la cattiveria e la verticalità di un attaccante. Anni dopo questo gli varrà la famosa definizione (coniata proprio da Platini) di “nove e mezzo”, e darà luogo a una serie di malintesi e di contrasti con allenatori e dirigenti. Il ragazzino che fa sognare i tifosi della Fiorentina non può ancora saperlo, ma la sua unicità lo terrà per tutta la carriera in bilico sul crinale affilato tra ciò che è indispensabile e ciò che è superfluo.

L’incanto degli anni di Baggio alla Fiorentina e il suo impatto fortissimo sul calcio italiano - a livello tecnico ma anche di immaginario - possono essere riassunti in una manciata di gol che ancora oggi fanno davvero stropicciare gli occhi. Contro la Lazio nel gennaio dell’89 la Fiorentina ottiene una punizione di seconda dal limite dell’area. Baggio la tocca per Di Chiara che gliela ferma, ma sull’uscita dell’uomo in barriera Baggio invece di calciare se la tocca  ancora un po’ più in là e poi lascia partire una parabola mai vista, che gira sul secondo palo e sembra andare verso la punta delle dita di Fiori, ma per qualche motivo si alza ancora e va a baciare la faccia interna della traversa, sotto l’incrocio dei pali. La palla è lentissima ma avrebbe potuto esserlo ancora di più. L’impressione è che Fiori non avrebbe potuto farci niente nemmeno se Baggio gliel’avesse spiegata prima, nemmeno se gli avesse indicato l’incrocio dei pali o fatto un disegnino con la traiettoria.

https://www.youtube.com/watch?v=eHOPV7YPHBo

Invece all’inizio della stagione ‘89/’90, l’ultima in viola, Baggio segna un gol che se gli fosse capitato in una partita appena più importante di un primo turno di Coppa Italia contro il Licata sarebbe nella storia del calcio italiano. Su un lancio in profondità riesce a saltare il portiere con un sombrero, poi inchioda la palla a terra quasi sulla linea di fondo, fa una giravolta e con due sterzate secche manda a vuoto il ritorno del portiere e un difensore, come in uno spaghetti western in cui due mosse accennate dal protagonista bastano a mettere ko un’intera banda di fuorilegge. Poi con la punta del piede spedisce la palla in rete, superando i difensori avversari disposti sulla linea di porta praticamente come una muraglia umana.

https://www.youtube.com/watch?v=RFIvMLVCwEs
Baggio anticipa un po’ il famoso gol di Ibra ai tempi dell’Ajax.

Infine, e soprattutto, c’è quello che secondo molti resterà il più bel gol della carriera di Baggio (e credetemi, la competizione è dura) segnato contro il Napoli il 17 settembre dell’89. Baggio riceve palla praticamente al limite dell’area viola, e si lancia in un coast-to-coast paragonabile a quello famosissimo di Weah contro il Verona o agli “Undici Tocchi” di Maradona. Per una ventina di metri conduce la palla con il collo esterno del piede, riuscendo a mantenere una velocità maggiore degli avversari in corsa libera. Poi rallenta, coccola il pallone con l’esterno e salta secco Renica con una frustata verso destra, sterzando subito dopo per sfilare tra Ferrara e la disperata scivolata di Corradini. Solo davanti a Giuliani, lo salta nascondendo la palla con l’interno e poi procede a passettini come se volesse entrare in porta col pallone. Infine se lo sistema sul destro e insacca nell’angolino.

https://www.youtube.com/watch?v=6NKgSpfeSuA

Proprio come Maradona contro l’Inghilterra, Baggio sembra l’unico con le scarpe mentre gli altri provano a correre scalzi sulle uova o qualcosa del genere. Dall’alto la sua discesa è irregolare ma fluida, come quella di una goccia d’acqua sulla condensa.

Alla fine della stagione ‘89/’90 ha Firenze ai suoi piedi. Ha segnato quasi venti gol nonostante il campionato mediocre della squadra, e ha fatto brillare gli occhi degli appassionati di calcio di tutta Europa nella cavalcata che ha portato la Fiorentina alla finale di Coppa Uefa, persa con gli eterni rivali della Juve.

https://www.youtube.com/watch?v=1zyd6JcUNHc
Nella finale di andata la Juve segna un gol chiaramente irregolare,
e subito dopo Baggio (già chiacchieratissimo) fallisce l’occasione
del pari. Al ritorno sbaglierà un altro gol. Prima delle finali aveva
chiesto pubblicamente alla società viola di ‘smentire certe voci di
mercato’, ma la sua richiesta era rimasta inascoltata.

Non è la prima estate in cui il giovane fantasista è al centro delle attenzioni delle grandi squadre italiane (che all’epoca è un po’ come dire delle migliori squadre europee). Un anno prima l’Inter aveva provato a portarlo a Milano senza successo, e già nel ’88 il conte Pontello, proprietario della Fiorentina, aveva in qualche modo presagito che non sarebbe stato semplice trattenerlo: «Baggio se vuole può firmare a vita ma quando vuole parlare di soldi, mi raccomando, deve venire da solo».

Appunto: nel 1990 Antonio Caliendo è più o meno ciò che oggi è Mino Raiola. Di più: è colui che ha inventato la professione, facendo firmare nel 1977 la prima procura di un calciatore a un agente nella storia del calcio italiano. Il calciatore, allora appena diciassettenne, era Giancarlo Antognoni, e il luogo della firma, naturalmente, Firenze.

Tredici anni dopo Caliendo è il più importante procuratore italiano, e un talento epocale come Roberto Baggio finisce quasi fatalmente nella sua scuderia. Proprio come Raiola, Caliendo sa di non poter tenere in conto i sentimenti dei tifosi, e dopo una trattativa mai del tutto sbocciata col Milan inizia a parlare di Baggio proprio con i più acerrimi rivali della viola. «Faremo di tutto per portare Baggio alla Juventus» dice l’avvocato Agnelli a un gruppo di tifosi. «Baggio è nostro al 51%» aggiunge qualche giorno dopo, vidimando poi la dichiarazione con la smentita di rito. Infine, con la consueta verve immaginifica: «Baggio è uno di quei giocatori che non vogliamo far invecchiare».
In uno strano gioco di eco, Caliendo invece non fa nomi ma tira fuori le cifre: «Una grande squadra è pronta a pagare 25 miliardi» dichiara.

E Baggio? La sua prima reazione è insolitamente drastica per un professionista, soprattutto in rapporto a quella che per il momento è solo una voce: «non se ne parla, sono sicuro di restare alla Fiorentina».
I tifosi però sono inquieti, e lanciano una campagna di sottoscrizione straordinaria degli abbonamenti per trattenere il loro idolo. Il fermento è tale che dice la sua persino Cecchi Gori, all’epoca tutt’al più indicato da qualche fantasioso giornalista come potenziale futuro acquirente della Fiorentina: «Vogliono che compri la Fiorentina per salvare Baggio, ma quello non lo salva più nessuno».

Lo strappo arriva il 18 maggio, quando Caliendo convoca una conferenza stampa e annuncia: «Baggio è un giocatore della Juventus». I tifosi fiorentini si riversano nelle strade, si scontrano con la polizia, lanciano sanpietrini e vengono dispersi coi lacrimogeni. Una reazione fuori scala almeno quanto lo sono, rispetto agli standard dell’epoca, le cifre del trasferimento: pagato 18 miliardi più il cartellino di Renato Buso, Roberto Baggio diventa il calciatore più costoso di sempre.
Lui appare sballottato e ombroso come capita spesso ai calciatori coinvolti in questi trasferimenti-caso, e sembra preoccupato soprattutto di proteggere il proprio talento dal rumore e dai pettegolezzi. Alla prima conferenza stampa da giocatore della Juve, però, gli passano una sciarpa bianconera e lui la rifiuta, in un’anticipazione del gesto opposto con cui qualche mese dopo raccoglierà la sciarpa viola al Franchi. L’ autolesionismo qui è quasi poetico: Baggio sceglie di mostrare rispetto a una tifoseria che comunque lo considera un traditore, a rischio di inimicarsi i suoi nuovi tifosi. Se ne possono trarre varie conclusioni, incluso il sospetto che la lungimiranza non rientri nel novero delle qualità del nostro, ma anche questo aneddoto ripropone l’elemento ricorrente di questa storia: Baggio non ha paura di restare solo.

Nessun contrasto con i tifosi potrà comunque allentare il suo legame con la Fiorentina, a cui tantissimi anni dopo renderà omaggio scegliendo un aggettivo che mi pare bellissimo: “Il Baggio che avete visto a Firenze” dirà dopo essersi ritirato “è stato il più puro”

Parte II. Notti magiche

“Ai mondiali vado ancora da giocatore della Fiorentina” dice Baggio, dopo che il suo trasferimento alla Juve è diventato ufficiale.
Nel 1990 il calcio italiano è il più bello e competitivo al mondo con un distacco a cui oggi né quello inglese né quello spagnolo possono aspirare. Tutti o quasi i grandi campioni dell’epoca giocano in Italia, e il programma del mondiale trabocca di incroci geografici e sportivi pieni di fascino: l’Olanda dei tre milanisti contro la Germania dei tre interisti a San Siro, l’Argentina di Maradona a Napoli nel girone e poi di nuovo in semifinale contro l’Italia, in un contesto che non ha ancora finito di generare polemiche.

L’Italia di Vicini non ha forse l’assortimento di fuoriclasse del Brasile, della Germania o dell’Argentina ma è di diritto tra le favorite, perché gioca in casa e per il gioco divertente ed efficace mostrato solo due anni prima con un gruppo molto simile agli Europei di Germania.
Baggio arriva all’appuntamento da riserva di lusso, e in condizioni psicologiche e ambientali molto difficili. Al ritiro di Coverciano, a pochi chilometri da Firenze, lo portano su una volante. «Ero circondato dal risentimento di quelli che avrei voluto fossero ancora i miei tifosi». Nelle prime due partite contro Austria e Stati Uniti, mentre Vicini insiste su Vialli e Carnevale, e Schillaci da subentrante inizia a incidere il proprio nome sulle “notti magiche”, Baggio non si alza nemmeno dalla panchina.

Il 19 giugno 1990, quando l’Italia all’Olimpico di Roma incontra la Cecoslovacchia in una partita ormai pressoché inutile ai fini della qualificazione, diventa però imprevedibilmente la data di inizio della leggenda mondiale di Roberto Baggio. Dopo 78 minuti giocati così così, per sua stessa ammissione con le gambe molli per l’emozione, Baggio riceve palla da Giannini prima della linea di metà campo, defilato a sinistra, spalle alla porta. La controlla, si gira e dopo un’occhiata alla metà campo avversaria restituisce subito palla al capitano della Roma, quasi con deferenza. Giannini però crede nel suo movimento anche più di lui, e lo serve di nuovo in profondità di prima.

Baggio riceve col sinistro, e quando accelera piegandosi lievemente verso destra è come se il campo si inclinasse di colpo. La palla sembra procedere attaccata al piede di Baggio per volontà propria o per gravità, e il primo ad accorgersi che sta per succedere qualcosa di eccezionale è il mediano cecoslovacco Hašek, che a trenta metri dalla porta si lancia in una scivolata disperata, come se presagisse che superata quella soglia non ci sarà più modo di interrompere l’azione. Baggio non sembra nemmeno accorgersi degli ottanta chili di Hašek che piombano da dietro di lui contro le sue caviglie: senza cambiare velocità e senza smettere di guardare davanti a sé fa un saltino, evitando l’intervento e continuando a puntare la porta avversaria. Tra lui e il portiere resta il terrorizzato Kadlec, che continua ad arretrare a passettini convulsi senza avere idea di cosa fare.
Baggio gli piomba addosso, con le gambe che sembrano incrociarsi e saettare come pulviscolo in controluce, poi finge di andare a sinistra ma con un passo da milonguero cambia direzione, aprendosi lo spazio per spiazzare Stejksal con un destro secco.

https://www.youtube.com/watch?v=GSD-yOO1uMc
“In campo mi è sembrato un gol bellissimo – dirà anni dopo in un’intervista –
ma quando l’ho rivisto da fuori... dài...normale... (sorriso tirato) Guarda che non lo dico per... A volte penso che avrei potuto fare di più. Saltare il portiere ad esempio.
Allora il gol sarebbe stato completo”

I gol così segnati ai mondiali sono rari come diamanti, e segnano un’epoca. L’indomani Repubblica titola enfaticamente: “È nato il genio che ci farà felici”. Baggio concede: «È il gol più importante della mia carriera. Una specie di liberazione». E in effetti la carriera di Baggio cambia per sempre: con questo gol si apre un arco di quattro o cinque anni (approssimativamente da Italia ‘90 a USA ‘94) in cui Baggio accede ad un livello di fama diverso da quello strettamente sportivo e diventa una vera e propria star mondiale. Il mondo da noi italiani si aspetta una manciata di cose tra cui la bellezza e l’estro, e l’artista minuto che scivola in maglia azzurra tra gli energumeni cecoslovacchi come in una danza rituale ha un impatto fortissimo sull’immaginario collettivo. Il codino di Baggio diventa un simbolo globale di grazia con una punta di leziosità, e il suo nome e la sua faccia sono impossibili da ignorare anche per chi non sa niente di lui nello specifico, come quelli di Michael Jordan o di Bono Vox.

Agli ottavi contro l’Uruguay e nei quarti contro l’Irlanda Baggio è confermato titolare con Schillaci, e continua a increspare il campo con ondate di puro talento, come la discesa che porta al gol decisivo di Schillaci contro gli irlandesi. In semifinale contro l’Argentina però, con una scelta che non gli verrà mai perdonata, Vicini restituisce la maglia da titolare a Vialli. Il resto è storia nota: il pareggio nei tempi regolamentari, Baggio che entra a un quarto d’ora dalla fine e nei supplementari sfiora il gol su punizione, fa espellere Giusti, mette il panico alla difesa albiceleste con un paio di serpentine delle sue, e poi segna anche il suo rigore. Ma non basta, e l’Italia viene eliminata.

Nella finalina contro l’Inghilterra Baggio fa ancora in tempo a dare un saggio della sua distanza glaciale in area di rigore, rubando palla al portiere e poi depositando in rete dopo un dribbling secco quasi sulla linea di porta.

Parte III. Tutte le strade portano a Pasadena

Baggio arriva quindi alla Juve da eroe di un’impresa incompiuta, e per un paio di stagioni rimane intrappolato nello stesso schema. Il suo impatto in bianconero è devastante fin da subito (al netto di incomprensioni coi tifosi come quella del Franchi con cui ho aperto questo pezzo) ma dobbiamo ricordarci che la Juventus in cui approda Baggio non assomiglia a quella di oggi in quasi nulla, se non nel lignaggio. Incapace di vincere lo scudetto per cinque anni, frastornata dai colpi del Napoli di Maradona e del Milan di Berlusconi, la Juve cerca in Baggio l’elemento decisivo per colmare il gap dalle avversarie, ma non riesce per il resto a costruire una squadra all’altezza. Per capire il punto da cui parte l’avventura di Baggio in bianconero basta prendere il suo esordio assoluto, in Supercoppa italiana, quando la Juve viene letteralmente maltrattata dal Napoli di Maradona che le rifila cinque gol. L’unica marcatura bianconera la segna Baggio su punizione, rispondendo poi alla maliziosa domanda di un giornalista a fine partita: «Nessun messaggio a Maradona. Ha vinto di nuovo e tutti i complimenti vanno a lui».

La Juve di Maifredi continuerà su questa falsariga fino a fine stagione: prestazioni mediocri o addirittura deprimenti punteggiate dai colpi di genio estemporanei di Baggio, che palleggia in mezzo a quattro o cinque giocatori del Pisa o che danza nell’area del Parma prima di spedire un pallone a giro sotto l’incrocio dei pali. In campionato segna 14 gol, mentre in Coppa delle Coppe ne fa addirittura 9 in 8 presenze, l’ultimo dei quali è una splendida punizione in semifinale contro il Barcellona che però non basta ad evitare l’eliminazione.

Senza titoli e con un settimo posto in campionato che la esclude dalle coppe, per il ‘91/’92 la Juve esonera Maifredi e richiama Giovanni Trapattoni, l’allenatore dell’ultimo scudetto. La musica cambia e la Juve riesce ad arrivare seconda, sia pure lontanissima dal super Milan di Fabio Capello. Baggio segna 18 gol e in un certo senso sale ancora di un gradino: se l’anno prima è stato un grande attore che recitava in una pièce scritta e diretta malissimo, adesso il livello della sua interpretazione è tale da nascondere i difetti della struttura e valere da solo il prezzo del biglietto. Nella seconda metà del torneo trascina la squadra segnando in pratica un gol a partita, ma soprattutto dà mostra di una tecnica c

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