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Stefano Piri
Roberto Baggio. Avevo solo un pensiero
10 mar 2020
10 mar 2020
Un estratto del libro scritto da Stefano Piri per 66th and 2nd.
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Stefano Piri
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«Vieni a vedere come sto giocando» dice Roberto Baggio seduto su una panchina dello spogliatoio di San Siro, richiamando l’attenzione di un cameraman. «Guarda qua, eh? Si vede bene? Bisogna vedere il liquido che c’è qua, eh? Si vede?» dice premendo con le dita a destra della rotula, per spingere il rigonfiamento sottopelle verso il lato opposto. Poi sorride alla telecamera con una strana soddisfazione. Non sembra già più un calciatore, ma nemmeno un ex: ha l’aria di certi quarantenni al calcetto del mercoledì, quelli in splendida forma fisica ma con lo scaldacollo e un tutore al ginocchio, che giocano cinquanta minuti con aria concentrata e malinconica evitando i contrasti e segnando un paio di gol molto belli, e poi tornano a casa con la borsa nel portabagagli della familiare, senza fermarsi a fare la doccia coi compagni. Solo che lui non è un quarantenne qualsiasi, è Roberto Baggio, e anche se in campo scenderà il Milan campione d’Italia – e forse la squadra più forte del mondo – il cameraman è lì apposta per lui, per immortalare ogni istante dell’ultima volta che il numero 10 più amato della storia del calcio italiano infila le scarpette e gioca una partita ufficiale in uno stadio, circondato da altri ventuno professionisti.

 

In fondo tutta questa malinconia non è intonata a una delle carriere più belle che conosciamo, e Baggio invece che gettarci in faccia la sua sofferenza potrebbe continuare a recitare come ha fatto altre 452 volte – contando solo le presenze in Serie A –, scendere in campo e tenere il pallone incollato ai piedi, sentire lo sguardo di 55.000 spettatori su di sé e poi toglierselo di dosso con un lancio che attraversa il campo, per finire in uno scroscio di applausi sui piedi di un compagno. Il dolore non si vede, dagli spalti, e anche le regie televisive di solito non ci si soffermano. Nessuno saprebbe mai come sta Roberto Baggio, nessuno penserebbe al dolore in quel pomeriggio primaverile di festa, se Baggio non dicesse a quel cameraman «vieni a vedere come sto giocando», e se con le dita non tormentasse il suo stesso ginocchio come un giocattolo rotto.

 

Prima e dopo la partita i campioni in maglia rossonera lo abbracciano uno per uno, ridono, gli stringono le mani: c’è Maldini con l’aria da tennista, Seedorf che sembra già in spiaggia, Rui Costa col solito ghigno divertito e annoiato. Quello stadio è importante per Baggio, e non solo perché ci ha giocato con le maglie di entrambe le squadre della città. Diciassette anni prima, quando ancora non c’era il terzo anello, i palloni erano più pesanti e il portiere poteva prenderli con le mani sui retropassaggi, Baggio ha segnato a San Siro il primo gol realmente sensazionale della sua carriera, uno di quelli che restano nella sua top 5. Era il 20 settembre 1987 e l’avversario era un altro Milan leggendario, il primo di Sacchi, che aveva appena fatto spese in Olanda portandosi a casa Gullit e Van Basten. Baggio aveva vent’anni, ma era appena riemerso da una voragine di oscurità e interventi chirurgici durata due anni, e finalmente iniziava una stagione in condizioni di relativa integrità fisica, con un numero 10 cucito sulla maglia della Fiorentina importante soprattutto come testimonianza del fatto che era in grado di scendere in campo dall’inizio, nei primi undici.

 

Con un groviglio di ricci neri che sembra più pesante di lui, due minuti dopo il vantaggio viola segnato da Ramon Dìaz Baggio si trova a gestire un contropiede all’altezza della lunetta di centrocampo. Avanza palla al piede senza fretta, ma a una velocità tale per cui i due centrali del Milan che lo affrontano correndo all’indietro faticano a mantenere l’equilibrio. Dìaz incrocia la traiettoria di corsa aprendosi uno spazio verso la porta, ma Baggio invece di passargli la palla fa qualcosa di incredibile. Accelera ancora, di colpo, e sfila tra i due impotenti centrali del Milan come sospinto da un colpo di vento improvviso. La sua velocità di corsa palla al piede è forse doppia rispetto agli avversari in corsa libera, tanto che Baggio arriva davanti a Giovanni Galli in perfetta solitudine: sembra quasi sul punto di voltarsi indietro a controllare il vantaggio come i ciclisti in fuga sul rettilineo del traguardo, potrebbe superare Galli in velocità sull’esterno e invece lo fa con un passetto a rientrare, quasi masticando il pallone, che poi deposita nella porta vuota. Da ragazzino per lui il calcio era semplice, racconterà diverse volte, si trattava solo di prendere la palla e andare diritto in porta. Quel giorno ci è riuscito, in Serie A, contro il Milan dei giganti.

 

Diciassette anni dopo Roberto Baggio è diverso al punto che tutto San Siro, intorno a lui, sembra governato da altre leggi fisiche. L’utopia lineare da cui è partita la sua carriera, quella di arrivare in porta per la via più breve, oggi farebbe sorridere lui per primo. Per colpa delle ginocchia e dell’età è come se in diciassette anni il campo avesse lentamente e inesorabilmente invertito la propria pendenza. Nell’87 per lui il prato di San Siro sembrava in lieve discesa, invece oggi, 16 maggio 2004, mentre il proverbiale codino ormai ingrigito gli rimbalza sulle spalle come una sciarpa annodata male, sembra in salita.

 

Ma Baggio è un genio di questo sport, e non uso questa parola con leggerezza: quando correre più veloce degli altri è diventato impossibile, si è semplicemente concentrato sul far correre la palla, ed è riuscito a stravolgere i fondamenti del proprio gioco – un gioco che gli era valso un Pallone d’Oro e un Mondiale quasi vinto da solista, tra le altre cose – senza sforzi apparenti.

 

Il fisico di Baggio si è trasformato, perché come molti giocatori tormentati dagli infortuni per proteggere le articolazioni ha dovuto mettere su una massa muscolare che non c’entra niente con la sua complessione originaria, e gli dà un’aria appesantita e impacciata. Ma anche nel giorno della sua ultima partita riesce a entrare in tutte le azioni pericolose di un Brescia che perderà 4-2. Nel primo tempo porta palla fino al limite dell’area del Milan col suo nuovo stile di corsa con le ginocchia rigide, e poi serve sulla destra un assist che un suo compagno spreca malamente.

 

Alla fine del primo tempo c’è un calcio di punizione per il Brescia forse cinque metri fuori dall’area di rigore, un po’ decentrato sulla sinistra. Insomma, sulla zolla ideale di Baggio, quella su cui avrebbero potuto posizionare apposta il pallone per fargli tirare l’ultima punizione se si trattasse di un addio al calcio informale e non di una partita ufficiale di Serie A. L’ovazione di attesa del pubblico è troppo piena per pensare che a farla vibrare siano solo le voci dei tifosi del Brescia: alcune migliaia di milanisti incitano Baggio e sperano che il giorno della loro festa scudetto resti memorabile anche per un ultimo capolavoro del fuoriclasse avversario. Baggio prende una rincorsa essenziale, in faccia ha un’espressione concentrata e spiccia, fa quattro passetti rapidi e calcia d’interno, non molto forte ma abbastanza per superare la barriera e poi Abbiati. La palla però bacia alla perfezione la faccia in luce del palo, rimbalza in campo e viene spazzata via. La regia purtroppo non inquadra l’espressione di Baggio ma scommetto che sta sorridendo sardonico. Non ha mai avuto grande fortuna nei momenti-cartolina, tutto sommato questo non si avvicina nemmeno ai peggiori che gli sono capitati (non so se avete presente).

 

Nel secondo tempo Baggio riesce anche a duettare con Matuzalém per il secondo gol del brasiliano, in una serie di palleggi al limite dell’area del Milan elegantissima ma quasi pigra, con ben due passaggi all’indietro, un po’ da allenamento o da calcio d’agosto.

 

A cinque minuti dalla fine De Biasi sostituisce Baggio con Colucci, per la standing ovation che tutti aspettavano. Lo stadio lo invoca, Baggio alza le braccia accennando un sorriso, abbraccia a lungo Maldini che sembra proprio il genere di persona che vorresti abbracciare in un momento del genere, e poi esce dal campo. Sfila lungo la panchina del Milan, piegandosi per salutare Kaladze e poi Pirlo ma soprattutto per godersi ancora un po’ lo stadio che inneggia al suo nome per l’ultima volta.

 

Dopo la partita una telecamera lo insegue negli spogliatoi, luogo dove una decina di anni dopo Sky riuscirà a piazzare telecamere praticamente anche sotto le docce ma che nel 2004 è ancora generalmente off-limits. Baggio si è cambiato e ora indossa un bomber e una specie di baschetto con la visiera all’indietro, un look che non può nemmeno essere definito tamarro perché non comunica neppure esuberanza kitsch, un look talmente brutto che in questo momento è semplicemente commovente, perché ci trasmette l’immagine di un uomo che fuori dal campo è del tutto fuori posto. Per i saluti televisivi viene indirizzato allo spogliatoio del Milan, e quando nell’inquadratura compaiono Galliani e Berlusconi prima di tutto le loro immagini ci ricordano una cosa banale che a questo punto avevamo quasi dimenticato: in termini assoluti Baggio è un uomo ancora giovane. Gli mancano tre anni per compierne quaranta e sembra intimidito e disarmato di fronte all’efficienza spietata e ridanciana di questi due anziani che sanno tutto della vita: gli ripetono una volta per uno in pubblico un’offerta che evidentemente Baggio ha già rifiutato in privato, quella di partecipare a una tournée estiva col Milan, e costringono Baggio a rifiutare di nuovo davanti a tutti, mettendolo chiaramente a disagio. Ma riescono a conservare un’aria soddisfatta di sé, come se si trattasse di un’offerta molto generosa da parte loro, anche se a pensarci bene non si capisce perché dovrebbe esserlo. Galliani forse percepisce lo spiazzamento di Baggio e allora per buttarla sullo scherzo dice una cosa spiritosa che in realtà a me sembra in assoluto la cosa più irrispettosa che si possa dire a un monumento vivente nel giorno del suo ritiro: «Se vuoi venire al Milan a fare la terza mezzapunta, magari riesci a rubare il posto a Kakà». Baggio riesce a sorridere, mettendo ammirevolmente in pratica quasi vent’anni di osservanza buddista.

 

Insomma, un addio emozionante ma anche in qualche modo mitigato dalle tante retoriche in azione, come del resto quello di un mese prima alla Nazionale, al Ferraris di Genova, quando Trapattoni – lo stesso allenatore che non aveva voluto Baggio ai Mondiali di Giappone e Corea 2002, infliggendogli la peggiore delusione dalla carriera, e naturalmente non l’aveva mai convocato dopo – gli aveva concesso una passerella d’addio nel mezzo della girandola di cambi di un’amichevole con la Spagna le cui sole ragioni di permanenza negli annali risiedono appunto nell’addio di Baggio e nel primo gol in maglia roja del niño Fernando Torres.

 

A rovesciare le retoriche senza bisogno di alzare la voce, come del resto ha fatto per tutta la carriera, sarà Baggio stesso, che tornerà più volte sul momento del suo addio definendolo «una liberazione». Una liberazione dal dolore fisico, certo, perché come racconta sua moglie Andreina nelle ultime stagioni al ritorno a casa dopo le partite col Brescia Baggio non riusciva nemmeno a scendere dalla macchina. Ma anche una liberazione spirituale: lo dimostra negli anni successivi la decisione di allontanarsi dal mondo del calcio, e di rientrarci solo dopo molto tempo per presentare alla Federazione un gigantesco progetto di riforma radicale, che sarà naturalmente ignorato.

 

Del resto la solitudine e l’incomprensione sono state due costanti della carriera di Baggio, e probabilmente hanno pesato almeno quanto i gol e le giocate nel tracciare la mappa sinaptica della sua straordinaria popolarità in un paese dove tutti si sentono geniali e misconosciuti.

 

La carriera di Baggio, uno degli ultimi veri predestinati del nostro calcio, uno che mentre veniva bocciato in seconda media aveva addosso gli occhi degli osservatori di tutta Italia (e parliamo di quasi mezzo secolo fa, quando le reti dello scouting non erano certo capillari come adesso), è iniziata come una linea retta, quella che lui immaginava di poter tracciare verso la porta avversaria ogni volta che la palla gli capitava tra i piedi. E si è svolta invece come un percorso tortuoso, con abissi di dolore eccessivi per una vicenda sportiva – «se mi vuoi bene uccidimi» disse Baggio nemmeno ventenne alla madre, avendo appena visto la forma mostruosa e tumefatta che aveva preso la sua gamba destra dopo la seconda operazione chirurgica – e improvvisi squarci di rivalsa, meravigliosi e abbaglianti come lampi in una notte senza stelle.

 

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