Pubblichiamo un estratto da "La diplomazia del pallone. Storia Politica Dei Mondiali Di Calcio (1930-2022)" a opera di Nicola Sbetti e Riccardo Brizzi ed edito Le Monnier per la Collana Quaderni di Storia.
Il 1974 fu un anno cruciale in quanto si svolsero delle elezioni presidenziali il cui esito comportò una radicale svolta politica e culturale nella storia della FIFA. Nonostante l’età il quasi ottuagenario presidente uscente Rous aveva deciso di ricandidarsi e il brasiliano João Marie Faustin Godefroid de Havelange, di vent’anni più giovane, aveva deciso di sfidarlo.
Fin dall’infanzia Havelange aveva sviluppato la passione per lo sport ed era stato un atleta di buon livello, al punto che partecipò sia alle Olimpiadi di Berlino 1936 nel nuoto, sia a quelle di Helsinki 1952 nella pallanuoto. Lavorando nell’azienda d’armi del padre, aveva affinato le proprie capacità imprenditoriali e, dopo la seconda guerra mondiale, era riuscito ad affermarsi a sua volta come imprenditore ma soprattutto come dirigente sportivo di livello nazionale, al punto da essere eletto presidente della CBD. Al contrario di Rous, che fece poco o nulla per ottenere il successo, Havelange impostò la propria campagna elettorale in maniera itinerante e senza badare a spese. Poiché l’elezione si basava sul principio che ogni federazione avesse diritto a un solo voto al di là del suo peso e della sua tradizione calcistica, fin dal 1971 il brasiliano cominciò a girare il mondo; visitò 86 Paesi e incontrò personalmente i presidenti delle varie federazioni, suoi potenziali elettori, concentrandosi però su quelli africani, asiatici e caraibici. Pur partendo da una posizione di svantaggio, Havelange trasse indirettamente beneficio dal prestigio globale del calcio brasiliano acquisito con le vittorie ravvicinate ai Mondiali del 1958, 1962 e 1970. Soprattutto colse molto meglio di Rous le trasformazioni geopolitiche ed economiche in atto nel calcio internazionale e riuscì a raccogliere intorno alla sua candidatura molti scontenti. In primo luogo si assicurò il sostegno delle federazioni latinoamericane che, al di là della vicinanza politica e culturale, non dimenticavano come la FA e la critica inglese avessero trattato le delegazioni sudamericane nel 1966. Dopodiché strinse un’alleanza con le federazioni dei Paesi emergenti – sia politicamente che calcisticamente – dell’Africa e dell’Asia, che da tempo reclamavano un maggior riconoscimento nella FIFA ed erano molto critiche con Rous per le sue posizioni ambigue nei riguardi delle questioni sudafricana e cinese. Infine seppe avvicinarsi anche al blocco sovietico, dopo il rifiuto opposto nel 1973 dai vertici di Zurigo alla richiesta sovietica di affrontare il Cile in campo neutro e non nello «stadio delle torture». Di conseguenza il suo programma elettorale, costituito di otto punti legati a molte delle istanze di questi «blocchi» elettorali, si concentrò su tre grandi questioni: 1) l’espansione e la creazione di competizioni FIFA; 2) l’implementazione dell’amministrazione e delle strutture della FIFA; 3) gli «aiuti allo sviluppo» del calcio per le federazioni bisognose.
Le federazioni tuttavia non erano le sole a guardare con interesse alle elezioni presidenziali del 1974. Le grandi corporations – specie a seguito dell’avvento della televisione e sulla scia di quanto stava avvenendo negli Stati Uniti, con la commercializzazione delle leghe dei principali sport di squadra – mostravano un crescente interesse, non solo nei confronti dello sport ma anche della possibilità di allacciare rapporti esclusivi con le sue istituzioni internazionali. Horst Dassler, il figlio del fondatore di Adidas, aveva meglio e prima di altri compreso come il supporto dei vertici delle istituzioni sportive internazionali potesse essere un grimaldello fondamentale per conquistare fette di mercato ancora inesplorate. Benché inizialmente collaborasse già con Rous, in occasione delle elezioni del 1974 sostenne strategicamente anche Havelange, intuendo che il brasiliano potesse essere più disposto dell’inglese ad aprire la FIFA alla commercializzazione.
La vittoria di Havelange fu dunque la diretta conseguenza della crescente insofferenza nei confronti del dominio eurocentrico del calcio, nonché della pressione delle forze commerciali. Divenuto il primo presidente non europeo della FIFA, Havelange coltivò la piattaforma «terzomondista» che lo aveva eletto attraverso politiche distanti da quelle eurocentriche dei suoi predecessori. Innanzitutto introdusse per le federazioni più povere gli aiuti allo sviluppo che, pur rivelandosi nel lungo periodo una fonte di corruzione e di clientelismo, contribuirono indubbiamente alla diffusione e alla crescita sempre più globale del calcio. In secondo luogo creò i tornei giovanili, inaugurati con il Mondiale under 20 in Tunisia del 1977, per permettere anche a quei Paesi che per dimensioni e capacità non avrebbero potuto organizzare un Campionato del mondo senior di essere protagonisti. Infine, a partire dall’edizione del 1982, mantenendo la sua promessa elettorale, allargò il Mondiale a 24 squadre aumentando così le possibilità di partecipazione per le compagini africane, asiatiche e centroamericane. Per sviluppare una politica espansiva di questo tipo era tuttavia necessaria una quantità di risorse che andava ben al di là delle possibilità della FIFA. Fu a questo punto che il legame personale stretto con Dassler si rivelò decisivo. L’intermediazione del tedesco portò infatti alla conclusione di un accordo storico con CocaCola. Era infatti la prima volta che una compagnia commerciale si legava, non a un atleta, non a una squadra, ma – attraverso la sua federazione internazionale – a un intero sport. Si trattava del resto di una win-win situation in quanto, se da un lato l’impresa di Atlanta veniva associata a uno degli sport più popolari e diffusi al mondo offrendo ai suoi prodotti la possibilità di espandersi in nuovi mercati, dall’altro assicurava alla FIFA quegli introiti necessari ad Havelange per concretizzare le sue promesse elettorali. La sponsorizzazione di Coca-Cola, anche alla luce del suo elevato profilo nel mondo commerciale, diede inoltre credibilità al progetto e servì da modello per nuovi accordi. Non a caso già alla vigilia dei Mondiali in Argentina del 1978 la FIFA poteva contare su sei sponsor principali fra cui, oltre alla Coca-Cola, anche Seiko e Gilette. Il tutto andò anche a vantaggio di Dassler, che riuscì ad affermarsi come una sorta di «eminenza grigia» nella FIFA, la quale negli anni avrebbe affidato in appalto all’International Sport and Leisure (ISL) – una compagnia specializzata nella commercializzazione degli spettacoli sportivi e nella intermediazione, fondata nei primi anni Ottanta proprio da Horst Dassler, con il supporto del britannico Patrick Nally – la gestione delle operazioni di marketing e dei diritti televisivi. Havelange fu certamente l’uomo immagine della radicale trasformazione in senso commerciale a cui andarono incontro la FIFA e tutto il calcio internazionale, però non ne fu il traino. Piuttosto, non senza una certa abilità e spregiudicatezza, si fece utilitaristicamente portavoce di quelle forze economiche, già presenti nel calcio, che grazie alla possibilità di un accordo esclusivo con la FIFA miravano a migliorare la propria posizione sul mercato. La sua presidenza paradossalmente si fece allo stesso tempo portatrice degli interessi politici e culturali delle nazioni «terzomondiste» e di quelli economici delle multinazionali commerciali, ancorati nel cuore dell’Occidente capitalistico.
Il crescente successo del calcio a livello globale, nonché la sua profittabilità economica, provocò tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta un’autentica esplosione di brevi competizioni, spesso una tantum, non sempre direttamente legate alla FIFA, che rispondevano ad esigenze celebrative, commerciali e talvolta politiche. È il caso del Torneo del bicentenario svoltosi negli Stati Uniti nel 1976 con la partecipazione delle nazionali brasiliana, inglese e italiana e di un «Team America» formato da tutti i giocatori, inclusi Giorgio Chinaglia, Bobby Moore e persino Pelé, che militavano nel campionato statunitense. Sempre con lo scopo di promuovere il calcio in un Paese cricket ed hockey centrico, nel 1982 in India si disputò la prima edizione della Nehru Cup, inaugurata dalla prima ministra Indira Gandhi, alla quale parteciparono, in ordine di piazzamento finale: l’Uruguay, la Cina Popolare, la Corea del Sud, l’Italia olimpica, l’India e la Jugoslavia B. Nel frattempo nell’inverno fra il 1980 e il 1981 in Uruguay era stata organizzata la Copa de Oro de Campeones Mundiales, un torneo riservato al ristretto club delle squadre vincitrici di almeno un’edizione del Mondiale, ma poi allargato all’Olanda data la rinuncia dell’Inghilterra. In Italia la memoria di quel «Mundialito» è soprattutto legata all’acquisto, per la prima volta, dei diritti di trasmissione da parte di un’emittente privata, Canale 5, ma per gli organizzatori uruguaiani la competizione ebbe anche altri significati politici. La AUF era infatti desiderosa di riemergere dal suo declino calcistico, mentre il governo autoritario di Aparicio Méndez era alla ricerca di quel consenso che, come dimostrò anche l’esito del referendum costituzionale perso proprio alla vigilia del torneo, stava venendo meno.
La seconda metà degli anni Settanta vide anche l’ascesa, finanziata dai petrodollari, dei Paesi del golfo Persico; una presenza destinata a diventare sempre più rilevante nell’arena calcistica non tanto forse sul piano calcistico, quanto piuttosto su quello economico. In questo senso il 1977 – quando Don Revie preferì il contratto quadriennale da 340.000 sterline per allenare gli Emirati Arabi Uniti, abbandonando la prestigiosa carica di allenatore dell’Inghilterra – rappresenta senz’altro una data spartiacque. Revie però non fu il solo; il Qatar con Frank Wignall, l’Arabia Saudita con Puskás e il Kuwait, prima con Zagallo e poi con Carlos Alberto Parreira, si affidarono ad allenatori stranieri per cercare, attraverso il pallone, di rafforzare allo stesso tempo sia il sentimento identitario nazionale sia il loro profilo internazionale. Proprio il Kuwait riuscì nel 1982 ad ottenere una storica qualificazione, ma nel 1990 la guerra del Golfo mise la parola fine ai suoi progressi calcistici.
Le trasformazioni impresse al calcio internazionale durante la sua presidenza vennero accolte in modo ambivalente dagli altri alti dirigenti della FIFA. Se per il messicano Guillermo Cañedo, Havelange aveva trasformato «quella che era un’amministrazione del calcio conservatrice in un’istituzione sportiva dinamica», per l’italiano Artemio Franchi, il brasiliano «aveva rovinato la Coppa del mondo, svendendola agli afro-asiatici». Al di là di queste due posizioni, riflesso della palese spaccatura geopolitica creatasi in seno alla FIFA, le elezioni del 1974 furono a tutti gli effetti uno spartiacque. Sotto la sua presidenza la FIFA si professionalizzò sul piano amministrativo e assunse un ruolo assai più proattivo nell’organizzazione dei Mondiali, che fino a quel momento era stata sostanzialmente delegata ai Paesi ospitanti. Di conseguenza se ancora «Argentina 1978 appartenne alla Giunta, Spagna 1982 fu senz’altro il Mondiale di João Havelange». Inoltre i successivi 25 anni del suo ‘regno’ contribuirono a trasformare radicalmente la FIFA in una moderna ed efficiente – sebbene tutt’altro che trasparente – organizzazione non-governativa, aperta alle sfide del nuovo mercato globale che stavano emergendo con la fine del sistema di Bretton Woods (1971) e la successiva deregulation di matrice neoliberale degli anni Ottanta. Il calcio divenne sempre più globale e i Mondiali, non senza corruttele, divennero il momento culminante della relazione di interessi fra i vertici della FIFA, quelli delle aziende-sponsor e quelli del sistema mediatico. L’impatto dell’elezione di Havelange andò peraltro ben oltre il mondo del calcio, in quanto segnalò uno spostamento degli equilibri di potere che coinvolse anche il CIO, con l’elezione di Samaranch nel 1980, e la federazione mondiale di atletica, con l’elezione di Nebiolo nel 1981; anch’essi eletti grazie alla regia occulta di Horst Dassler.