E così, la finale che sembrava non dovesse avere fine - e che, da un certo punto di vista, non è stata neppure la vera finale - una fine invece ce l’ha avuta: il nome del River Plate è quello che da ieri sera troneggia sulla placca metallica incastonata sulla base della Copa Libertadores, e anche quello che rappresenterà il Sudamerica al prossimo Mondiale per Club. Ho voluto salvare nel disco rigido quattro istantanee significative della finale di Madrid, prima che la memoria nel suo processo naturale di metabolizzazione non rimetta il calcio giocato nell’angolo, per privilegiare il ricordo di ciò che è successo intorno a questa partita, che probabilmente sarà il motivo principale per cui ricorderemo per sempre questa edizione della Libertadores.
Le esultanze di Pratto e Benedetto
Mark Twain una volta ha scritto che “irriverenza” è la parola che usiamo per definire un comportamento irrispettoso di qualcuno nei confronti del nostro Dio; però, continuava, non esiste una parola che sappia parimenti descrivere la nostra insolenza nei confronti del Dio altrui. Quando Lucas Pratto incrocia le braccia nella posa di un eroe greco un po’ altezzoso, non si capisce bene se stia sublimando la sua gloria, quella del guerriero che risponde colpo su colpo, o stia - con uno slancio in fondo ancora più sfacciato - semplicemente pareggiando l’affronto impertinente che il suo alter ego, il rivale speculare, il nueve degli avversari, ha perpetrato una ventina di minuti prima.
Foto di Gabriel Bouys / Getty Images
Buona parte della storia del Superclásico in Finale di Libertadores, l’ha scritta il beef a distanza tra “el oso” (cioè, letteralmente, l'orso) Pratto e il “Pipa” Benedetto: nel computo finale si troveranno in parità, due reti per uno, una all’andata, l’altra al ritorno. Pratto, in più, ha anche il merito di aver favorito l’autorete di Izquierdoz, alla Bombonera, che è valsa la parità finale; mentre Benedetto, dalla sua, ha il demerito di non aver concretizzato el toque de la muerte che Tévez gli aveva estratto come si estrae la lama di un coltello a serramanico, a pochi minuti dalla fine, sempre alla Bombonera, l’occasione che avrebbe cambiato tutto.
Lo scontro tra finalizzatori, ovviamente, non è che una parte di quello più grande e complesso, una delle tante variabili che decidono l’esito di una partita così difficile. Per questo l’esultanza dopo ogni gol ci sembra sempre un’esultanza da megalomani, perché fa finta di non tenere conto di tutto quello che può - deve - ancora succedere. Quando “Pipa” Benedetto, ad esempio, ha portato in vantaggio il Boca a pochi secondi dalla fine del primo tempo della finale di Madrid, ha esultato in questa maniera.
Foto di Gabriel Bouys / Getty Images
E chissà, magari se le cose fossero andate diversamente l’immagine più iconica di questo Superclásico, quella destinata a una memoria imperitura, a ingiallire sui santini dei taxi di Buenos Aires, o a raggrinzire sulla pelle di tifosi, sarebbe stata proprio la linguaccia irriverente di Benedetto a Gonzalo Montiel, in quel momento metonimia del River.
Se le cose fossero andate diversamente, l’espressione del “Pipa” - una maschera da teatro Noh, o da demone mesoamericano - sarebbero rimaste impresse come l’epitome di una maleducazione machista, un gesto di smacco simile all’altra presunta manifestazione di irriverenza con la quale sembrerebbe che Benedetto abbia apostrofato un tifoso del River che non voleva lasciare il Monumental, il giorno della sospensione: «vattene a casa, povero, che domani devi andare a lavorare».
Mi piace pensare che l’esultanza di Pratto, allora, rappresenti una specie di nobile pudore, la reazione di un reietto che per trovare una dimensione onorevole ha dovuto fare dei giri immensi, sempre ai margini, e che adesso può stare fermo a guardarsi indietro. Mi piace pensare, cioè, che alle urla di Benedetto, al suo "Boca" gridato verso la Doce, alla sua linguaccia, Pratto abbia risposto con la compostezza e la consapevolezza di chi sta passando la spugna sulla lavagna, per ricominciare da capo. La dimostrazione che a ogni azione fa seguito una reazione.
Quintero deus ex-machina
Che Juanfer Quintero potesse essere il grimaldello con cui aprire la Libertadores, nella testa di Gallardo, forse non è stata mai un’ipotesi realistica: non è mai stato l’ideale sostituto di Borré - squalificato - almeno non più di quanto non lo fosse Nacho Fernández, ma si è calato come un deus ex-machina sulla partita, segnandone lo spartiacque degli esiti. La Banda era in svantaggio, il "Pity" Martínez visibilmente sottotono e Ponzio affaticato (e già ammonito): serviva un enganche che apportasse dinamismo e allo stesso tempo fantasia, un giocatore di quelli che sanno condensare, in un movimento fluido, la giocata che nasce dalla rapidità di pensiero.
In un pezzo su di lui uscito subito dopo il Mondiale che ce lo aveva fatto (ri)scoprire pienamente redivivo, Francesco Lisanti aveva notato come ogni post in Instagram di Quintero riportasse la didascalia “I tempi di Dio sono perfetti”. «È una frase che racchiude l’equivoco Quintero», continuava, «perché è chiaro che è una scusa pigrissima, che continua impunito a prendersela comoda, che si sta nascondendo dietro un aforisma».
Forse, invece, i tempi di Dio sono davvero così perfetti. Di certo lo è la scelta dei tempi di Juanfer. Il gol che ha spostato gli equilibri della finale è un ottimo esempio delle ragioni che rendono Quintero una delizia, la sensibilità con cui ammaestra il pallone e trasforma il passaggio orizzontale in una frustata sotto la traversa è esattamente il tipo di giocata che ci fa rizzare i peli sulle braccia.
Ma Quintero ha condito la sua partita anche con un gesto di una bellezza più barocca, ma altrettanto decisivo: il colpo di tacco con cui aggira l’ultimo baluardo xenéize al limite dell’area del River, lanciando il contropiede che porta al gol del 3-1 del "Pity". Il tipo di giocata che marca la differenza tra un pazzo e uno svitato, che, come diceva Cortázar, «consiste nel fatto che il matto tende a credersi assennato, mentre lo svitato, senza riflettere sistematicamente sulla questione [...] va per la sua strada senza preoccuparsi di rigare dritto, anzi va piuttosto controcorrente, e così succede che mentre tutti frenano quando vedono un semaforo rosso, lui preme l’acceleratore, e che Dio ce la mandi buona».
La resa del "Pintita"
Più della maglia verde fluo del portiere, Andrada, che staziona fissa nell’area del River per gli ultimi cinque minuti, e più del suono sordo del tiro di Jara che sbatte sul palo a quindici secondi dalla fine dei tempi supplementari, la resa del Boca è tutta negli ultimi istanti della carriera, sfortunata e per certi versi ingenerosa, di Fernando Gago.
La mistica non è mai garanzia di successo, e non lo è mai stata per Gago. Gli ultimi sei minuti della sua parabola in Albiceleste, dopotutto, ne erano stati una buona anticipazione: nel suo stadio (la Bombonera, appunto), in una partita decisiva per la qualificazione a un Mondiale che stava malinconicamente scivolando via (contro il Perù), era rimasto in campo giusto il tempo di rompersi il legamento crociato. In quel caso, però, la voglia di continuare a giocarenonostante tutto ci era sembrata la testimonianza di una dedizione valorosa.
Tre volte si è rotto il tendine d’Achille, Gago: sempre contro il River. Un cruccio nel quale aveva sempre cullato l’idea di poter tornare, un giorno, e dissolvere la malvagità dell’accanimento delle coincidenze. E invece l’ultima capitolazione, la più dolorosa perché inappellabile, è avvenuta nello stadio in cui ha coltivato la speranza di quella esplosione europea che non si è mai concretizzata del tutto.
La mestizia con cui ha lasciato i suoi in nove - e dopo l’espulsione di Barrios di fatto senza più centrocampo, per quanto potesse contare a quel punto - è stata la sfumatura più fosca di questa sconfitta: resa, catastrofe e addio allo stesso tempo. Una ferita minore, parallela alla lacerazione fatale, ma non per questo meno dolorosa, anzi.
La firma del "Pity"
Quando tra dieci anni ripenseremo a questa finale di Libertadores e guarderemo i film che avrà ispirato, le ricostruzioni ci riporteranno alla memoria un mese folle - di una follia malata, virulenta e cancrenosa - e ci tornerà in mente anche la corsa a campo aperto del "Pity" Martínez lanciato da Quintero. Una corsa non particolarmente aggraziata, ma pur sempre l’ultima battuta dell’ultimo atto di una partita tesa, il touch-down finale, il momento del KO. Nessuno, in diretta, si è concentrato sull’esultanza del "Pity": le immagini televisive staccano sui giocatori della panchina che entrano in campo, che corrono ad abbracciare Armani.
Il gol del "Pity" non è un gol fondamentale, se non nella misura in cui - in un contesto in cui sembrava che davvero qualsiasi cosa potesse accadere, e il finale definitivo non dovesse arrivare mai - accompagna l’inchino della compagnia intera davanti al pubblico.
Foto di Laurence Griffiths / Getty Images
Non ha giocato una finale di Libertadores memorabile, il "Pity": né alla Bombonera, dove ha brillato solo nella trama chirurgica con cui ha innescato Pratto per il suo primo gol, né tantomeno a Madrid, dove è spesso apparso frustrato, inconcludente, al di sotto delle aspettative. Era alla sua ultima partita: dalla prossima stagione giocherà in MLS, per la quale costituisce forse l’acquisto più illustre del passato recente.
Eppure, prima di andarsene, è entrato nella storia dei Millonarios per rimanerci per sempre: come il nostro Tardelli a braccia spalancate, come un barillete cosmico senza avversari da seminare, con la consapevolezza che nella leggenda, a volte, si può entrare anche dalla porta di servizio sul retro, senza per questo doversene vergognare.